Documentario
Il dilemma vero/falso
Con il termine documentario si intende, nell'uso comune, un film, di qualsiasi lunghezza, girato senza esplicite finalità di finzione, senza una sceneggiatura che pianifichi le riprese, e senza attori. Non a caso nei Paesi anglosassoni si impiega sempre più spesso il termine nonfiction. Alla base del d. c'è un rapporto ontologico con la realtà filmata, che si pretende restituita sullo schermo come si è manifestata davanti alla macchina da presa, senza mediazioni. Il film è il documento di tale realtà, la prova che le cose si sono svolte come risultano proiettate. Il cinema di finzione rappresenta invece una realtà mediata, manipolata dal regista per esprimere ciò che ha immaginato. È una realtà messa in scena.
Nel d. la macchina da presa è al servizio della realtà che le sta di fronte; nel film di finzione la realtà viene rielaborata per la macchina da presa. In quest'ultimo il patto implicito dello spettatore con lo schermo è: "so bene che ciò che vedo rappresentato non è vero, benché verosimile, e tuttavia ci credo"; nel d. egli dirà piuttosto: "ciò che vedo è vero, e non solo verosimile, e per questo ci credo". L'effetto magico di illusione di realtà che il cinema di finzione produce viene, per così dire, sospeso nel d., dove si evidenzia l'effetto probatorio.
Nella pratica le cose stanno un po' diversamente da come possono essere definite in teoria. It's all true e F for fake: tra questi due titoli di d. realizzati da O. Welles - il primo in Brasile nel 1942, rimasto incompiuto, e riassemblato ed edito nel 1993 da B. Krohn, M. Meisel e R. Wilson; il secondo in vari Paesi europei nel 1972-73 (si indicano qui e altrove due date, dall'inizio delle riprese all'uscita, dato il carattere particolare del d. rispetto al film di finzione) - si può inquadrare la problematica e i diversi aspetti di un genere che, nella sua evoluzione a partire dal cinema muto, sfugge alle definizioni assertorie.
Il termine documentario viene usato come aggettivo in riferimento al cinema fin dalle origini: per es., il polacco B. Matuszewski, proponendo nel 1898 un pionieristico progetto di cineteca, parlò di deposito di materiali cinematografici "di interesse documentario"; il fotografo e cineasta statunitense E.G. Curtis usò nel 1914 le locuzioni materiale documentario e opere documentarie per definire i propri film sui pellerossa. La critica storica tende però ad attribuire l'impiego cosciente del termine al cineasta e produttore scozzese J. Grierson che, recensendo Moana (1926; L'ultimo Eden) di R.J. Flaherty, parlò di "valore documentario" del film, per poi teorizzare il genere in vari saggi scritti nel 1932-1934 su Cinema quarterly. Va notato tuttavia che Grierson ritiene il valore documentario di Moana secondario rispetto al suo valore estetico, ponendo con ciò il dilemma proprio del genere. La messa in scena, congenita al cinema di finzione narrativo con attori, non è, né può essere, estranea al documentario. Per quanto reale e non manipolato sia il profilmico (ciò che la macchina da presa riprende), esso, fin dai tempi di A. e L. Lumière, non può evitare di essere inquadrato, e con ciò stesso selezionato e orientato. Inoltre, per quanto breve sia il film, come nei piani-sequenza di un minuto dei Lumière, il fatto stesso che ci sia un inizio e una fine implica inevitabilmente un embrione di narrazione, un'evoluzione del profilmico marcata da un prima e da un dopo. La realtà, in altre parole, è sempre, nel d. come nel film di finzione, una realtà 'registrata', quindi mediata, 'impura'. Flaherty, considerato il padre del genere, realizzò film, assai belli, con strutture narrative precise, pur se dissimili da quelle tipiche del film di finzione, e interpretati da attori, anche se non professionisti, chiamati a rivestire i panni di personaggi più che a essere sé stessi. È peraltro vero che la distinzione, prima che essere estetica, venne operata a livello produttivo: il film di finzione nacque come trasposizione cinematografica delle varie forme precedenti dello spettacolo teatrale (G. Méliès), il d. come aggiunta del movimento alla fotografia (Lumière); successivamente l'industria si incaricò di relegare il d. ai margini dello spettacolo cinematografico istituzionalizzato, facendone una forma specializzata di cinema.
Gli anni del muto
Il cinema nacque per documentare. Fu un documento scientifico negli esperimenti protocinematografici fatti negli anni Settanta dell'Ottocento dallo statunitense E. Muybridge e dal francese É.-J. Marey, dove la moltiplicazione di scatti fotografici ravvicinati (zooprassografia, cronofotografia) consentiva l'analisi del movimento, così scomposto, di animali o di esseri umani. Contemporaneamente, fra le evoluzioni e i perfezionamenti degli spettacoli della lanterna magica si distinse il prassinoscopio del francese É. Reynaud, che si situava sul versante opposto delle 'attrazioni', utilizzando non fotografie ma disegni in rapida successione, che davano l'illusione del movimento. Quando l'evoluzione tecnologica consentì negli anni seguenti, con lo statunitense T.A. Edison e i francesi Lumière, di portare le fotografie in successione a una cadenza tale da rendere la riproduzione del movimento verosimile e visibile agli spettatori, la dicotomia realtà-finzione era già in atto. Edison filmò scene di vissuta' ricostruite spesso in studio; i Lumière filmarono 'cartoline' in movimento, in Francia e poi in varie parti del mondo, secondo un modulo fisso con poche varianti, che era la forma essenziale di documentazione priva di apparenti intenti espressivi. Le 'vedute' che componevano i loro cataloghi si aprivano alla realtà, al contrario di quelle di Edison e di altri pionieri, come il francese Méliès e il catalano S. de Chomón, che portarono alle estreme conseguenze la concezione del nuovo mezzo come trucco. Non mancava peraltro nei cataloghi Lumière qualche 'veduta fantasmagorica', come non mancavano 'vedute all'aria aperta' in quelli di Méliès e di de Chomón. Il cinema delle origini mescolava volentieri nei programmi di spettacolo vari generi, compresi quelli che vennero definiti all'epoca travelogues (film di viaggio o turistici). Questa commistione si evolse successivamente nella composizione dello spettacolo cinematografico, dove il feature, il 'pezzo forte', ossia il film di finzione, era preceduto da cortometraggi (a carattere documentario o, meno spesso, di finzione), cinegiornali, comiche, pubblicità, secondo i casi e le epoche. Fu importante, agli inizi, il 'film di viaggio'. La possibilità offerta dal nuovo mezzo di abolire le distanze riproducendo luoghi lontani venne sfruttata da subito, a cominciare dai Lumière, a fini non soltanto documentari ma ben presto anche pubblicitari, per promuovere il turismo. Si ricordino, per fare un solo esempio, gli Hale's Tours (proiezioni di paesaggi che gli spettatori vedevano dal finestrino di finte carrozze ferroviarie in ambienti fieristici), promossi fra il 1905 e il 1912 