Abstract
Nell’ambito delle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza viene esaminata la fattispecie di «Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico», ricostruendone la effettiva oggettività al di là della collocazione sistematica, attraverso la esatta individuazione del significato giuridico-normativo della norma incentrato sulla correlazione necessaria tra la pubblicazione o diffusione della notizia e la falsità della stessa.
Nell’ambito di uno studio avente per oggetto una fattispecie di reato, l’operazione preliminare consiste nella precisa individuazione della materia, perché la precisazione di un obiettivo è il primo piano dal punto di vista metodologico, di ogni indagine. Certamente, l’obiettivo non può coincidere con la completa acquisizione concettuale della materia oggetto di indagine, perché la completezza (per quanto è possibile) della conoscenza della materia potrà essere attinta soltanto alla fine dell’indagine; tuttavia la mira deve essere sufficientemente precisa, perché altrimenti l’indagine risulterebbe dispersiva se non addirittura fuorviante, in quanto inquinata dalla mescolanza di elementi non pertinenti. Un metodo empirico, ma tradizionalmente affidabile, è quello di utilizzare indici rappresentativi di una categoria logica – nel caso: la falsità, la falsificazione – per appuntare l’attenzione sui materiali di indagine che presentano tale elemento sintomatico, salvo poi verificare se la presenza dell’indice corrisponde all’appartenenza alla categoria della ricerca. Ad esempio, l’art. 656 c.p. presenta l’indice della falsità e ciò induce alla verifica; tuttavia, la considerazione che tale contravvenzione non compare tra quelle contro la fede pubblica ma è ricompresa tra quelle contro l’ordine pubblico lascia fin dall’inizio dubitare della sintomaticità di tale indice.
L’art. 656 c.p. prevede come reato la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico (sul punto: Chiarotti, F., Diffusione o pubblicazione di notizie false o tendenziose, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 515; De Vero, G., Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988; Spagnolo, G., Inosservanza di provvedimenti di polizia, in Enc. giur. Treccani, 1989, 6; Sabatini, G., Provvedimenti di polizia, in Nss.D.I., vol. XIV, Torino, 1967, 444; Vigna, P.G.-Bellagamba, G., Le contravvenzioni nel codice penale, Milano, 1974; Alessandri, A., Osservazioni sulle notizie false, esagerate o tendenziose, in Riv .it. dir. proc. pen., 1973, Milano, 708; Rosso, G., Ordine pubblico (contravvenzioni relative all’), in Nss.D.I., vol XIV, Torino, 1967, 135).
Il reato in questione è contravvenzionale e trova collocazione sistematica, nel codice vigente, nel titolo dedicato alle contravvenzioni di polizia e, più precisamente, nel capo relativo alle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza, nella sezione che riguarda l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica, nel paragrafo che disciplina l’inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose o pericolose. Ovviamente, la collocazione sistematica ha soltanto un valore indiziario, sicuramente importante ma non determinante, rispetto alla individuazione dell’oggettività giuridica della norma incriminatrice.
Non sono rari i casi nei quali, nel codice vigente, anche a causa degli innesti, delle abrogazioni e delle trasformazioni dovute alle riforme che si sono susseguite, si può dubitare dell’esattezza della collocazione sistematica di una norma: un esempio macroscopico di tale atteggiamento critico verso la collocazione sistematica edittale è dato dalla teoria della plurioffensività, teoria che contraddice radicalmente la validità di una sistematica basata su un elemento qualificante e unificante. Se si ammette la plurioffensività, lo stesso reato può essere collocato sistematicamente in uno o in un altro dei Tòpoi del codice; e ciò scambievolmente, a seconda di quanto si lasci apprezzare l’uno o l’altro dei contenuti d’offesa che, secondo tale teoria, coesisterebbero nel reato. Ma non è sotto questo profilo – e in adesione a impostazioni di questo tipo – che si è affermato il valore non determinante della collocazione sistematica; ciò che si vuole sostenere è, molto semplicemente, che è dalla singola norma, per sé considerata, che deve essere tratto il significato giuridico e normativo. Insomma, così come all’interpretazione sistematica si fa ricorso per integrare o per confermare l’interpretazione letterale, alla collocazione sistematica non si può assegnare un ruolo dominante nella determinazione dell’oggettività giuridica di una norma. A favore di questa scelta metodologica militano non soltanto i criteri logici della giustificazione delle norme, ma anche il canone fondato sul tradizionale principio di frammentarietà. Ciò premesso in punto di metodo, quale risulta essere il significato giuridico e normativo dell’art. 656 c.p. per sé considerato?
