Documentazione e notariato
Le domande alle quali vuole rispondere questo saggio (*) sono simili a quelle che Pierre Toubert si è posto a proposito del Lazio medievale. "Toute documentation a sa physionomie originale qui est déjà, en elle-même, un premier témoignage digne d'interprétation: à quoi tient la singularité des nos fonds d'archives? Quels sont les divers types de documents qui les composent et dans quelles proportions? Quelle place l'acte écrit a-t-il tenu dans la vie sociale du moment? Quels modèles juridiques l'ont successivement déterminé?"(1). A queste aggiungiamo le domande relative ai notai, ai responsabili di quella documentazione: numero, attività, competenze, stato personale, rapporto con la collettività...
La situazione archivistica e storiografica veneziana, nei suoi punti di forza e di debolezza, sembra fatta apposta per incoraggiare questi obiettivi. Gli studi di diplomatica del documento notarile veneziano appartengono al passato, si devono ad autori attivi fino agli anni '50. Si trattò come di un veloce mettere in campo la documentazione locale, fino a poco tempo prima preclusa agli studi dalle disastrate condizioni archivistiche. La base informativa che quella generazione di studiosi poteva utilizzare non era granché, né come quantità né come qualità; la risorsa maggiore era la personale e diretta esperienza d'archivio. Di qui un successivo spostamento delle energie verso il lavoro sulle fonti, secondo un programma editoriale ben più caratterizzato degli apporti, peraltro fondamentali, recati in precedenza da Morozzo della Rocca e Lombardo (1940) e da Cessi (1942). Il cambio si deve a Luigi Lanfranchi, sia in quanto autore di quel monumento di operosità che è il Codice diplomatico di Venezia (da ora CDV), sia in quanto iniziatore della collana delle Fonti relative alla storia di Venezia (2).
Volendo schematizzare, se la prima generazione dei diplomatisti-archivisti veneziani ha affrontato in via empirica i problemi della documentazione, la seconda si è impegnata soprattutto a fornire in maniera ordinata e progressiva materiali alla ricerca storica. Che è un andamento, benché dovuto a cause di forza maggiore, abbastanza paradossale, sia in assoluto sia rispetto alle esperienze di altre storiografie lo-cali; e il paradosso rischierebbe di diventare contraddizione se si desse tutto per scontato, se, in altre parole, non si mettesse in campo una forte volontà di conoscere e descrivere le cose. Al di là delle apparenze discrete ciò significa recuperare la problematicità della documentazione, valorizzare l'istanza comparativa, porsi in una prospettiva alta.
In particolare l'esistenza del CDV è un'opportunità da sfruttare senza incertezze vale a dire superando le legittime incertezze che vengono dalla natura provvisoria e "privata" delle trascrizioni approntate da Lanfranchi. Il CDV ti offre su un piatto d'argento il corpus dei documenti veneziani dal 1000 al 1199; inoltre, accompagnato com'è dalle riproduzioni fotografiche dei pezzi d'archivio, ti risparmia il tempo e la fatica del reperimento dei singoli originali. Sia chiaro: il corpus è certa mente suscettibile di aggiustamenti (sta a dimostrarlo la collana delle Fonti, nelle parti in cui è omologa al CDV), né mai un diplomatista serio potrà togliere l'obbligo dell'osservazione diretta dei caratteri interni ed esterni di ogni documento. Se perciò l'opera lanfranchiana non può servire da scorciatoia in percorsi di impronta analitica, essa offre opportunità rare a chi voglia cogliere le grandi linee dei fenomeni. Sono proprio la facile praticabilità e il carattere di totalità del CDV a consigliarne un utilizzo globale in direzione delle strutture documentarie della società locale (3).
È quanto viene proposto nelle pagine seguenti, come anticipazione di una trattazione più larga da pubblicare altrove. In verità una tale trattazione già esiste: è la tesi di laurea di Federica Parcianello, Documentazione e notariato a Venezia nell'età ducale, approvata dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Venezia nell'ottobre 1988. A lei compete il proseguimento dell'indagine e l'elaborazione approfondita della materia; a me il dovere di dichiarare che questi appunti si basano sul suo lavoro, rinviando al volume futuro per i riscontri analitici troppo minuti per essere segnalati qui.