dallo statunitense G.C. Hale. A sua volta, il ricco banchiere parigino A. Kahn promosse negli anni Dieci e Venti Les archives de la planète, commissionando vedute (tuttora conservate) di varie parti del mondo per un utopico catalogo enciclopedico-geografico. Nacquero i primi film di esplorazione: a The great white silence (1924) di H.G. Ponting, primo rimontaggio dei materiali da lui girati al seguito della tragica spedizione di R.F. Scott nell'Antartico nel 1910-11, utilizzati dapprima in appoggio a conferenze, quindi ulteriormente rielaborati nella versione sonorizzata del 1933 titolata 90° South, seguirono South (1914-1917) di F. Hurley, su un'altra spedizione al Polo Sud, Grass (1925) e Chang (1927, Elefante) di E.B. Schoedsack e M.C. Cooper (futuri autori di King Kong, 1933), girati fra Kurdistan e Turkestan e nel Nord della Thailandia; Voyage au Congo (1927), in cui M. Allégret segue lo zio A. Gide nel suo viaggio africano; alcuni film di Dz. Vertov. L'evoluzione del d. viene tradizionalmente identificata in due lungometraggi, Nanook of the North (1920-1922; Nanouk) di Flaherty e Kinoglaz (1924, Cineocchio) di Vertov. La pretesa di entrambi di "cogliere la vita sul fatto" (come recita il sottotitolo del film di Vertov) è corretta da Flaherty con il desiderio di narrativizzare, e a volte di mettere in scena gli eventi rappresentati, e da Vertov con quello di piegarli, attraverso un elaborato lavoro di montaggio e con didascalie non descrittive, a un discorso fortemente ideologico. Curiosamente, sebbene ormai la critica rifiuti il fantasma dell'oggettività rinvenendo nelle manipolazioni del reale un elemento fondamentale del loro modo di fare cinema documentario, fu soltanto Vertov a essere accusato, dai suoi contemporanei, di tradire la purezza dello sguardo oggettivo sul reale. Flaherty, un ex esploratore con esperienza immediata sul campo, con Nanook of the North, resoconto dei suoi viaggi nel 1910-1916 al seguito di Sir W. Mackenzie fra gli Inuit, passò dalla veduta come descrizione alla veduta come narrazione, senza comprometterne il carattere referenziale; Vertov, che fece da 'mediatore' in sala di montaggio rielaborando materiali preesistenti per vari cinegiornali, si oppose strenuamente con Kinoglaz, forte dell'ideologia rivoluzionaria, alla veduta come descrizione, che presuppone un occhio che mima quello umano, per insistere invece sul carattere cinematografico, meccanico e tecnico, di tale occhio, detto appunto cineocchio. In diversi casi la realtà rappresentata era riscoperta non più come lontana e misteriosa ma, guardata con altri occhi, come presente a fianco della comune esperienza quotidiana. Tra i principali film di questo tipo, che si raggruppano nel cosiddetto sottogenere sulla città, il pionieristico Manhatta (1921, cortometraggio, poi sempre cm) di Ch. Sheeler e P. Strand (più noto come fotografo); Rien que les heures (1926) di A. Cavalcanti; À propos de Nice (1929, cm) di J. Vigo; Impressionen vom alten Marseiller Hafen (1929, cm) di L. Moholy-Nagy; Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt (1927) di W. Ruttmann; Menschen am Sonntag (1929-30) di R. Siodmak ed E.G. Ulmer; Čelovek s kinoapparatom (1929, L'uomo con la macchina da presa) di Vertov; Stramilano (1929, cm) di C. D'Errico; Douro, faina fluvial (1929-1931, cm) di M. de Oliveira; sino a film lirico-poetici come De bruug (1928, Il ponte, cm) e Regen (1929, Pioggia, cm) di J. Ivens. Una rilettura critica del già vasto materiale cinegiornalistico esistente fu intrapresa dalla sovietica E.I. Šub con Padenie dinastii Romanovych (1927, La caduta della dinastia dei Romanov), Velikij put´ (1927, La grande via), il perduto Rossija Nikolaja ii i Lev Tolstoj (1928, La Russia di Nicola ii e Lev Tolstoj) e Segodnja (1930, Oggi); con lei nacque il fondamentale sottogenere documentaristico del compilation film (o film d'archives o film di montaggio). La critica della realtà divenne anche impegno politico e sociale con i film di Vertov (Šestaja čast´ mira, 1926, La sesta parte del mondo) e di Ivens.
Gli anni Trenta e la questione del sonoro. - L'avvento del sonoro alla fine degli anni Venti mise in crisi tanto il cinema di finzione quanto quello documentario, ma in maniera diversa. Le pesanti attrezzature necessarie per la presa diretta del suono, che restarono in vigore sino alla fine degli anni Cinquanta, costrinsero il cinema di finzione a rinchiudersi negli studios, dove esse potevano più facilmente essere gestite. Girare in ambienti dal vero divenne un'opzione complicata e onerosa. Ciò valeva a maggior ragione per il d., che oltretutto aveva di solito budget molto più ridotti. Aveva però il vantaggio di non dover dipendere da dialoghi, come il cinema di finzione: era in quel periodo un genere più parlato che parlante. L'impasse venne risolta infatti utilizzando lo studio per registrare il commento musicale e la voce fuori campo (che sostituiva le didascalie), nonché i rumori d'ambiente attinti a una fonoteca, anche se i più scrupolosi li registravano sul posto, ma separatamente dalle riprese. Tanto più sorprendenti sono perciò alcuni coraggiosi tentativi di presa diretta sincrona con l'immagine. Fondamentale è Entuziazm (1930, Entusiasmo; noto anche come Simfonija Donbassa, Sinfonia del bacino del Don), in cui Vertov teorizza il 'radio-occhio' mettendo in pratica, con vero entusiasmo, il nuovo strumento. Egli utilizzò sincronismo e contrappunto in un gioco di voci, rumori, musica che compongono, con un montaggio incredibilmente articolato (in un momento in cui il missaggio dei suoni era ancora impossibile), la prima grande sinfonia astratto-concreta del cinema sonoro. Il metodo corrente nel d. era quello del suono doppiato. Agli inizi ci si limitò ad aggiungere la musica a film girati con le tecniche del muto. L'introduzione della voce di commento, praticamente sempre maschile, pose il serio problema dell'imposizione di un senso alle immagini, molto più marcato che con le didascalie. Il rischio, dato l'anonimato della voce onnisciente, detta nei Paesi anglosassoni voce di Dio, era quello di una sovradeterminazione autoritaria del messaggio. Per evitare l'anonimato della voce alcuni autori utilizzarono la propria o ricorsero a voci di attori noti. In alcuni casi si tentò un uso creativo di musica e rumori, senza utilizzare la voce fuori campo come in Philips radio (1931-32) di Ivens.
Negli anni Trenta si realizzarono film in cui narrazione e personaggi sopravanzavano gli intenti puramente documentaristici, anche se la narrazione riattivava accadimenti reali e accoglieva le accidentalità delle riprese, e i personaggi erano esseri viventi in un mondo reale incarnati da non professionisti. Basta ricordare, ancora in periodo muto, i film di Flaherty; quindi l'incompiuto ¡Que viva México! (1932) di S.M. Ejzenštejn, Man of Aran (1934; L'uomo di Aran) ancora di Flaherty, sino ai primi assaggi del Neorealismo italiano come La nave bianca (1941) di R. Rossellini (e F. De Robertis).