Il quesito formulato nel paragrafo precedente, obbliga ad una preliminare indagine su come la Corte costituzionale abbia interpretato l’oggetto di tutela della norma in esame, suscitando peraltro, numerose reazioni da parte della dottrina.
Il Giudice delle Leggi, più volte chiamato a decidere sulla legittimità costituzionale dell’art. 656 c.p., con tre successive sentenze (C. cost., 16.3.1962, n. 19; 19.12.1972, n. 199; 3.8.1976, n. 210), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 21 Cost., precisando che il diritto di libera manifestazione del pensiero non costituisce un caso di «esonero di responsabilità per il pensiero ormai manifestato», ma trova un limite «nella necessità di non incidere nel campo degli altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti», tra cui sicuramente trova spazio l’ordine pubblico «inteso nel senso di ordine legale su cui si poggia la convivenza sociale», costituendo «un bene collettivo, che non è dammeno della libertà di manifestazione del pensiero».
Specifica la Corte che «l’esigenza dell’ordine pubblico non è affatto estranea agli ordinamenti democratici e legalitari, nè è incompatibile con essi»; evincendosi tutto ciò chiaramente dalla Costituzione che fonda il regime democratico e legalitario «sull’appartenenza della sovranità al popolo (art. 1), sull’eguaglianza dei cittadini (art. 3) e sull’impero della legge artt. 54, 76-79, 97-98, 101, ecc.»; significando ciò che «gli obiettivi consentiti ai consociati e alle formazioni sociali non possono non essere realizzati se non con gli strumenti e attraverso i procedimenti previsti dalle leggi». Se ne deduce che il “turbamento dell’ordine pubblico”, pretende «l’insorgere di un concreto ed effettivo stato di minaccia per l’ordine legale mediante mezzi illegali idonei a scuoterlo», e quindi qualsiasi norma legislativa, dettata per evitare tali turbamenti, non può presentare un contrasto con la Costituzione. Conclude quindi la Corte: «la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nella esigenza che attraverso l’esercizio di essi non vengano sacrificati beni, ugualmente garantiti dalla Costituzione».
Parte della dottrina ha criticato la succitata ricostruzione di ordine pubblico, affermando che la Corte «indugia su formulazioni generiche e tautologiche, assolutamente inidonee ad individuare il corrispondente preteso limite alla libertà di manifestazione del pensiero»; auspica, quindi, «un intervento coraggioso» che dichiari la illegittimità costituzionale della norma (De Vero, G., Inosservanza di provvedimenti di polizia e manifestazioni sediziose e pericolose, in Dig. pen., vol. VII , Torino, 1993, 83).
Si afferma, quindi, come la tutela dei reati contro l’ordine pubblico, incentrati su fatti di espressione o di associazione, debba collegarsi alla nozione di «sicurezza pubblica in termini di integrità personale-esistenziale di una pluralità indeterminata di soggetti che siano compresenti in un medesimo circoscritto contesto ambientale ... a fronte di un immediato e manifesto dispiegarsi della violenza fisica»; tutto quanto premesso, non sembra individuarsi, ad avviso dell’autore, nella formulazione dell’art. 656 c.p., ruotando la fattispecie intorno al concetto di “pubblicazione”, e mancando ogni riferimento ad una «compresenza di agente e pluralità di destinatari» (De Vero, G., Sicurezza pubblica nel diritto penale in Dig. pen., XIII, Torino, 286).
Altra dottrina invece, evidenziando positivamente quanto sostenuto dalla Corte sul concetto di ordine pubblico costituzionalmente garantito e sul bilanciamento con gli altri diritti costituzionali, afferma che «lo stato ha, per definizione come propri fini (in sè) essenziali quelli inerenti alla sua sopravvivenza ed alla tutela delle condizioni necessarie al suo ordinato svolgersi», risultando essenziale «che essi possano essere perseguiti anche in presenza dei diritti garantiti dagli artt. 13 ss. Cost., rafforzandone ... il valore e la vigenza» (Marini, G., Ordine pubblico (delitti contro l’), in Nss.D.I.,vol. XII, 580).