Il periodo che consideriamo sono i centocinquant'anni dal 1001 al 1150. Per i secoli IX e X, a partire dall'819 (data del più antico documento veneziano), si contano soltanto una quindicina di scritture notarili (4), troppo poche per costituire elemento di giudizio. Il termine finale è di pura convenzione cronologica, a riprova del carattere sperimentale del nostro assunto.
Intendiamo valutare i termini quantitativi della produzione documentaria di matrice notarile che si ebbe in quel periodo. Quanto nei dati che offriremo entrino fattori attinenti non alla produzione ma alla conservazione/perdita di documenti è impossibile misurarlo, a meno di accedere a parametrazioni non più che simboliche (5). Il condizionamento archivistico delle nostre conoscenze va sottolineato con forza e però, insieme, sdrammatizzato. In verità gli sviluppi che riscontreremo appartengono sia al campo della produzione sia al campo della conservazione: entrambi vanno di pari passo, poiché sono le due facce dei comportamenti documentari messi in atto da quella data società - o meglio dagli elementi istituzionali di essa. Per proporre un solo assaggio, il rapporto tra originali e copie sul totale dei documenti tràditi parte da una proporzione 1 /2 nel 1001-1050 (16 originali contro 28 copie) per arrivare a una proporzione 10/1 nel 1141-1150. La tradizione dei testi è una delle variabili che determinano la capacità di durata dei documenti. Altre variabili sono le tipologie contrattuali, la consapevolezza archivistica dei soggetti storici, da ultimi - ma solo da ultimi - gli eventi, la noncuranza degli uomini, il caso. Il tema porterebbe troppo lontano: è sufficiente averne avvertito il lettore.
Dei documenti notarili redatti tra il 1001 e il 1150 da notai veneziani e da notai forestieri nel territorio del Ducato, e all'esterno di esso da notai veneziani (questo è ciò che intendiamo parlando di produzione documentaria di matrice notarile), se ne sono conservati seicentotrenta. Come è facile prevedere, la distribuzione nel tempo di tale materiale disegna una curva ascendente. Per i tre cinquantennii Parcianello conta 57, 160, 413 unità, dal 9 al 25 al 66 per cento del totale - una perfetta progressione geometrica. I primi cinque decenni del secolo XII offrono la progressione 50-54-77-98-134. La tendenza si accentua nel periodo successivo, come mostra un'occhiata alla composizione del CDV: se i nostri centocinquant'anni occupano otto volumi dattiloscritti del CDV, per arrivare al 1199 Lanfranchi ne confezionò altri ventiquattro!
Gli ordini di grandezza veneziani vanno commisurati al quadro italiano. Aiuta a farlo l'abbozzo di statistica offerto dal Violante nel 1973 (6). Considerando il secolo XI, la documentazione veneziana si pone a un punto molto basso di un'ipotetica graduatoria tra le città italiane provviste di consistenza documentaria: in cima ad essa stanno, per esempio, i 1.665 documenti lucchesi e i circa 1.200 milanesi, senza tener conto dei grandi cartari monastici (più di mille i documenti del monastero di Passignano presso Firenze, 1.837 quelli di Farfa). Per il XII secolo vengono a mancare termini altrettanto puntuali di confronto. Ma l'impressione è che il ritmo della progressione veneziana sia più forte e appariscente che altrove, e non solo per la modestia dei numeri di partenza. Venezia raggiunge velocemente un livello superiore, a occhio e croce, alla media delle città italiane. Sopra la media ma in larga compagnia. Basta a dimostrarlo il confronto con la documentazione padovana, com'è presentata nel Codice diplomatico del Gloria: le curve della documentazione nelle due città vicine sono assai simili (7).