Un'altra forma di d. 'impuro', che si impose molto più tardi ma di cui è possibile intravedere le tracce nel muto e negli anni Trenta, è il film-saggio. Esso venne definito, forse per la prima volta, da H. Richter, a proposito del suo Die Börse als Markt (1939, cm): "Il compito di questo tipo di documentari è quello di rappresentare un concetto. Anche ciò che è invisibile deve essere reso visibile. […] Per riuscire a dare corpo al mondo invisibile dell'immaginazione, dei pensieri e delle idee, il film-saggio può servirsi di una riserva di mezzi espressivi incomparabilmente maggiore di quella del semplice film documentario" (Der Filmessay, in National-Zeitung, 25 aprile 1940). È possibile interpretare come precorritori di questa tendenza film molto diversi tra loro, quali il muto Ceux de chez nous (1914, mediometraggio, poi sempre mm) di S. Guitry, i film di Vertov e della ŠŠub, film sul cinema come Autour de 'L'argent' (1928-29, mm) di J. Dréville, sulle riprese del film di M. L'Herbier, o Frauennot-Frauenglück (1929-30), un film svizzero a favore dell'aborto cui collaborarono con varie funzioni Ejzenštejn, E.K. Tissé, G.V. Aleksandrov ed E. Berna. La tendenza non va confusa con quella, assai meno ambiziosa, del cinema didattico, scientifico o sull'arte, spesso realizzato all'interno di istituzioni come, in Italia, l'Istituto Luce. Rispetto a tanti prodotti anonimi, vanno ricordati, nel campo dell'arte, i cortometraggi di L. Emmer, che 'narrativizzò' una serie di opere pittoriche e proseguì la sua attività nel dopoguerra, influenzando autori come A. Resnais (Van Gogh, 1948, cm; Guernica, 1951, coregia di R. Hessens, cm).
Chi si pose il problema educativo in maniera strategica fu Grierson, che, oltre a promuovere in qualità di producer settori cinematografici di enti pubblici, era convinto che il d. doveva essere al servizio della propaganda, o se si vuole dell'informazione, senza cadere nelle trappole dell'estetica. Altra forma di documentarismo didattico è quello che deriva da un impegno sociale e politico. Negli Stati Uniti gruppi vicini, negli anni della Grande depressione, alla Works Progress Administration del presidente F.D. Roosevelt utilizzarono il d. con intenti progressisti di propaganda democratica, e a volte decisamente di sinistra. Al decennio che vide definirsi la contrapposizione tra democrazie e regimi autoritari appartennero altre esperienze progressiste e militanti come quelle della Filmliga olandese, attiva fra il 1927 e il 1933 nella diffusione di opere d'avanguardia e impegnate e nella promozione di film; il Club de l'écran di Bruxelles, per cui H. Storck e Ivens realizzarono Misère au Borinage (1933, mm muto); quelle francesi del Groupe Octobre e di Ciné-Liberté; quelle inglesi della Workers' Film Association. Nei regimi dittatoriali il d. si piegò in maniera più diretta e univoca alle esigenze propagandistiche. In Unione Sovietica le esperienze avanguardistiche del muto e dei primi anni del sonoro vennero criticate in campo documentaristico forse più che in quello della finzione. Si lasciò mano abbastanza libera al globetrotter Ivens per Pesn´ o gerojach - Komsomol (1932, Il canto sugli eroi, mm); ma Vertov ebbe enormi difficoltà, di cui risentì Tri pesni o Lenine (1934, Tre canti su Lenin), fino a essere ridotto a opere impersonali o al silenzio, destino che lo accomunò alla Šub. In Germania si manifestò lo straordinario talento di L. Riefenstahl con Triumph des Willens (1935; Il trionfo della volontà) e Olympia (1936-1938), diviso in due parti: Fest der Völker (Olimpia) e Fest der Schönheit (Apoteosi di Olimpia). Nel dopoguerra la regista respinse puntigliosamente, e inutilmente, le accuse di connivenza con il regime, rivendicando la propria indipendenza artistica; la sua resta tuttavia un'estetica del "fascino fascista" (S. Sontag), anche se di grande, e moderna, elaborazione tecnica e formale. Un veicolo della propaganda nazista furono i 'Kulturfilme', riassemblati criticamente anni dopo in Deutschlandbilder (1983) di H. Bitomsky e H. Mühlenbrock. In Italia l'approccio propagandistico del d. fu più morbido e meno efficace (come nel caso di Il cammino degli eroi, 1936, sulla guerra d'Africa), mentre risultano estranei al clima di propaganda molti cortometraggi prodotti dalla Cines, dall'Istituto Luce e dalla Incom (come, per es., Fantasia sottomarina, 1940, di Rossellini e Gente del Po, 1943, edito nel 1947, di M. Antonioni).
Il documentario di guerra
La guerra offrì al d. un terreno propizio. Vi si combinarono l'urgenza dell'informazione, la spettacolarità degli eventi e la sfida estetica del 'colto sul vivo'. La Seconda guerra mondiale vide l'impiego strategico e altamente organizzato di cineasti al fronte (molto più di quanto era potuto avvenire nella Prima), soprattutto negli Stati Uniti e in Unione Sovietica. Negli Stati Uniti vennero richiamati importanti cineasti hollywoodiani per realizzare, da militari, una serie di film di propaganda destinati sia alle truppe sia, in alcuni casi, ai civili. F. Capra supervisionò per il Signal Service Photographic Detachment dell'esercito la serie di medio e lungometraggi Why we fight (1942-1945), Know your ally - Britain (1943, mm), Know your enemy - Germany (1942, mm) e Know your enemy - Japan (1945), questi ultimi due ritirati, e altri, come The negro soldier (1944, mm) di St. Heisler. Sono, per un verso, esemplari film di montaggio che utilizzano, manipolandoli abilmente, materiali girati al fronte da operatori statunitensi o alleati, o sequestrati al nemico (è il caso di The nazis strike, 1943), o anche inquadrature di film di finzione; per l'altro, essi hanno un intento didattico-propagandistico, come le circostanze imponevano. Fra i registi hollywoodiani coinvolti nel programma bellico vanno ricordati ancora J. Huston, W. Wyler (Memphis bell, 1944) e J. Ford (soprattutto con lo splendido, e assai personale, The battle of Midway, 1942, La battaglia di Midway, a colori, che vinse un Oscar).
L'Unione Sovietica pagò un alto tributo al cinegiornalismo di guerra: più di cento operatori morirono al fronte. Oltre a documentaristi come R. Karmen e L.V. Varlamov furono coinvolti anche in Unione Sovietica registi di film di finzione, a volte per film di montaggio, come A. Dovženko e S.I. Jutkevič. In Germania la propaganda fu pesante e sfacciatamente menzognera, mentre in Italia si fece notare l'attività del capitano di corvetta De Robertis, che promosse il Centro cinematografico del Ministero della Marina, realizzando o producendo, in accordo con l'Istituto Luce, una serie di film di impianto militaristico. Rivolta al fronte interno fu la produzione inglese, particolarmente preziosa come testimonianza di democrazia vissuta quotidianamente come negli straordinari d. di H. Jennings.
Il dopoguerra e gli anni Cinquanta
Le cinematografie dei Paesi vincitori e vinti, dopo la guerra, si ritrovarono unite nella condanna di un'esperienza che aveva coinvolto combattenti e civili, aprendo gli occhi su una realtà nuova fatta di atrocità, sensi di colpa, miseria. L'innocenza dello sguardo andò persa; un nuovo sguardo, e un nuovo realismo, accompagnarono gli anni della difficile ricostruzione. Nell'Italia sconfitta si parlò, con definizione francese, di Neorealismo.