Di qui si sottolinea come la Corte abbia da un lato, evidenziato l’esigenza di proporzionalità nella tutela penale dell’ordine pubblico, dall’altro, ribadito che i diritti costituzionalmente garantiti, tra cui la libertà di manifestazione del pensiero, possono essere sacrificati solo se necessario per la tutela di altri beni di rilievo costituzionale, valutandosi così la costituzionalità di una norma dalla concreta offensività di interessi rilevanti nell’ambito dei valori costituzionali, esorcizzandosi definitivamente, la fattispecie dei reati di opinione (Pedrazzi, C., Sentenze manipolative in materia penale?, in Riv. it. dir. pen., 1974, 444).
In tale direzione, attraverso una impostazione realistica, che postula la messa in pericolo concreta del bene oggetto di tutela, si è riportata la nozione di ordine pubblico di cui all’art. 656 c.p., nell’ambito «del regolare andamento della vita quotidiana ... quale generale sicurezza a cui corrisponde nei singoli cittadini l’assenza di emozioni violente» (Caraccioli, I., Brevi cenni sulla nozione di ordine pubblico nelle art. 656 c.p., in Riv. it. dir. pen., 1962, 797; per la dottrina costituzionale cfr. Barile, P., La libertà di espressione del pensiero e le notizie false, esagerate e tendenziose, in Foro it., 1962, I, 855).
La norma dell’art. 656 c.p. descrive un fatto consistente nella pubblicazione o nella diffusione di notizie false, esagerate tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico.
Il primo elemento costitutivo del fatto – la pubblicazione o la diffusione di notizie – è anche quello la cui determinazione in concreto risulta più agevole. Infatti, il binomio pubblicazione-notizie rinvia a un significato preciso, quello dell’utilizzazione di un qualunque mezzo audio-visivo o telematico che sia o possa costituire un canale di informazione. Però, l’aggiunzione in alternativa della diffusione alla pubblicazione rende evidente che il contenuto prescrittivo della norma comprende anche l’utilizzazione di mezzi di comunicazione paralleli a quelli che designano la pubblicazione in senso proprio e dunque non istituzionalizzati allo scopo ma tuttavia efficienti nell’esito diffusivo della notizia, anche se tale risultato è raggiunto con mezzi occasionali o addirittura illeciti. A fronte di ciò, il limite edittale di applicazione della norma appare essere quello della mera propalazione di notizie, come diceria o voce passata di bocca in bocca, quasi una sorta di ciarlataneria, ma che come tale non è caratterizzata dalla direzione della comunicazione verso chiunque sia componente di una collettività e quindi potenzialmente verso un esito diffusivo totale: il passa-parola, sul tipo della catena di S. Antonio, o l’allocuzione pubblica di un oratore improvvisato, sul tipo di quelli del cd. speakers corner ad Hyde Park, esulano dall’ambito precettivo della norma dell’art. 656 c.p. E tutto ciò si evince indubbiamente dalla Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, dove si sottolinea che la condotta del pubblicare o diffondere non può comprendere la comunicazione fatta ad una sola persona in quanto ciò «esclude di per sé la possibilità di turbamento dell’ordine pubblico».
Dottrina e giurisprudenza per lo più unanimemente, attribuiscono alla “pubblicazione” il significato specifico di diffusione mediante il mezzo della stampa, rispetto alla più ampia condotta di “diffusione” da intendersi come divulgazione, propalazione con qualsiasi mezzo diverso dalla pubblicazione, purché diretto a più soggetti (V. Chiarotti, F., Diffusione, cit., 515; contra: De Vero, G., Inosservanza, cit., 83). Se così non fosse, se cioè l’espressione “pubblicare”, non avesse uno specifico riferimento alla stampa, diventerebbe superflua perché già contenuta nella seconda espressione “diffondere”.
Per rientrare nel campo di applicabilità della norma in parola, la pubblicazione o la diffusione devono avere come contenuto la narrazione di avvenimenti, devono cioè consistere nel resoconto di fatti presentati e rappresentati come reali, cioè come realmente accaduti.