Il parallelismo, nel togliere unicità al caso veneziano, conferma che gli andamenti delle consistenze documentarie sono variabili significative. In effetti i cambi della documentazione hanno ricevuto dalla medievistica recente il ruolo di parametro periodizzante (8). Fra l'altro, il rapporto tra documentazione e cronologia, in riferimento all'Italia, identifica una cesura importante proprio in quel XII secolo nel quale a Venezia (e altrove) si verifica una notevole intensità di espansione - espansione, come si diceva, sia del consumo di documenti sia del bisogno di conservarli. Ma l'incremento quantitativo non basta a caratterizzare la situazione veneziana nel medio periodo. Meglio che agganciarlo a fattori di quadro (intendi sviluppi economici, civili, religiosi), che sarebbe operazione pressoché tautologica, bisognerebbe considerare accanto ad esso l'incremento, se c'è, dei soggetti, funzioni, tipi documentari. Il tutto arrivando a coprire almeno l'intero secolo - cioè, per noi, l'intero CDV.
Nell'attesa, e dunque fermandoci al 1150, segnaliamo alcuni fatti utili per inquadrare il caso veneziano nella dinamica fra elementi tradizionali ed elementi innovativi che caratterizza il passaggio documentario italiano del XII secolo (9). Il primo è la preponderanza assoluta degli enti monastici ed ecclesiastici come detentori dei documenti. Dei nostri seicentotrenta documenti circa 56o, il 90%, appartenevano a fondazioni religiose. Una caratteristica veneziana è la ricca pluralità di tali enti, sia quanto al numero (si arriva a contarne venticinque) sia quanto alla natura istituzionale (10). Ci sono, è vero, una settantina di atti tràditi da fonti di genesi pubblica, ma essi non modificano la connotazione ecclesiastica dell'assetto documentario veneziano alla metà del XII secolo, in quanto risultano da operazioni più tarde di raccolta e trascrizione (11); anzi ne rinforzano il carattere tradizionale, nel senso che anch'essi, come la maggioranza dei documenti di pertinenza diretta degli enti ecclesiastici, afferiscono alla sfera dei diritti reali. Vi dominano infatti le forme contrattuali, naturalmente al modo veneziano, dei trasferimenti onerosi e gratuiti di proprietà, dei modi della gestione di terre, delle ricognizioni di titolarità.
In realtà, più che dall'organismo politico (che avrà tutto il modo per imporsi, ma più avanti), gli elementi di originalità e di movimento sembrano venire da un altro soggetto: le famiglie. Infatti il secondo fenomeno visibile dalla consistenza documentaria veneziana del primo XII secolo è la presenza relativamente cospicua di archivi familiari: da Molin, Serzi, Staniario, Zusto, Michiel e così via. Essa va tenuta ben distinta da fenomeni in apparenza analoghi, come la frequenza di nuclei archivistici privati nei cartari ecclesiastici in dipendenza da normali meccanismi di accessione (per oblazione, monacazione, lascito di singole persone) o il mantenimento degli archivi appartenuti a famiglie con prerogative pubbliche. La tipicità degli archivi familiari veneziani consiste nella loro natura francamente privata e nella loro riconoscibilità, identità in quanto archivi. A dare tanto risultato è stata la prassi della commendacio, cioè dell'affidamento in deposito temporaneo, di solito a un ente, di un bene mobile (denari, cose e soprattutto carte) (12) - prassi tipicamente veneziana, e perciò stesso significativa.
È del tutto naturale che di qui provengano quei tipi documentari che riducono la fisionomia tradizionale della documentazione veneziana nelle due facce sopra richiamate, l'appartenenza ecclesiastica e l'orientamento patrimoniale. "I documenti accomendati derivano per la massima parte dal ceto commerciale della Città" (13): si parla insomma dei "documenti del commercio veneziano" di allora. Documenti tra i quali prevale, a questa altezza, la securitas, cioè la quietanza liberatoria di precedente obbligazione: si tratta del genere contrattuale più rappresentato in assoluto, il 30% circa sul totale dei nostri documenti, con omogenea distribuzione nel tempo (19/40/ 125 nei tre periodi); mentre fanno soltanto prevedere i futuri sviluppi gli altri due generi tipici della diplomatica commerciale veneziana, la manifestatio (obbligazione) e la testificatio (14). Il primo impulso alla conservazione ha per oggetto il documento liberatorio, di assoluta e perpetua garanzia, detto per l'appunto securitas; solo in seguito si accede alla tenuta di carte di utilità meno pressante.