Emblema di questo mutamento epocale fu la scoperta dei campi di concentramento nazisti. Il cinema fu in prima linea per testimoniare, con oggettività surreale, ciò che le truppe di liberazione scoprirono al loro arrivo. Forse per la prima volta le immagini cinematografiche vennero assunte come prove in un processo, quello di Norimberga. Compilate organicamente in alcuni film o lasciate allo stato di 'giornalieri', queste immagini risultarono troppo atroci e deprimenti per le autorità, che le ritirarono dalla circolazione o le secretarono. Lo stesso avvenne con le immagini del disastro atomico. Dopo alcuni anni le immagini dei campi tornarono a circolare, con Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia, mm) di Resnais, The museum and the fury (1956, mm) di L. Hurwitz, e via via sempre più numerosi film in vari Paesi. La crudeltà di questi eventi, di questo cinema, segnò anche l'ingresso del d., privo ormai di innocenza, nella modernità. Il vasto materiale archiviato dai militari alleati (quello, pubblico e 'privato', confiscato ai tedeschi sommato a quello dei cinegiornali) fu utilizzato in vari film di montaggio che ricostruirono criticamente la parabola nazista. Mentre, in generale, i materiali degli archivi servirono a ricostruire periodi più o meno dimenticati della Storia.
Documentario formale
Allontanandosi dalla guerra, il d. ritrovò l'ambizione di un realismo controllato dalla forma, dove montaggio, musica e voce fuori campo si intrecciano in composizioni altamente stilizzate. Vanno ricordati i cortometraggi di L. Comencini (Bambini in città, 1946), D. Risi (Barboni, 1946), Antonioni (N.U. - Nettezza urbana, 1948; L'amorosa menzogna, 1949), V. Zurlini (Racconto del quartiere, 1953; Soldati in città, 1953), C.Th. Dreyer (Kampen mod kræften, 1947, Lotta contro il cancro; De naade færgen, 1948, Presero il traghetto), Resnais (Toute la mémoire du monde, 1956; Le chant du styrène, 1958), A. Varda (Du côté de la côte, 1959). In queste opere, specialmente in quelle dei registi francesi (molti dei quali costituirono il Groupe des Trente), la forma del cortometraggio raggiunse il suo apogeo, prima dell'arrivo della presa diretta, con contributi altamente qualificati per la musica e il commento. Fra i lungometraggi più famosi, Louisiana story (1948) di Flaherty e Det stora äventyret (1953, La grande avventura) di A. Sucksdorff si distinsero per l'intenso, lirico e quasi nostalgico senso della natura. Non è però in questo tipo di opere che è possibile cogliere preavvisi dell'imminente trasformazione del documentario. Al Festival di Cannes del 1946, non furono solo i film neorealistici italiani a colpire, ma anche Farrebique di G. Rouquier, d. narrativizzato, in presa diretta, che segue per un anno una famiglia contadina nel villaggio omonimo della Francia centro-meridionale. La realtà premeva nuovamente per essere 'colta sul fatto', dopo essere stata splendidamente 'inquadrata'. Anni dopo V. De Seta girò in Sicilia, a colori, sette cortometraggi, senza musica né commento, ma con suoni registrati sul posto, su un mondo destinato di lì a poco a scomparire: in Lu tempu di li pisci spata (1955), Surfarara (1955), Contadini del mare (1955), Pescherecci (1958) e altri, la realtà irruppe con una presenza inedita sugli schermi italiani. Da una prospettiva simile, E. Olmi filmò la realtà del mondo industriale in varie opere, tra cui Tre fili fino a Milano (1959, cm) e Un metro è lungo cinque (1961, cm). Tra gli autori francesi J. Rouch, ammiratore di De Seta, realizzò in Africa d. etnografici in 16 mm, che sopperiscono alla mancanza della presa diretta del suono con musica e commento, detto dalla voce dell'autore, e sempre più con una lingua che non ne cancella la cultura letteraria e poetica; mentre in Moi, un noir (1959) accompagna con il commento il protagonista, che a sua volta si doppia fuori sincrono, dando al film il sapore di un'opera che riflette su sé stessa. In Gran Bretagna, sotto l'etichetta Free Cinema, si riallacciarono a questa tendenza ex critici come L. Anderson (Every day except Christmas, 1957, mm su un mercato generale) e K. Reisz (We are the Lambeth boys, 1959, mm sui ragazzi di un quartiere di Londra), che entrano con immediatezza nelle realtà urbane periferiche, grazie anche alla presa diretta e a una macchina da presa molto mobile, e nonostante la sovrapposizione di musica e commento.
Su un fronte diverso, il documentarismo approdò al moderno con le teorizzazioni di C. Zavattini, che prefigurò tendenze come il film diaristico e autobiografico, il cinema-verità e il film-saggio. La tendenza saggistica si fece strada anche nel film sull'arte, dal citato Guernica a Le mystère Picasso (1956; Il mistero Picasso) di H.-G. Clouzot, a Picasso (1954, mm) di Emmer, rielaborato anni dopo in Incontrare Picasso (2000, mm).
Negli stessi anni operavano in direzione opposta cineasti che sfruttavano il d. per spettacolarizzarlo, a spese il più delle volte della verità. La realtà diventava sensazione e aveva successo di pubblico. Si andava dalla sua utilizzazione per promuovere il Cinerama (This is Cinerama, 1952, Questo è il Cinerama) e altri nuovi sistemi di megaproiezione, a produzioni Disney come The living desert (1953; Deserto che vive, premiato con l'Oscar) di J. Algar, a Le monde du silence (1956; Il mondo del silenzio) di J.-Y. Cousteau e L. Malle. Gli italiani diventarono specialisti del genere, con film come Sesto continente (1954) di F. Quilici, Continente perduto (1955) di L. Bonzi, M. Craveri, E. Gras e G. Moser, primo film italiano in cinemascope e suono stereofonico, L'impero del sole (1956) di Craveri e Gras, Europa di notte (1959) di A. Blasetti, fino al trionfo pernicioso del fake documentary con Mondo cane (1962) di P. Cavara, G. Jacopetti e F. Prosperi. Ma il capolavoro del cinema di esplorazione, cui alcuni di questi film avrebbero aspirato, resta Les rendez-vous du diable (1956-1958) del vulcanologo francese H. Tazieff.
Il documentario moderno degli anni Sessanta. - Nel 1960 si assistette a una rivoluzione tecnica in simbiosi con le esigenze creative. Il francese A. Coutant modificò con M. Mathot la macchina da presa 16 mm della Éclair, rendendola leggera (6 kg) e sufficientemente silenziosa per non interferire con la presa diretta del suono. Essa poteva essere utilizzata a mano e in collegamento via cavo con il magnetofono Nagra iii, il primo ad avere un segnale pilota (che assicura il sincronismo fra i due motori), elaborato nel 1958 dal tecnico svizzero S. Kudelski. Solo nel 1971 il Nagra iv acquisì il pilotaggio al quarzo, che rese macchina da presa e magnetofono indipendenti, mentre la Éclair-Coutant venne migliorata in leggerezza e silenziosità. Parallelamente, negli Stati Uniti e in Canada si facevano ricerche tecniche analoghe, con altri tipi di macchine da presa e di magnetofoni. Rouch utilizzò per primo la Éclair-Coutant con l'operatore canadese M. Brault in Chronique d'un été (1960), per il quale il coregista e sociologo E. Morin coniò la locuzione cinéma vérité. A completare i mezzi necessari per una definitiva libertà delle riprese sonore si aggiunsero pellicole più sensibili e obiettivi a focale variabile (zoom). Si parlava di candid eye, di living camera, di direct cinema. La destinazione naturale di questi film non era tanto la sala (con copie gonfiate a 35 mm) quanto la televisione, anche se agli inizi essa era reticente a trasmettere film impegnati e polemici. I festival svolsero un ruolo importante per farli conoscere alla critica; in Italia, si distinsero l'edizione della Mostra del cinema di Venezia dedicata al d. e soprattutto il Festival dei popoli di Firenze, fondato nel 1960. L'evidente novità dei d. del Cinéma vérité e del cinema diretto suscitò, per un momento, un ricco dibattito critico su un genere di solito trascurato. Il d. 'parlato' era diventato finalmente davvero 'parlante'. In Italia l'eco di queste innovazioni arrivò smorzata, data l'insensibilità al suono diretto provocata dalla pratica del doppiaggio e, nel d., dalla voce fuori campo. Le eccezioni sono i corto e mediometraggi di G.V. Baldi (La casa delle vedove, 1960), G. Mingozzi (La taranta, 1962), L. Di Gianni (Il male di San Donato, 1965), R. Andreassi (Antonio Ligabue pittore, 1965), nei quali comunque il suono in presa diretta si mescola a commento e musica; già più 'puro' è Appunti per un film sul jazz (1965, mm) di G. Amico. Intanto, sia in televisione sia al cinema, si diffuse il film inchiesta (da L'Italia non è un paese povero, 1960, di Ivens a La via del petrolio, 1966, di B. Bertolucci).
