DIVORZIO (XIII, p. 68)
L'istituto del divorzio si è venuto riaffermando nell'età moderna di pari passo con l'affermazione dello stato laico nei confronti della Chiesa cattolica, la quale sempre lo ha combattuto come contrario ai suoi principî. E i soli paesi civili, nei quali esso incontra seria resistenza, e non è stato accolto, sono paesi a forte tradizione cattolica: l'Italia, la Spagna, l'Irlanda, il Brasile, l'Argentina, il Chile, la Colombia, il Paraguay. Tuttavia, da una parte l'ondata di laicismo collegata con la crisi sociale dei nostri tempi, e dall'altra la difficoltà di molte situazioni matrimoniali, determinata dalla guerra, hanno fatto tornare d'attualità il problema, anche nei paesi fedeli all'indissolubilità del matrimonio.
Di recente la Bolivia e il Perù hanno introdotto il divorzio. Per contro, la Spagna, che con l'instaurazione della repubblica lo aveva introdotto nel 1932, lo ha soppresso nel 1938 con l'affermarsi del franchismo. In Italia, con la caduta del fascismo - il quale lo aveva messo a tacere il problema è tornato ad essere discusso. Prima del fascismo più volte esso era stato posto in Parlamento. Quattro disegni di legge furono presentati dal Morelli tra il 1876 e il 1880; due dal Villa (la prima volta da ministro, la seconda da deputato) nel 1881 e nel 1903; uno da Berenini e Borciani nel 1901; uno dai ministri Zanardelli e Cocco-Ortu nel 1902; l'ultimo da Marangoni e Lazzari nel 1920. Ma nessuno ebbe fortuna; e l'opposizione, specialmente dei cattolici, fu sempre assai salda e consapevole.
Nell'art. 29 della Costituzione italiana 1948 il principio della indissolubilità del matrimonio non risulta enunciato, essendo affermato soltanto nel cod. civ. (art. 149), ed è quindi suscettibile di esser modificato mediante la procedura delle leggi ordinarie. Peraltro, per ciò che riguarda il matrimonio concordatario, che oggi è in Italia di gran lunga il più frequente, il principio enunciato nell'art. 7 della Costituzione, secondo cui le modificazioni dei Patti lateranensi possono avvenire soltanto con accordi bilaterali (per la cui approvazione non è però necessaria la procedura di revisione costituzionale), fa sì che, fin quando il Concordato del 1929 rimarrà in vigore, il divorzio non potrà venire introdotto da una legge ordiuaria.
De iure condito il divorzio non è dunque ammesso in Italia per i cittadini italiani. Né i giudici italiani potrebbero dichiarare esecutiva in Italia una sentenza di divorzio di cittadini italiani pronunciata all'estero. L'ordinamento italiano ha tollerato il divorzio soltanto per i sudditi non cattolici delle colonie.
Per ciò che riguarda invece il divorzio degli stranieri, ha vigore la seconda Convenzione dell'Aia del 12 giugno 1902. Con essa l'Italia si è obbligata a dare esecuzione alle sentenze di divorzio pronunciate negli altri stati contraenti, sempre che il divorzio sia nel caso specifico consentito tanto dalla legge nazionale dei coniugi, quanto da quella del giudice.
Molte questioni ha suscitato in dottrina e in giurisprudenza l'applicazione delle norme contenute nella Convenzione. L'interpretazione pare oggi tuttavia consolidata nel senso che: a) non considerando lo stato italiano contrario al proprio ordine pubblico il dare esecuzione a una sentenza di divorzio tra stranieri, i giudici italiani possono dichiarare esecutive anche le sentenze di divorzio pronunciate in paesi non aderenti alla Convenzione; b) il Concordato con la S. Sede, rivolto a disciplinare il matrimonio dei cittadini italiani, non è da considerare incompatibile col contenuto della Convenzione, intesa a disciplinare il divorzio dei cittadini stranieri (il divorzio può anzi esser dichiarato esecutivo in Italia anche quando i coniugi stranieri fossero stati uniti mediante matrimonio concordatario italiano); c) non può esser considerato in frode alla legge, e come tale non dichiarato esecutivo, il divorzio ottenuto all'estero da italiani, i quali abbiano acquistato a tal fine la cittadinanza straniera (di massima in tal caso il governo si avvale dell'art. 9 della legge 13 giugno 1912, n. 555, per inibire il riacquisto della cittadinanza italiana).
Maggiori dubbî suscita invece ancora il problema se i giudici italiani possano essi stessi pronunciare delle sentenze di divorzio (sempre naturalmente tra stranieri). L'orientamento negativo, il quale era di gran lunga prevalente, è oggi contrastato.
Bibl.: A. Bergmann, Das internationale Eherecht, III, Berlino 1926-28; E. Audinet, Les conflits de loi en matière de divorce et de séparation de corps, in Acad. de dr. int., Rec. des cours, 1926, I, p. 175 segg.; A. Cicu, Il diritto di famiglia, Roma 1915; G. Balladore-Pallieri, Diritto internazionale ecclesiastico, Padova 1940; G. Brunelli, Divorzio e nullità di matrimonio negli stati d'Europa, Milano 1937; A.P. Sereni, Divorzio, in Nuovo digesto italiano, XI; U. Bassano, in Foro italiano, 1943; I; G. Bosco, ibid., 1948; I; M. Udina, ibid., 1948.