Poiché i loci accomendacionis per eccellenza erano gli enti religiosi, anche l'emergere delle famiglie veneziane come componente attiva del quadro documentario passa attraverso le strutture ecclesiastiche e di queste conferma il ruolo imprescindibile. Non di tutte in ugual misura, però. Un ruolo peculiare ha, almeno a posteriori, l'archivio di S. Zaccaria. Lì si trovano quattro dei cinque archivi familiari nominati sopra, ed altri ancora. Lì hanno trovato il materiale più abbondante per la loro ricerca sui documenti del commercio veneziano Morozzo della Rocca e Lombardo: 506 carte fino al 1261 (ben oltre dunque l'inizio del Duecento), contro le 15 di S. Giorgio Maggiore, le tre/due/una degli altri archivi ecclesiastici e soprattutto le 151 dei Procuratori di S. Marco (15). Ancora, nel nostro corpus si hanno 64 documenti rogati lontano da Venezia, nelle piazze commerciali adriatiche e orientali: 48 di essi, i tre quarti, sono nell'archivio di S. Zaccaria.
Se non fosse per S. Zaccaria il panorama documentario veneziano risulterebbe molto più piatto e statico. Il carattere aperto e composito (non puramente eterogeneo, come per molti altri archivi ecclesiastici) dell'archivio rivela una particolare capacità attrattiva di quel monastero verso la produzione documentaria laica e privata nel suo complesso, cioè anche a prescindere da occasionali legami di fatto. Una capacità talmente particolare da far immaginare una consuetudine collettiva se non addirittura un qualche meccanismo istituzionale.
Questa documentazione si deve a circa centocinquanta notai. Si conoscono altri sei notai dei quali non sono rimasti documenti, quattro come autori di copie e due come testimoni sottoscrittori, e chissà quanti altri non se ne conoscono. Il rapporto tra notaio e documentazione prodotta (e conservata), incrociato al dato cronologico, identifica le seguenti situazioni:
Il gioco delle variabili che entrano in queste grandezze è troppo fitto per consentire deduzioni statistiche; superfluo, per esempio, insistere sul discrimine del 1100, qui accentuato oltre misura.
La tabella serve più che altro a chiudere il discorso sulla consistenza e distribuzione dei documenti e a dar conto dei livelli di conoscibilità del fenomeno notarile permessi dalle fonti. Che più della metà dei notai siano noti da uno o due documenti soltanto è un handicap chiaro.
Per quanti limiti statistici presenti il nostro campione notarile, è tuttavia un campione capace di rivelare molte cose. A noi servirà per delineare i caratteri tipici del notariato medievale veneziano, che lo distinguono fortemente dal notariato italiano. Di nuovo, il secolo XII si rivela un osservatorio vantaggioso: è proprio in quel torno di tempo che nell'Italia centro-settentrionale si diffondono la figura del notaio dotato di publica fides e il regime documentale dell'instrumentum (16), e pertanto si apre (o si accentua, o si rivela) quella divaricazione tra notariato veneziano e notariato italiano che sarebbe durata fino al Quattrocento (17).
La differenza appare dalla stessa documentazione veneziana, perché nel Ducato agiscono notai locali e notai forestieri. Guardando dall'alto, la compresenza nel Ducato dei due notariati è come la sovrapposizione di due eccezioni: il notariato veneziano fa eccezione rispetto alla situazione generale; a sua volta il notariato "normale" fa eccezione rispetto alla situazione locale, con la conseguenza di farsi immediatamente riconoscere (18).
Dopo le isolate attestazioni di un notarius acque iudex domini imperatoris nel 976 e di un notarius et iudex sacri Palacii nel 1029, bisogna arrivare al 1102 per trovare un notarius domini imperatoris rogare a Venezia; da allora l'assoluto squilibrio di partenza tra le due componenti si attenua progressivamente. Ma nella prima metà del secolo XII si presentano ancora pochi notai ordinari, sedici. La maggioranza di essi è presente con una o due scritture, il che rivela l'occasionalità del loro intervento in Ducato. Quattro invece operano con relativa frequenza: da tre a sei documenti a testa, in archi di tempo variabili tra i sette e i venticinque anni. Loro ritorni a distanza di tempo dovrebbero dipendere da itineranza piuttosto che da stabile residenza in loco: Adam notarius et causidicus, autore di sei documenti a Venezia tra il 1136 e il 1161, ne redige molti di più, una sessantina, in giro per tutta la terraferma veneta.