La vitalità del documentarismo degli anni Sessanta era in sincronia con quanto avveniva sulla scena mondiale. Le lotte politiche del decennio trovavano le loro immagini in film di montaggio che riconducevano il fascismo riemergente alle sue radici storiche; così l'argentino F.E. Solanas ricostruì la storia recente del suo Paese con intento militante nel monumentale La hora de los hornos (1968; L'ora dei forni, coregia di O. Getino), Ivens intervenne in Vietnam (Le ciel, la terre, 1965, cm, e Le 17ème parallèle, 1967, coregia di M. Loridan, la quale lo spinse a utilizzare il suono in presa diretta) e in Laos (Le peuple et ses fusils, 1968-69, regia collettiva); sul Vietnam sono anche il film a episodi promosso da Ch. Marker, largamente di finzione, Loin du Vietnam (1967; Lontano dal Vietnam) e il bilancio di P. Davis, Hearts and minds (1974). Dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam il passo fu breve verso quelle che anticiparono e poi caratterizzarono il Sessantotto: negli Stati Uniti gruppi di sinistra si organizzarono e fondarono con il coordinamento di R. Kramer il cinegiornale 'libero' The newsreel; il cinema militante divenne quasi un genere in molti Paesi, e si organizzarono forme di distribuzione alternativa. Dal cinema di puro intervento, a volte disinteressato non solo al linguaggio del cinema ma anche all'uso accorto della tecnologia leggera e sincrona disponibile, si passò con J.L. Godard e il suo Groupe Dziga Vertov a un ripensamento del cinema politico con film-saggio in 16 mm che riproposero in maniera nuova le teorizzazioni del cineasta sovietico sulla forma, come British sounds (1969, mm) e Lotte in Italia (1970, coregia di J.-P. Gorin, mm). Sarebbe fuorviante prendere alla lettera l'etichetta, assai pubblicizzata, di 'cinema-verità'. La pretesa di oggettività che accompagnava il pragmatismo degli statunitensi già si mescolava alla soggettività degli europei. Si partiva dall'inchiesta per giungere alla 'mia' verità. Allora il d. si ibridava di finzione, di diario, di autobiografia, di saggio. La realtà, colta in diretta, veniva mediata dal punto di vista personale in fase di postproduzione. Marker pose in discussione tutto ciò che filmava, proponendo saggisticamente un 'punto di vista documentato' in Description d'un combat (1960, mm su Israele), Cuba si (1961, mm) e Le mystère Koumiko (1965, mm sul Giappone), facendo saggistica pura con delle fotografie in Si j'avais quatre dromadaires (1966, mm) e spingendosi verso la finzione con i fotogrammi fissi di La jetée (1962, cm). P.P. Pasolini intuì magistralmente queste derive del d. nei suoi esperimenti a margine della più nota produzione di finzione: La rabbia (1963, primo episodio del film omonimo), Comizi d'amore (1965), Sopralluoghi in Palestina per Il Vangelo secondo Matteo (1963-1965, mm), Appunti per un'Orestiade africana (1968-1973) e altri. Che il d. non fosse più confinato alla 'documentazione' lo dimostrano molti film attratti da forme diaristiche e autobiografiche, a volte con modalità decisamente sperimentali. Si pensi solo al lavoro fatto dal lituano naturalizzato statunitense J. Mekas, padre putativo del movimento Underground, che montò i diari girati dal 1949 in un grande work in progress dal titolo complessivo Diaries, notes and sketches, il cui primo 'capitolo' è Walden (1969).
Dagli anni Settanta in poi: le ibridazioni del documentario
Seguire nel suo insieme il percorso storico del d. diventa impervio con gli anni successivi dato il proliferare a dismisura della produzione, complici l'agilità tecnica del mezzo, la committenza della televisione, l'emergere di Paesi in cui il d., quando non lo stesso cinema, era rimasto una forma marginale di espressione, nonché l'uso crescente del video (disponibile fin dal 1963 come apparecchiatura portatile ma propagato a partire dagli anni Settanta). Si moltiplicarono i festival dedicati al d. (fra cui il più importante rimane forse Cinéma du réel a Parigi, nato nel 1979), ma diventava anche impossibile seguire nelle sue tante sfaccettature un cinema che oltretutto somigliava sempre meno a ciò che la tradizione aveva tramandato.
Una partizione utile è quella proposta da B. Nichols (1991), che distingue fra d. espositivo (expository), la tipologia più tradizionale affidata a una voce fuori campo; osservativo (observational), apparentemente estraneo a ogni giudizio; interattivo (interactive), in cui il cineasta interagisce con la realtà filmata; e riflessivo (reflexive), in cui il cineasta riflette sul proprio operato, mettendosi in questione e mettendo in questione il linguaggio che impiega, e con ciò stesso la 'realtà' che filma, come nel caso di Godard e Marker. Il d. moderno tende, nelle sue forme più dinamiche, ad abbandonare le prime due strade per esplorare sempre di più le seconde. Ciò è dovuto anche al fatto che la crescente diffusione, leggerezza ed economicità della cine o videocamera sonora ne fa non più un 'mass' medium ma un 'group'o un 'self' medium.
A parte l'introduzione del video, l'innovazione tecnica più interessante è stata la macchina da presa Äaton del costruttore francese J.-P. Beauviala, prima in 16 poi in 35 mm, studiata per le esigenze creative dei cineasti, leggera, maneggevole e dotata di ciak elettronico, che consente di avviare la ripresa senza il fastidioso e rituale gesto meccanico indispensabile per il successivo sincronismo. Un'altra novità è stata la durata variabile dei film: si è passati dai classici cortometraggi (fino a 30 min), mediometraggi (da 31 a 60 min) e lungometraggi a standardizzazioni imposte dalla televisione (26 e 54 min, a 25 fotogrammi al secondo, ossia 30 e 60 min inclusa la pubblicità) o ad assenza di standard, con la comparsa di film lunghissimi, dove la durata è in accordo con le esigenze interne del film.