La pubblicazione o la diffusione di una notizia attiene dunque alla cronaca, intesa come (oggettiva) descrizione di fatti reali, per la quale la nota di oggettività deriva dall’affermazione, tanto tradizionale quanto convenzionale, della (presunta) neutralità della realtà: si afferma, infatti, che realtà e verità sono due facce dello stesso fatto (reale e quindi vero). Si trascura, però, se ci si ferma a questo stadio del ragionamento, che per quanto la verità della realtà sia ostensiva e cioè si offra a tutti proprio perché sta lì, la sua descrizione risente inevitabilmente della trasformazione dipendente dalla capacità di percezione dell’osservatore nonché della deformazione dovuta all’uso di un qualunque linguaggio nel quale la scelta di una parola invece di un’altra può produrre diversità di significati o quanto meno possibilità di fraintendimenti; una lettura del Vangelo sul punto, collega l’esposizione di Gesù da parte di Pilato, Ecce Homo, all’apparizione e alla manifestazione della verità: quid est veritas? est qui idest; (Giovanni 18-37, 38 e 19-5).
Ciò che si intende dire è che la norma dell’art. 656 c.p. riguarda la cronaca in quanto punisce la pubblicazione o la diffusione di notizie dotate di particolari qualifiche e attitudini, ma ciò non significa che con tale determinazione di campo si sia accettata la distinzione tra cronaca – come resoconto di fatti reali e quindi veri – e critica come manifestazione di opinione ovvero come presa di posizione verso i fatti. Se si rifiuta il criterio della verità, perché è disagevole usare un concetto metafisico come strumento di qualificazione giuridica (cfr. Ramacci, F., Cronaca e verità, in Diritto e società, 1980), la distinzione tra cronaca e critica diventa labile e deve limitarsi alla individuazione, nell’ambito dello stesso contesto lessicale, di ciò che attiene al resoconto di fatti per tenerlo separato da ciò che è manifestazione di opinione e cioè apprezzamento soggettivo dei fatti in base a valutazioni ed a prese di posizione di carattere etico o di matrice ideologica. In altri termini: la pretesa neutralità o obiettività della cronaca rappresenta un’aspirazione, quella della perfetta correttezza deontologica, che è fuori dal mondo della prassi perché la materia di fissare limiti coincidenti con il vero storico risulterebbe compressiva della libertà di cronaca.
Nell’individuazione di un autonomo diritto di cronaca, da intendersi come facoltà di pubblicare accadimenti reali, in assenza di norme che ne disciplinano il contenuto, la giurisprudenza ha svolto un ruolo determinante, identificandone i presupposti.
Dopo una lunga e travagliata elaborazione in sede applicativa, sono state poste tre condizioni che ne legittimano l’esercizio: la verità della notizia pubblicata, l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti in relazione alla loro attualità e rilevanza (pertinenza), l’esigenza che l’informazione sia mantenuta nei limiti della obiettività o della serenità e in una forma espositiva corretta, cd. “continenza” (cfr. Cass. pen., S.U., 26.3.1983, in Cass. pen., 1983, 1944).
L’iniziale indirizzo rigorista dell’organo nomofilattico basato su «una esposizione dei fatti contraddistinta dalla correlazione tra l’oggettivamente narrato ed il realmente accaduto», è stato rivisto dalla giurisprudenza successiva, che non sembra pretendere la verità in ogni caso della notizia, ritenendo sufficiente un serio accertamento inteso come obbligo di controllarne la verità (Cass. pen., 7.7.1987, in Cass. pen., 1989, 51; da ultimo G.i.p. Milano, 16.5.2011, in Foro ambrosiano, 2011, II, 133).
Il diritto di critica, in un primo momento strettamente correlato al diritto di cronaca, incontrava gli stessi invalicabili limiti costituiti dall’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati, alla verità degli stessi e alla correttezza del linguaggio (Cass. pen., 7.10.1987, in Riv. pen., 1988, 854). Solo più di recente, la giurisprudenza, fermo restando il limite della verità obiettiva dei fatti inteso come presupposto irrinunciabile del diritto di dissentire, ha ritenuto di dover valutare in modo più ampio il limite della pertinenza e continenza, dilatandone l’ambito, nel rispetto comunque del linguaggio adottato, soprattutto in relazione alla critica politica dove maggiore è il confronto e la dialettica delle idee, e «preminente l’interesse generale al libero svolgimento della vita democratica» (cfr. Cass. pen., 28.1.2005, n. 15236).