Perché i notai forestieri a Venezia? La prima impressione, tanto appare indolore il loro intervento veneziano, è che essi vengano in quanto dotati di un potere sovraterritoriale: possono rogare ovunque e quindi anche nel Ducato, le loro carte sono valide erga omnes. Forse è così procedendo nel tempo. Ma all'inizio il fenomeno dovette avere ragioni precise. La pagina securitatis di Valdrada del 976 fu realizzata da un notaio imperiale per esser sottoposta a un placito comitale, dal quale infatti il documento fu riconosciuto bonus et verus (19). In seguito, molti dei documenti redatti da notai forestieri interessano persone legate alla legge longobarda, alla legge salica, alla legge romana. Se si considera il rovescio della medaglia, vale a dire l'attività dei notai veneziani all'esterno del territorio del Ducato - attività espletata su richiesta e a vantaggio di concittadini -, prende corpo l'ipotesi che le prime presenze veneziane dei notai ordinari siano dovute a motivi di competenza: competenza nel senso giurisdizionale, quasi da "notai naturali" per certi negozi e persone. L'infittirsi del fenomeno con l'apertura del secolo XII va messo in rapporto con l'affermazione in Terraferma del diritto e notariato comuni, dalla quale la "differenza" veneziana fu manifestata a tutte lettere, così da rendere avvertiti della necessità, in determinate circostanze, di ricorrere a notai non locali.
Tolti quei sedici, i restanti, cioè il novanta per cento, sono i notai veneziani. Due terzi sono di Rialto, un terzo delle località lagunari. Li chiameremo notai chierici, secondo lo stato personale; notai di diritto veneziano, secondo il quadro di riferimento normativo, negoziale, documentale; notai ducali, secondo l'autorità che li investe della loro funzione... Di ciascuno di loro sappiamo molto, mediamente più di quel che sappiamo degli "altri" notai coevi: lo stato chiericale, qualche volta l'appartenenza parrocchiale, spesso (con maggiore frequenza a partire dal terzo decennio del secolo XII) il cognome - senza contare i dati risultanti dai documenti in quanto tali, così dei nostri come di tutti i notai: tempi e luoghi di esercizio, clientela, cultura, scrittura.
I rogatari veneti provengono senza alcuna eccezione dal clero: dal clero parrocchiale, non dal clero regolare - solo nell'829 si trova come redattore un presbiter et monacus. Sono tutti chierici afferenti agli episcopati del patriarcato di Grado; la comune dipendenza giurisdizionale li costituisce in corpo ecclesiastico unitario. Appartengono a tutti gli ordini chiericali, con esclusione dell'episcopale e con limitata incidenza dell'arcidiaconale e arcipretale. Le qualifiche più frequenti, senza apprezzabili variazioni nel tempo, sono quelle di presbiter e, molto distanziata, di diaconus; solo dagli anni settanta dell'XI secolo firmano documenti i suddiaconi; datano più o meno dagli stessi anni le sottoscrizioni da clericus, titolo generico. Sono documentate promozioni di redattori da un ordine all'altro, da suddiacono a diacono a prete: segno che lo stato chiericale non portava alcun dislivello di funzione notarile. Uno dei notai veneziani più attivi, Giovanni Orseolo, non andò mai oltre il suddiaconato. Quattro notai dichiarano non l'ordine chiericale ma la sola funzione ecclesiastica: sono due cappellani di S. Marco, un pievano di S. Luca e uno di S. Maria di Murano.