Alcuni grandi cineasti hanno proseguito le esperienze del cinema diretto. Negli Stati Uniti il film-concerto, sottogenere fortunato, è esploso con due film: Woodstock (1969) di M. Wadleigh e Cocksucker blues (prodotto nel 1972 e uscito nel 1979) di R. Frank, rimasto per anni invisibile per opposizione dei Rolling Stones; F. Wiseman ha costruito una sorta di enciclopedia sociale, dedicando ognuno dei suoi numerosi film a un tema di interesse pubblico attraverso l'osservazione approfondita di una comunità: dalla medicina alla scuola, dalla giustizia all'assistenza sociale, all'esercito. In Francia R. Depardon, anche affermato fotografo, è penetrato analiticamente dentro realtà controverse come la campagna elettorale di V. Giscard d'Estaing, gli ospedali, il mondo del giornalismo e quello della giustizia; M. Ophuls ha ricostruito la storia passata e recente con straordinari film-inchiesta come Le chagrin et la pitié (1971) e Hôtel Terminus (1988), sul collaborazionismo francese, e Veillées d'armes (1994), sui corrispondenti di guerra a Sarajevo; C. Lanzmann ha raccolto testimonianze fra i sopravvissuti dell'Olocausto nel monumentale Shoah (1985) e Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures (1979-2001). Le esperienze del cinema diretto hanno influenzato cineasti della più varia provenienza, come il giapponese Imamura Shōhei, con film che svelano episodi rimossi dell'immediato dopoguerra; lo svedese S. Jarl, che si è concentrato sul degrado della natura; il polacco K. Kieslowski, che ha realizzato molti cortometraggi e mediometraggi fra il 1966 e il 1988; il tedesco W. Herzog, in film dove è sempre forte il coinvolgimento personale; Antonioni, S. Agosti, M. Bellocchio, D. Segre (attento al mondo del lavoro e dell'emarginazione: da Vite di ballatoio, 1984, mm, video, ad Asuba de su serbatoiu, 2001, video). Tra i cineasti partiti dalle esperienze innovative degli anni Sessanta per prolungarle in un itinerario personale è stata fondamentale l'attività dell'olandese J. van der Keuken, il cui documentarismo è osservativo, interattivo e riflessivo, in film come De Platte Jungle (1978, La giungla piatta), De Weg naar het Zuiden (1981, La via verso il Sud), I ? $ (1986), Face value (1991), Amsterdam global village (1996), De grote vakantie (2000, La grande vacanza). Simile è stato il percorso dello statunitense Kramer, che però ha alternato il d. alla finzione, spesso con contaminazioni reciproche, realizzando opere di prim'ordine come Route One/USA (1989), Point de départ/Starting place (1993), Walk the walk (1996).
Un campo a sé è quello del cinema etnografico, dove ha prevalso un consapevole intento scientifico di documentazione, anche se non alieno da derive autoriali, come, per es., quelle di Rouch o R. Gardner. In questo campo si distingue la scuola australiana, con le opere realizzate da I. Dunlop (Desert people, 1966-67, mm), D. e J. MacDougall (To live with herds: a dry season among the Jie, 1971; Kenya Boran, 1974; Wedding camels, 1977), T. e P. Asch e L. Connor (Jero on Jero, 1980), B. Connolly e R. Anderson (First contact, 1983).
Altri cineasti hanno seguito percorsi personali. Molti di loro hanno operato non a caso in Paesi ex comunisti: il russo A. Sokurov, il ceco K. Vachek, con Spřízněni volbou (1968, Le affinità elettive), sulla 'primavera' di Praga, riemerso solo dopo la caduta del comunismo. In generale, in condizioni di poca libertà di espressione, il tedesco orientale J. Böttcher ha girato numerosi d. fra cui Rangierer (1984, cm) e Die Mauer (1990), sull'abbattimento del muro di Berlino. Molto personali sono i percorsi di cineasti così diversi come gli italiani A. Lajolo e G. Lombardi; gli statunitensi Gardner, M. Moore (Roger and me, 1989; Bowling for Columbine, 2002, Bowling a Columbine); l'inglese P. Watkins; i francesi J.-D. Pollet (da Méditerranée, 1963, mm, a L'ordre, 1973, mm, da Pour mémoire, 1979, mm, a Dieu sait quoi, 1992-93, uscito nel 1997) e J.-C. Rousseau; l'iraniano A. Kiarostami; la belga Ch. Akerman; il giapponese Koreeda Hirokazu.
Il post-documentarismo
Le tendenze più nuove e prolifiche manifestatesi a partire dagli anni Settanta sono quelle legate a un cinema riflessivo, che si possono ordinare in alcune categorie: il film di montaggio, il film autobiografico e diaristico, il film-saggio, il fake documentary, nonché in certe frange del cinema sperimentale.
Il film di montaggio risulta avere ormai a disposizione decenni di immagini, fra le quali può muoversi con maggiore disinvoltura di prima, anche grazie alla moltiplicazione delle proposte archivistiche. È apparsa la tendenza a usare, in tutto o in parte, immagini di repertorio per riflettere saggisticamente sulla storia del cinema, oppure si è impiegato il materiale 'trovato' in film amatoriali (home movies, films de famille), che alcuni gruppi collezionano, in vista di compilazioni per la televisione. La diffusione del cinema e del video amatoriale, la perdita di aura e la leggerezza dello strumento, la consapevolezza dello slittamento del mass medium verso il self medium hanno invece incrementato la tendenza ai film autobiografici e diaristici, che offre ormai numerosi e straordinari esempi in tutto il mondo, intaccando perfino certi film ancora interni alla finzione come Caro diario (1993) e Aprile (1998) di N. Moretti. Così come molti autori hanno approfittato sempre di più della flessibilità del linguaggio cinematografico per realizzare film saggistici in grado di superare l'ontologica concretezza delle immagini per tentare di esprimere anche un pensiero astratto, proprio come in un saggio. Potendo in più con il video, con il digitale, e con il DVD, manipolare e incrostare le immagini. Oltre ad autori che sono stati all'origine della tendenza, come Marker (che ha proseguito con i fondamentali Sans soleil, 1982, e Level 5, 1996, video), G. Debord (In girum imus nocte et consumimur igni, 1978), Godard (Scénario du film 'Passion', 1982, mm video; Puissance de la parole, 1988, cm video; le straordinarie Histoire(s) du cinéma, 1988-1998, video, uscite anche come libro nel 1998), O. Welles (Filming "Othello", 1978), altri hanno realizzato, all'interno di un'opera polivalente, film che possono essere ascritti a tale tendenza: i francesi D. Huillet e J.-M. Straub (Fortini/Cani, 1976; Trop tôt, trop tard, 1980-81; Cézanne, 1988, mm); il cileno R. Ruiz (Colloque de chiens, 1977, cm; Les divisions de la nature, 1978, cm); Varda (Documenteur, 1980-81; Ulysse, 1982, cm; Jacquot de Nantes, 1990, Garage Demy; Les glaneurs et la glaneuse, 2000, La vita è un raccolto). Un caso particolare di cinema saggistico è quello di Rossellini che, pur servendosi di elementi di finzione, ha impostato il proprio cinema didattico, realizzato per la televisione, in funzione non di un'illusione narrativa ma di un percorso di apprendimento di grande rigore divulgativo: da L'età del ferro (1964) a Cartesius (1974).