Il diritto di critica, quindi, si differenzia da quello di cronaca perché a differenza di quest’ultimo «non si concreta nella narrazione di fatti bensì si esprime in un giudizio o più genericamente nella manifestazione di una opinione che sarebbe contraddittorio pretendere rigorosamente obiettiva» (Cass. pen., 16.4.1993, in Cass. pen., 1994, 586; Cass. pen., 8.4.2002, in Riv. pen., 2003, 34).
Senza anticipare quanto in seguito verrà detto, occorre affermare l’estraneità alla norma incriminatrice di qualsiasi condotta che, rifacendosi a fatti realmente accaduti, ne dia una interpretazione soggettiva.
A conforto di ciò si veda la pronuncia della C. cost., 29.12.1972, n. 199, che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 112 t.u.l.p.s. (r.d. 18.6.1931, n. 773) nella parte in cui fa divieto di mettere in circolazione scritti, disegni, immagini contrari agli ordinamenti costituiti dallo Stato, o lesivi del prestigio dello Stato o dell’autorità, o offensivi del sentimento nazionale, in quanto «la semplice e generica contrarietà agli ordinamenti costituiti non può essere titolo sufficiente a giustificare il divieto in uno stato democratico, che non solo consente la critica alle istituzioni vigenti, ma anzi da essa trae alimento per assicurare, in una libera dialettica delle idee, l’adeguamento delle medesime ai mutamenti intervenuti nella coscienza sociale».
L’interpretazione proposta, che limita alla cronaca l’ambito di applicabilità dell’art. 656 c.p. risulta strettamente aderente al precetto costituzionale per cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione.
Si può aggiungere, anzi, che proprio in forza della costituzionale libertà di opinione la formula linguistica usata nell’art. 656 c.p. deve essere interpretata restrittivamente: più precisamente essa deve essere ridotta alla pubblicazione o alla diffusione di notizie false, con la specificazione aggiuntiva che la falsità deve essere totale o parziale. Infatti, qualora si addivenisse all’interpretazione per cui la notizia esagerata potrebbe non essere falsa e quella tendenziosa non lo sarebbe affatto, perché sarebbe una notizia vera presentata in modo tendenzioso, si costruirebbero limiti alla libertà di opinione decisamente contrastanti con l’ampiezza di previsione dell’art. 21 Cost.
La notizia esagerata e quella tendenziosa sono tali in quanto il resoconto dei fatti è enfatizzato dall’osservatore la cui neutralità è insidiata dalla personale propensione a dare ad alcuni fatti un’importanza emblematica superiore a quella di altri, che dunque vengono trascurati o addirittura omessi, mentre gli altri vengono al contrario valorizzati.
Se si dovesse penalizzare la pubblicazione o la diffusione di notizie esagerate o tendenziose nel senso sopra indicato, si darebbe alla norma dell’art. 656 c.p. un significato decisamente contrario al pluralismo delle opinioni che costituisce il motore del metodo democratico basato sulla libera dialettica delle idee. Come sostenuto con chiarezza «non può esserci limitazione giuridica alla libertà di informare ad eccezione del buon costume ma, trovando l’esercizio di questa libertà la sua ragione d’essere nella proiezione sociale, esso deve essere svolto in modo conforme al fine e cioè nel rispetto delle regole scritte dalle quali si enuclea il principio costituzionale di solidarietà sociale, ma certamente anche delle regole non scritte della convivenza sociale: il rispetto della verità come esigenza etica fa certamente parte di queste ultime» (cfr. Ramacci, F., Cronaca e verità, cit.).
Dunque, se si vuole impostare correttamente la questione della rilevanza penale della pubblicazione o della diffusione di una notizia idonea a turbare l’ordine pubblico, la notizia deve in primo luogo essere falsa; quest’ultima, a differenza della voce caratterizzata da incontrollabilità e vaghezza, va intesa come annuncio o informazione e quindi, non può essere svincolata da elementi oggettivi di riferimento e di controllo. Anche la giurisprudenza è dell’avviso che la notizia debba rappresentare la realtà in modo difforme dal vero, escludendosi dalla previsione incriminatrice il comportamento di colui che, rifacendosi a fatti realmente accaduti, esprima valutazioni, critiche, previsioni, apprezzamenti tendenziosi sia pure in relazione a futuri sviluppi (così Cass. pen., 11.1.1977, in Riv. pen., 1977, 463; Trib. Melfi, 15.1.1980).