L'ambito d'attività organico dei notai-chierici veneziani è l'area storica del Ducato, da Grado a Cavarzere. Relativamente abbondanti sono le tracce della loro circolazione esterna al Ducato, nelle piazze commerciali di interesse veneziano, soprattutto a Costantinopoli; è esclusa invece ogni penetrazione in Terraferma, dominio di notariato comune. I notai che in questo periodo rogarono documenti in Oriente sono una trentina; provengono da Rialto, Torcello, Equilo; un paio soltanto di essi dovevano risiedere stabilmente a Costantinopoli, essendovi autori di 15 e 12 documenti nei periodi 1146-68 e 1150-61. Più scarsi sono i casi di mobilità all'interno del Ducato (quattro notai di Rialto che rogano a Loreo, Equilo, Chioggia, Murano; tre di Chioggia e uno di Malamocco a Rialto, uno di Chioggia a Loreo), i quali comunque dimostrano che l'esercizio dell'attività notarile non era vincolato a una sede determinata.
Importante è stabilire in quali centri periferici del Ducato risiedevano ed esercitavano notai locali, e valutare in quale misura essi presentino qualche carattere distintivo rispetto alla città dominante, ovviamente all'interno del mos notarile veneto. L'argomento dei notariati locali è molto bello, e sarebbe un peccato bruciarlo con notazioni troppo sintetiche. Basti dire che l'esame delle caratteristiche grafiche e formali degli originali (20) identifica con sufficiente sicurezza tradizioni locali a Torcello, Chioggia, Equilo già dal primo secolo XI, poi a Malamocco, Caorle, Eraclea e Murano (queste ultime in parentela rispettivamente con Equilo e Torcello): molte sedi vescovili, come si vede, ed è chiaro il perché.
Quali i livelli di produttività e la durata di esercizio espressi dai notai veneziani? I primatisti sono Egidio di Chioggia con 87 documenti in 48 anni e il suddiacono Giovanni Orseolo con 61 documenti in 34 anni. Gli intervalli tra i documenti realizzati (e conservati) fanno superare la soglia dei vent'anni di attività a 32 dei nostri 154 notai; passano la soglia dei trent'anni in 14, dei quarant'anni in sei. Il più longevo è Marino Gregori, con venti documenti dal 1122 al 1174. Una classifica per notariati locali vedrebbe dominare gli undici notai di Chioggia, capaci di una produzione totale di 256 documenti per una media di ventitré documenti a testa, indaffaratissimi dunque e longevissimi (sei su undici oltrepassano i trent'anni di esercizio); ma esercitavano in non più di due o tre contemporaneamente.
Al confronto, i notai della capitale (un centinaio in tutto) manifestano una capacità produttiva minore nel complesso, e con forti variazioni da notaio a notaio. La prima constatazione coinvolge le differenze locali del rapporto tra popolazione, domanda di documentazione e numero dei notai, la seconda fa risaltare una fascia notarile molto impegnata contro una massa sottoccupata. Intanto: quanti erano davvero i notai attivi nella città? Lavorando soltanto sui primi cinquant'anni del secolo XII e stabilendo i totali dei rogatari attestati in un dato arco di tempo (un anno, un quinquennio, un decennio) si ottengono risultati abbastanza omogenei: per anno, si passa da una media di 8/10 a una media di 12/16; per quinquennio, da 12/15 a 19/23; per decennio, da 19 a 27. I risultati dei tre insiemi cronologici tendono, col passare del tempo, a convergere: l'anno 1144 presenta 18 notai in attività, il quinquennio 1141-1145 ne presenta 23, il decennio 1141-1150 ne presenta 27. Ciò significa che con l'ultimo totale non dovremmo essere lontani dal numero effettivo dei notai in attività a Venezia - diciamo dunque: tra venticinque e trenta , e che dati pressoché sicuri si ricaveranno da analoghi calcoli su documentazione più recente.