La nozione di d., o anche di nonfiction, è diventata ormai così inadeguata da produrre i propri anticorpi parodici nella forma del fake documentary, che con le sue apparenze di 'verità' rivela i limiti dell'immagine realistica. Sia pure ai margini di ciò che il pubblico continua a vedere nelle sale o in televisione, si annuncia una trasformazione radicale, anticipata da tante opere e riflessioni disperse del passato, che va in direzione di una ibridazione delle forme e delle tecniche, non più campi separati e 'specializzati', e di modi diversi di rivolgersi allo spettatore, non più convocato a uno spettacolo di massa. Il cinema del 21° sec. non è più il cinema, pur continuando a essere immagini e suoni in movimento, che possono ormai manifestarsi anche con modalità non lineari ma reticolari e interattive. La nonfiction, molto più del cinema di finzione, proprio perché fin dall'origine più svincolata da codici linguistici e da regole industriali, è il laboratorio dove questo nuovo cinema prende forma.
Bibliografia
R.M. Barsam, Nonfiction film. A critical history, New York 1973, Bloomington-Indianapolis 1992;
E. Barnouw, Documentary. A history of the nonfiction film, New York 1974, 1993;
R. Nepoti, Storia del documentario, Bologna 1988;
B. Nichols, Representing reality. Issues and concepts in documentary, Bloomington-Indianapolis 1991;
G. Gauthier, Le documentaire, un autre cinéma, Paris 1995;
Ente Mostra internazionale del nuovo cinema, Il cinema e il suo oltre, 2. Le avventure della nonfiction, a cura di A. Aprà, Pesaro 1997;
F. Niney, L'épreuve du réel à l'écran. Essai sur le principe de réalité documentaire, Bruxelles 2000.
Nuove tendenze
Mutamenti del documentario tra cinema e televisione
Nel panorama di una società dello spettacolo dominata sempre più da un uso di massa delle immagini finalizzato a logiche di persuasione e di consenso, e in cui quella che W. Benjamin definiva "fantasmagoria delle merci" ha prodotto un primato della simulazione del reale, il d., in quanto forma cinematografica che nella relazione con il reale trova il suo senso, non ha potuto fare a meno di riconfigurarsi in maniera decisiva.
Negli ultimi due decenni del 20° sec. il fenomeno della proliferazione del mezzo televisivo, caratterizzato tanto da un'omologazione delle forme e dei messaggi quanto da una diversificazione dell'offerta (canali tematici, televisione satellitare ecc.), ha fatto sì che la specificità cinematografica del d. sia stata per certi versi contaminata dagli standard televisivi, sul piano dei generi, delle durate, dei cosiddetti format. E ciò in senso sia positivo sia negativo.
Lo svincolarsi dalla codificazione del 'grande racconto' e della 'grande industria' e la contaminazione formale e tecnica che ha caratterizzato gli esiti della nonfiction sono fattori che hanno indotto gli autori e i produttori di d. a individuare spazi di mercato sia in sala sia nelle televisioni, in grado di aggirare la tendenza alla marginalizzazione nei palinsesti e nelle programmazioni. L'opportunità è stata data da una serie di nuovi scenari: il sempre maggiore sviluppo dei canali satellitari; la diversificazione dei canali tematici (tra quelli del gruppo Sky, Documentary, Discovery ecc.); la rete culturale franco-tedesca Arte con la sua Unité documentaire; i progetti di sostegno della Comunità europea tra cui, nell'ambito del Programma Media, quello denominato Documentary; forme associative attive in Italia quali Doc It o Eurovisioni; la nuova interattività tecnologica del CD-ROM con i suoi risvolti didattici; la diffusione del supporto digitale del DVD. D'altra parte questo stesso orizzonte mediatico contiene il risvolto negativo che ha reso spurio e distorto il potenziale di "rischio del reale" con cui, secondo l'analisi di J.-L. Comolli (2004; trad. it. 2006), il d. mette in atto la sua capacità di smontare le costruzioni spettacolari e mostrare i limiti del "potere di vedere", oltre che di smascherare l'equivalenza dell'illusione del controllo contenuta nella pretesa del controllo dell'illusione.
Anche se il cosiddetto reality show è una forma-contenitore tutta televisiva, i suoi presupposti possono essere posti in relazione con il d., in quanto risultano fortemente condizionati dall'emergere di dinamiche interpersonali che si sviluppano secondo la progressione di eventi che vengono seguiti in tempo reale, ma sono condizionate dal set artificiale dello spazio chiuso. In questo senso la tipologia del real life TV, la macrocategoria del cosiddetto factual entertainment, filiazione dei reality shows, non ha risparmiato la forma del d. e ha fatto sì che la sua costitutiva libertà di visione, svincolata da obblighi narrativi, sia stata irreggimentata dal sistema televisivo. Si sono in tal modo configurate classificazioni volte a un uso televisivo che hanno condizionato la forma cinematografica del d., dando vita a generi come la docufiction, ossia la ricostruzione di eventi del passato e di episodi storici in cui sono utilizzati attori per girare scene di raccordo in modo da rendere più fluida la narrazione ricostruttiva; oppure il docudrama, ovvero la drammatizzazione di un evento e la ricostruzione di episodi della storia in senso drammaturgico, genere rigorosamente sviluppato a suo tempo dall'inglese P. Watkins con The war game (1965) e poi, anni dopo, nel senso di una simulata 'presa diretta' sul passato in La Commune (Paris, 1871) (2000).
Dall'innesto di un modello prettamente televisivo sulla struttura del d. è derivata la docusoap, ossia una commistione tra fatti reali e stile narrativo mutuato dalla fiction, basata su storie di vita realmente vissuta (un esempio è Fortezza Bastiani, lavoro di M. Mellara e A. Rossi realizzato per la RAI nel 2002).
Vi è poi un genere che unisce elementi esotici, avventurosi e sensazionalistici e appare modellato sul mondo movie, tipologia di d. 'shock' il cui prototipo italiano fu Mondo cane, girato da G. Jacopetti e F. Prosperi nel 1962, in una manipolazione mistificatoria in senso spettacolare. Si tratta del mockumentary, un falso d. realizzato con lo stile dell'inchiesta ma basato su fatti inventati, mimando la flagranza dell'improvvisazione o la modalità della testimonianza documentaria, che estremizza i precedenti esempi di fake documentary. In tal caso i margini di ambiguità o slittamento tra vero e falso possono avere una funzione tanto critica quanto mistificatoria e non priva di sottintesi ironici. Tra gli esempi in ambito italiano: F. for Fontcuberta (2005) di G. Panichi e D. Villa, i video del gruppo Cane capovolto, alcuni lavori di D. Ciprì e F. Maresco, come Enzo, domani a Palermo! (1999), Noi e il Duca - Quando Duke Ellington suonò a Palermo (1999), Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio (2004), dove le finte interviste sono mescolate a materiale di repertorio. In questi casi si riscontra la tendenza a una manipolazione dei materiali di repertorio messi in relazione tanto con i moduli e le tecniche del cinema-verità o della candid camera quanto con una deformazione satirica di quelle stesse modalità documentaristiche. Ciò appare evidente in film come Fahrenheit 9/11 (2004) dello statunitense M. Moore, vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes del 2004, in cui lo sguardo ironico e il montaggio dei materiali intendono evidenziare le aporie politiche dell'amministrazione di G.W. Bush all'indomani dell'11 settembre; o nell'italiano Viva Zapatero! (2005) di S. Guzzanti, il cui soggetto è proprio il sistema televisivo, oltre che la satira e il suo rapporto con il potere politico.
D'altra parte, il rapporto tra la finzione cinematografica, intesa come processo creativo, e la sua resa documentaria è il nesso su cui si basano i d. che hanno come oggetto il lavoro formale e la poetica dei cineasti di finzione. Tra gli esempi: Où gît votre sourire enfoui? (2001) del portoghese P. Costa sul lavoro al montaggio di J.-M. Straub e D. Huillet, o Rosy-Fingered Dawn: a film on Terrence Malick (2002) di L. Barcaroli, C. Hintermann, G. Panichi, D.Villa.