Quindi, è in tutto falsa la notizia che non trova rispondenza nei fatti, perché i fatti narrati non sono accaduti. È falsa in parte la notizia che risulta alterata rispetto alla realtà dei fatti, che non riproduce integralmente ma sui quali opera una selezione per cui alcuni risultano enfatizzati e altri sottovalutati o omessi; è altresì falsa in parte la notizia nella quale l’identificazione precisa dei fatti realmente avvenuti è coperta e preclusa dall’artificiosità della narrazione, che deforma il rispecchiamento della realtà.
A conforto di quanto sopra dedotto, si riportano alcuni passaggi della citata sentenza della C. cost. n. 19/1962, dove si afferma: «l’espressione ‘notizie false, esagerate o tendenziose’ è una forma di endiadi, con la quale il legislatore si è proposto di abbracciare ogni specie di notizie che, in qualche modo, rappresentino la realtà in modo alterato» quindi «per notizie tendenziose bisogna intendere quelle che pur riferendosi a cose vere, le presentino tuttavia in modo che chi le apprende possa avere una rappresentazione alterata della realtà» e proprio quest’ultima suscita in chi le apprende, una realtà manipolata, quindi una falsa-verità (auspica invece «un intervento coraggioso» della C. cost. che dichiari la illegittimità della norma «almeno in rapporto alle notizie tendenziose», De Vero, G., Inosservanza, cit., 83).
Il riferimento della Corte alla “endiadi”, nel senso della complementarità tra notizia falsa, esagerata o tendenziosa, fa concludere, per quanto attiene alle condotte descritte dall’art. 656 c.p., che trattasi di una norma a più fattispecie (cd. fattispecie alternative), disciplinando più modalità di previsione di un unico tipo di reato, la violazione delle quali può dar luogo solo ad un singolo reato (Mantovani, F., Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966).
La pubblicazione o la diffusione di notizie vere, o più precisamente non-false nel senso ora precisato esula dalla previsione dell’art. 656 c.p. anche quando sussiste l’idoneità della notizia a turbare l’ordine pubblico. Anzi, è più esatto dire che, poiché l’idoneità alla turbativa dell’ordine pubblico è presa in considerazione soltanto quando la notizia è falsa – e subordinatamente alla falsità – esula dalla previsione dell’art. 656 c.p. la pura e semplice falsità della notizia, perché è decisivo il collegamento tra la falsa notizia e la turbativa dell’ordine pubblico. Si può dunque affermare che, nella struttura della norma in esame, la falsificazione della notizia costituisce il mezzo attraverso il quale si aggredisce l’ordine pubblico. La falsificazione, in tutto o in parte, della notizia evidenzia un uso distorto della comunicazione che non è per sé punibile, ma che lo diventa quando la falsificazione della notizia la rende idonea a turbare l’ordine pubblico. Anche la giurisprudenza sembra allineata su questa posizione; si afferma in relazione ad una pubblicazione non veritiera di un atto di normale competenza di un ufficio giudiziario, l’insufficienza della falsità della pubblicazione alla configurazione del reato, non riscontrandosi nel caso di specie alcun turbamento dell’ordine pubblico (Trib. Roma, 15.10.1981, la pubblicazione riguardava l’avocazione da parte della P.G. dell’inchiesta sulla loggia massonica P2). Trova quindi conferma, attraverso l’interpretazione, la correttezza della collocazione sistematica dell’art. 656 c.p. e, al tempo stesso, trova spiegazione la perdurante vigenza della norma, che è passata indenne al vaglio di costituzionalità in vista della sua compatibilità con l’art. 21 Cost. In effetti, anche l’ordine pubblico, inteso come ordine nella legalità e quindi come sicurezza che promuove la tranquillità della convivenza sociale, è un bene collettivo di rango costituzionale così come lo è la libertà di informazione.