La fisionomia così caratterizzata del notariato veneziano ha riscontro nella uniformità delle scritture che di quel notariato sono il prodotto e l'espressione. Il documento notarile veneziano è costruito su formule e formalità fisse, apprese e seguite e tramandate da tutti i redattori. Non solo il prodotto-documento, anche tutte le altre componenti della documentazione, delle quali non possiamo occuparci qui - formulario, sistema giuridico e contrattuale, procedure documentarie (21) -, sono soggette a uguale conservatorismo. Se altri notariati locali possono vantare un mos, una consuetudine notarile così tipizzata come quella veneziana, in nessun caso essa attinge una così alta longevità e perciò - non è un concetto nuovo - una così riconoscibile distinzione rispetto alla comune prassi documentale. Beninteso l'uniformità non è assoluta né immobile. Non è assoluta perché lascia qualche margine di variabilità individuale (ma senza che mai si acceda a sperimentazioni di sostanza) e si realizza secondo il livello di cultura grafica e linguistica del redattore. Non è immobile perché la prassi subisce dei cambiamenti: però assunti con tale generalità da farla credere subordinata a un centro di orientamento e normalizzazione, che è facile identificare con la cancelleria ducale.
Descriviamo in maniera sintetica alcuni dei caratteri distintivi del documento notarile veneziano tra X e XIII secolo, suggerendo di osservare le riproduzioni che corredano quest'articolo e dando per sottintesa la conoscenza del modello documentario "normale", quello dell'instrumentum, metro di misura - dal XII secolo in avanti - della diversità veneziana. Si insiste sulle formule protocollari, quelle che aprono e chiudono lo scritto. Sono le parti che costituiscono la cornice formale e convalidante dello scritto, senza impegnare la sostanza dell'atto documentato: e come tali sono in grado di rivelare i fatti di cultura pratica della categoria. Di solito l'analisi d'esse mira a identificare circolazioni di modelli, appartenenze e derivazioni culturali. Da questo lato risulta con chiarezza una iniziale dipendenza da modelli ravennati (22), mentre all'estremo opposto si intravede un'apertura duecentesca verso usi notarili "comuni" (23). Qui invece interessa esemplificare i fenomeni di continuità, variabilità, cambiamento seguito da allineamento, comunque siano generati (24).
Il segno di croce iniziale (la cosiddetta invocazione simbolica), dapprima semplice poi arricchita di elementi ornamentali, tra XI e XII secolo viene a combinarsi e infine a coincidere con la I di In nomine; tale I assume col XII un disegno caratteristico, con due linee laterali e una protuberanza sul lato sinistro. La formula fissa di invocazione alla divinità, con eccezioni che si contano sulle dita di una mano, è In nomine domini Dei et salvatoris nostri Iesu Christi; sarà utile verificare se ci sia uniformità nel modo di scrittura materiale, tra lettere e compendi, della formula. Più mosso il settore della datazione cronica, che figura sempre in apertura del documento ed è sempre seguita dalla menzione del luogo. Un momento di cambio sembra porsi nel secondo quarto dell'XI secolo, quando si abbandonano le consuetudini che possiamo definire altomedievali - l'anno dell'Impero (d'Oriente), il millesimo secondo lo stile della natività in alternativa, nel primo ventennio del secolo, col riferimento secco all'indizione, il giorno del mese - e si afferma la tipica datazione locale: millesimo secondo lo stile veneto (dal 10 marzo), mese, indizione bizantina (dal I° settembre). Innovazione successiva, tra XII e XIII secolo, è l'aggiunta del giorno, numerato secondo la consuetudo bononiensis (mese entrante in avanti, mese uscente all'indietro).
Il testo è impostato sul discorso diretto Ego... tibi e sul tempo al presente. Ma gli ego sono molti, perché oltre all'attore intervengono in prima persona anche i testimoni e il redattore. L'attore ovvero committente sia nel testo che, talvolta, sottoscrivendosi; testimoni e redattore sottoscrivendosi. In tal modo il documento viene a comporsi di due fasce di scrittura: quella superiore fornisce, in maniera distesa e compatta, il testo dell'atto, coordinato all'ego dell'attore; quella inferiore riceve le espressioni autografe dell'identità dello stesso, dei testimoni e del redattore, e presenta pertanto una serie di spiccate evidenze grafiche e simboliche. Di queste la più caratteristica è la notitia testium, apparentata a quella ravennate (25); le sottoscrizioni dei testimoni, col solo nome personale, si incolonnano a sinistra, di fianco a una grande N sulla quale è o dovrebbe essere costruita in monogramma la parola Noticia; il seguito testium idest rinvia allo spazio a destra, dove il notaio scrive i nomi, stavolta completi, degli intervenuti. Le attestazioni veneziane di questa formalità la mostrano già in fase di stilizzazione ed esaurimento; essa viene abbandonata negli anni trenta del secolo XII, con sopravvivenze sporadiche e periferiche.