Nuove vie del documentario. - La natura divulgativa del linguaggio televisivo ha piegato il d. a una funzione prevalentemente educativa o ai moduli dell'inchiesta e del reportage d'attualità, accentuando il supporto del commento fuori campo o dell'intervista. Proprio l'affermarsi di questa logica ha comportato, per reazione, una radicalizzazione delle caratteristiche del d. d'autore, che a tale logica volutamente si sottrae e alla quale reagisce, con una ridefinizione della propria etica e della propria estetica. Si è così sviluppato il 'documentario di creazione' che lavora proprio sulla linea di confine tra fiction e nonfiction, sviluppando un intento autoriflessivo o saggistico-diaristico, un'attenzione alla sperimentazione formale, nonché una messa in evidenza della 'drammaturgia del reale', ossia di quegli elementi narrativi che sono presenti direttamente nell'accadere dei fatti.
In tal senso la tendenza alla narrazione si innesta nel d. e viceversa si polarizza nella fiction un residuo forte dell'intento documentario. Nel lavoro di alcuni autori risulta interessante proprio la compresenza di questi due opposti movimenti. Alcuni film di L. e J.-P. Dardenne (Le fils, 2002, Il figlio; L'enfant, 2005) e di M. Haneke (Caché, 2005, Niente da nascondere), o l'opera di A. Kiarostami riprendono moduli documentaristici per amalgamarli alla finzione, al fine di restituire il senso di un'ambiguità del vero. Anche i lavori di W. Herzog, Rad der Zeit (2003, noto anche con il titolo Wheel of time), The white diamond (2004; Il diamante bianco), The wild blue yonder (L'ignoto spazio profondo) e Grizzly man, entrambi del 2005, radicalizzano una visionaria contaminazione tra verità del materiale e capacità 'fantastica' di lavoro sul materiale stesso. La tensione verso un 'documentario narrativo' si riscontra anche nelle opere il cui punto di partenza è la denuncia 'militante'della globalizzazione, poi coniugata con l'indagine su un paesaggio umano: le regioni produttrici di vino in Mondovino di J. Nossiter (2004); i nomadi del deserto di Gobi in Die Geschichte vom weinenden Kamel (2003; La storia del cammello che piange) di L. Falorni e B. Davaa, che ha ottenuto la nomination all'Oscar come miglior d. nel 2006; i suburbi dei disoccupati in Argentina in The take (2004) di A. Lewis, scritto dalla teorica no global N. Klein; Haiti, teatro dell'assassinio del giornalista J. Dominique, attivista dei diritti umani, la Genova del G8 e la Palestina della seconda Intifada nei film realizzati dal gruppo di cineasti italiani di Cinema del presente: Un altro mondo è possibile (2001) e Lettere dalla Palestina (2002); l'Italia dei no global di Maledetta mia (2003) di W. Labate.
Una tendenza significativa del nuovo d. è quella che privilegia l'indagine su un microcosmo eletto a luogo deputato e sulle dinamiche interne a tale luogo (spesso uno spazio chiuso e ai margini). In Die grosse Stille (2005; Il grande silenzio) di Ph. Gröning viene indagata minuziosamente, ma attraverso una narrazione di ampio respiro, la vita in un monastero certosino; in De nens (2004) di J. Jordà uno scandalo di pederastia è il filo lungo il quale si dipanano l'esplorazione di un quartiere di Barcellona, l'indagine sui meandri della giustizia e sui meccanismi mediatici.
Tale versante si carica tuttavia di un significato e di un'emozione particolari nei film del francese N. Philibert, da Le pays des sourds (1992), sull'universo dei sordomuti, a La moindre des choses (1997), su un allestimento teatrale all'interno di una clinica psichiatrica, fino alla classe scolastica protagonista di Être et avoir (2002; Essere e avere), ambientato nella Francia rurale.
La radicalizzazione 'purista' del d. è appannaggio di alcune opere in cui il documento e il puro filmare si liberano dall'imposizione di un punto di vista prestabilito, istituendo una relazione diretta tra l'occhio testimone e i corpi o gli eventi che si offrono alla ripresa. È il caso di El sol del membrillo (1992) dello spagnolo V. Erice, sul 'farsi' del quadro di un pittore tra la luce del giardino e l'ombra della casa; di Vies (2000) e di Le filmeur (2005) di A. Cavalier, ritratti e autoritratti scanditi dalle piccole intermittenze del quotidiano; dei film lucidamente concettuali di J.-C. Rousseau; di Berlin 10/90 (1991), straordinario video di R. Kramer in cui il corpo dello stesso regista viene filmato in tempo reale in una stanza da bagno; di alcuni film realizzati da A. Grifi, in cui l'epifania materiale dei corpi davanti all'obiettivo risulta centrale, a partire da Anna (1975), coregia di M. Sarchielli; e soprattutto di No Quarto da Vanda (2000) di P. Costa, dove il lento scivolare via della vita dal corpo di una tossicomane è ripreso da inquadrature fisse e piani-sequenza con una distanza che appare tanto più oggettiva quanto più si fa veicolo di pietà.
Il versante della memoria e del tempo rispetto alla facoltà testimoniale del documento (già elaborato nelle tendenze del 'post-documentario' con le tecniche e le poetiche del film d'archivio, dell'home movie, del found foutage) ha intensificato il significato politico. Esemplari risultano i film dell'israeliano A. Gitai che costituiscono trilogie e 'ritorni' dislocati nel tempo su uno stesso evento, entrando in dialettica con i film di finzione dello stesso autore: A house in Jerusalem (1998) e News from home/News from house (2006), sulla metamorfosi di un'abitazione che vede incrociarsi abitanti arabi ed ebrei; Wadi 1981-1991 (1991), sulla trasformazione politica e umana di un territorio; il trittico sul neofascismo in Europa In the valley of the Wupper, In the name of the Duce, Queen Mary (tutti del 1994).
La dimensione del tempo è affrontata in film come Retour à Kotelnitch (2003) di E. Carrère, ricostruzione tra presente e passato della vita e della morte di una ragazza russa; nei film dello spagnolo J.L. Guerín, sospesi tra l'attualità degli ambienti e la virtualità dei ricordi cui rimandano (Innisfree, 1990; Tren de sombras, 1997; En construcción, 2001); nel lavoro complesso su uno sterminato deposito memoriale di immagini affrontato dalla coppia Y. Gianikian-A. Ricci Lucchi, per es. in Inventario balcanico (2000) e Oh, uomo (2004); nella serie I diari della Sacher, prodotta nel 2001-02 da A. Barbagallo e N. Moretti e affidata a un gruppo di giovani registi (tra cui G. Gaudino, I. Sandri, R. Nanni, V. Santella), basata sulle memorie private e civili, scritte e orali di un'Italia minore e nascosta.
Bibliografia
R. Bellour, L'entre-images: photo, cinéma, vidéo, Paris 1990;
M.J. Mondzain, L'image naturelle, Paris 1995;
Il cinema e il suo oltre, 15a Rassegna internazionale retrospettiva, Pesaro 1996, a cura di A. Aprà, B. Di Marino, Roma 1996;
J.-L. Comolli, Voir et pouvoir. L'innocence perdue: cinéma, television, fiction, documentaire, Paris 2004 (trad. it., a cura di A. Cottafavi, F. Grosoli, Roma 2006)