Questa può dunque trovare un limite in quello, ma la preminenza dell’una sull’altro o viceversa non può essere affermata in astratto, in base ad una gerarchia di norme costituzionali la cui formulazione sarebbe del tutto arbitraria, ma deve, invece, essere valutata in concreto, ponendo su un piatto della bilancia il quantum di (corretta) funzione informativa e sull’altro piatto il potenziale di pericolosità per l’ordine pubblico.
Quest’ultima osservazione anticipa la conclusione in ordine alla struttura del reato de quo. La contravvenzione prevista dall’art. 656 c.p. è un reato di pericolo, ma proprio la considerazione della sua compatibilità con l’art. 21 Cost. lascia propendere verso la sua definizione come reato di pericolo concreto piuttosto che astratto.
Il pericolo di turbamento dell’ordine pubblico dovrà riferirsi alla pubblicazione o diffusione di notizie, concernendo la materialità del reato, costituendone un elemento di qualificazione della fattispecie (in tal senso, Vigna, P.G.-Bellagamba, G., Le contravvenzioni, cit.; Sabatini, G., Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Milano, 1961).
La giurisprudenza maggioritaria riporta la fattispecie alla categoria dei reati di pericolo astratto, nel senso della necessità di un collegamento tra la diffusione della notizia non veritiera e la capacità (intesa come mera possibilità), di turbare l’ordine pubblico, bastando l’astratta possibilità al verificarsi del turbamento (Cass. pen., 1.7.1996, in Cass. pen., 1997, 2719); per cui anche la notizia già diffusa nell’opinione pubblica, configura reato. Si discostano da questo indirizzo alcune pronunce che non ritengono sufficiente, ai fini della configurabilità del reato, la diffusione della notizia, necessitando la derivazione di «un diffuso turbamento-apprensione, eccitazione, sfiducia suscettibile di riflettersi sull’ordine pubblico, elemento quest’ultimo che non può ritenersi implicito nella falsità o tendenziosità della notizia» (Cass. pen., 15.11.1974, in CED Cass., 129275; costruisce l’attitudine a turbare l’ordine pubblico, come ulteriore requisito oggetto di accertamento della notizia non veritiera: Cass. pen., 6.2.1976, in Cass. pen., 1976, 734).
La conclusione che ravvisa nell’art. 656 c.p., attraverso l’indicazione letterale dell’attitudine alla turbativa e non dell’idoneità alla turbativa medesima, un reato di pericolo astratto ridurrebbe considerevolmente l’importanza di questo elemento qualificante e costitutivo del fatto, facendolo pericolosamente avvicinare al ruolo di semplice condizione di punibilità. È noto che quest’ultima conclusione risale ad una dottrina remota, ancorché autorevole (Manzini, V., Trattato di diritto penale, X, Torino, 99) ma è chiaro altresì che si tratta di una posizione insostenibile. Essa si scontra, infatti, con l’impossibilità logica di identificare una condizione di punibilità, descritta dall’art. 44 c.p. come un evento e cioè come un accadimento concreto che è o non è, nella semplice probabilità di un evento (quale è il pericolo), nonché con l’interpretazione in senso costituzionalmente orientato dell’art. 656 c.p., nella quale le diverse qualificazioni della notizia pubblicata o diffusa devono considerarsi come elementi costitutivi, con particolare riguardo a quello della potenziale lesività per l’ordine pubblico, che serve a spiegare la compatibilità della norma in questione con l’art. 21 Cost. È stato scritto che l’inciso «per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico», «indica immediatamente per interpretazione grammaticale, una qualificazione delle notizie, non pure un evento incerto che condiziona la punibilità», d’altronde se così non fosse si confonderebbe «l’evento da cui dipende l’esistenza del reato’, e che è il risultato dell’azione od omissione con ‘l’evento da cui dipende il verificarsi della condizione» (Ramacci, F., Postille in tema di art. 656 c.p., Il turbamento dell’ordine pubblico è condizione obiettiva di punibilità o elemento del fatto?, in Archivio pen., 1962, II, 678).
D’altronde la Corte costituzionale con la sentenza n. 19/1962, aveva fugato gli ultimi dubbi in ordine alla necessità di accertamento del pericolo in concreto, rimettendo la valutazione della idoneità alla turbativa dell’ordine pubblico, al giudice «il quale la esegue secondo criteri obiettivi e rigorosi, tenendo presente l’effettiva realtà del momento».
Poiché l’art. 656 c.p. è una contravvenzione, la sua punibilità avviene tanto a titolo di dolo quanto a titolo di colpa. Ciò tuttavia, è affermato in via generale, in base alla regola fissata nell’art. 42 c.p., mentre sarebbe più corretto seguire una diversa strada, anche se poi, alla fine, le conclusioni coincidono. In effetti, la connessione tra la falsificazione in tutto o in parte della notizia e la potenziale turbativa dell’ordine pubblico – connessione che si è cercato prima di argomentare e spiegare – lascia propendere per la ricostruzione della fattispecie come ipotesi specificamente dolosa; residua tuttavia la valutazione dell’onere che può investire le varie componenti del fatto: se l’errore non è scusabile il fatto risulterà punibile a titolo di colpa, proprio in quanto si tratta di una contravvenzione.
Si è sostenuto che la falsità, esagerazione o tendenziosità della notizia, a differenza della sediziosità della stessa (di contenuto intrinsecamente intenzionale), ha natura obiettiva, per cui il requisito del dolo non può ritenersi implicitamente richiesto; l’errore non sarebbe rilevante, quando la notizia pubblicata e diffusa abbia le citate caratteristiche (Rosso, G., Ordine pubblico, cit., 141). L’agente potrà essere scusato solo se l’errore sulla falsità, esagerazione, tendenziosità delle notizie, risulti inevitabile, cioè sia addebitabile a circostanze obiettivamente apprezzabili non dipendenti dalla sua volontà (Cass. pen., 9.4.1974, cit.). Recentemente si è affermata la rilevanza dell’errore sul fatto e, conseguentemente, l’esclusione di responsabilità per un giornalista che, dopo aver verificato l’attendibilità e plausibilità della fonte, abbia pubblicato la notizia in forma dubitativa circa l’effettiva veridicità della stessa (G.i.p. Milano, 16.5.2011, cit.).
Lo Spielraum edittale tra minimo e massimo della pena prevista, che può essere anche di specie diversa, lascia spazio sufficiente per distinguere in concreto la risposta punitiva, a seconda che il reato sia commesso con dolo o per errore determinato da colpa.
L’art. 656 c.p. contiene una clausola di sussidiarietà nel senso che, tra la norma sussidiaria e quella primaria, si individua un rapporto di ordine tra norme in ragione della funzione di tutela. La norma primaria contiene un’offesa più grave rispetto alla sussidiaria nei confronti di fatti che, seppur omogenei, costituiscono un’offesa più grave in ragione della sanzione più severa. Infatti, la norma non è applicabile quando il fatto costituisce un più grave reato.
Non sembra che si tratti del caso di procurato allarme presso l’Autorità, previsto dall’art. 658 c.p., perché questo concorso di norme può essere agevolmente risolto in base al principio di specialità. La stessa considerazione vale anche per il disfattismo economico (art. 267 c.p.) e il disfattismo politico (art. 265 c.p.).
La clausola di sussidiarietà trova invece applicazione nei casi di aggiotaggio 501 c.p. (Rosso, G., Ordine pubblico, cit., 140), anche se da parte di una dottrina, in tale ipotesi, si sostiene un concorso di reati, mancando, tra le due norme, identità di bene giuridico (Chiarotti, F., Diffusione, cit., 516).
A ben vedere esse presentano elementi di condotta comuni, differenziandosi per l’oggetto di tutela: la diffusione delle notizie false, esagerate o tendenziose può risultare idonea da un lato, a provocare il rialzo o ribasso dei prezzi, dall’altro, a creare un turbamento per l’ordine pubblico; si tutela nell’art. 501 c.p., in modo più rigoroso, elevando la fattispecie a delitto, la pubblica economia, nell’art. 656 c.p., con una contravvenzione, peraltro oblabile, la sicurezza pubblica.
Per concludere, alla luce di quanto sin’ora affermato, si pone un quesito, e cioè, se sia esatto disciplinare più gravemente una condotta artificiosa, circoscritta alla lesione del sistema economico rispetto ad una stessa condotta, lesiva invece, dell’ordine pubblico come ricostruito nelle pagine precedenti: tutela della pacifica convivenza sociale, fondamento e fine ultimo di ogni Stato di diritto.
Artt. 267, 501, 656, 658 c.p.; artt. 13, 21,Cost.
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