Nella sua parabola terminale, la notitia testium aveva perduto gran parte non solo della sua configurazione grafica, ma del suo significato sostanziale: veniva spesso a mancare il gioco tra primo nome nella sottoscrizione e nome personale completo nell'attestazione notarile; lo stesso intervento autografo dei testi poteva essere senz'altro sostituito dalla formula signum manus scritta dal notaio. È interessante che l'abbandono della vecchia formalità si risolse non, come avvenne altrove e come quegli sviluppi potevano lasciar intendere, in un rafforzamento del ruolo del redattore, bensì in una riconversione decisa verso la preponderanza certificatrice dei testimoni. Si adottò infatti la soluzione del semplice incolonnamento delle sottoscrizioni autografe: era il modo tradizionale della charta altomedievale italiana, che proprio allora, nel corso cioè del XII secolo, veniva soppiantata dalla dichiarazione notarile (in presentia..., presentibus...) . Perché a Venezia prendesse piede questa maniera, bisogna aspettare la fine del Duecento.
La sottoscrizione del notaio redattore, che chiude il documento, ha questa struttura: segno - Ego - nome personale - qualifica ecclesiastica - et notarius - compievi et roboravi. Le varianti sono pochissime e spiegabili: di alcune si riparlerà. Il signum del notaio, dapprima standardizzato nella forma discreta del segno di croce, tra 1030 e 1040 subisce una svolta: da allora, i notai elaborano signo personali, complessi, "inimitabili" (questa è la loro funzione primaria). Si riscontrano tuttavia due archetipi dominanti, la croce e una P di forma capitale, mentre è minoritario il segno, che diremmo alla maniera romana, ottenuto mediante sviluppo della E di Ego. È interessante la P, della quale sono state date spiegazioni non convincenti: sigla di presbiter, derivazione dal monogramma di Cristo; probabilmente gli stessi notai che la usavano ne fraintendevano il senso. Potrebbe essere un residuo, ormai disseccato e incompreso, di quella sorta di grande P, in realtà segno tachigrafico per n iniziale di notarius, sulla quale è costruito il signum dei tabellioni romani del X e XI secolo (26).
È l'elaborazione grafica e simbolica, non la costruzione del testo, lo spazio di autonomia riservato alla individualità notarile. Per quanto riconducibili a modelli fondamentali, il segno iniziale, la della notitia testium, il segno che accompagna la sottoscrizione sono realizzati con libertà. Si aggiungano le variazioni sui temi della croce e della g di Ego nelle quali si impegnano pure i testimoni sottoscriventi: specialmente nel rendere la curva inferiore della g è d'obbligo lo sfoggio individuale. Per tornare ai notai, generale è la tendenza, alle volte estrema, a caratterizzare in maniera vistosa la prima riga del testo e soprattutto la sottoscrizione: modulo esagerato, aste allungate e arricciate, lettere e segni abbreviativi di forma particolare. Accanto all'imitazione di solemnitates cancelleresche, tale esercizio rivela come l'esplicarsi di un'attitudine creativa: la quale però, ripetuta com'è, finisce per ricondurre a uniformità anche le performances più personali.
I numeri e le descrizioni non bastano più. I caratteri così peculiari del notariato veneto e della sua attività impongono domande di sostanza. La domanda fondamentale, e dal lato sociologico e soprattutto dal lato istituzionale, viene dallo stato chiericale dei notai e investe il rapporto tra clero e notariato locali. Le due categorie coincidono? Tutti i chierici, cioè, sono anche notai? C'è un rapporto tra il numero, funzione, dislocazione dei notai e la rete ecclesiastica della cura d'anime, il sistema delle parrocchie e dei confinia? Qual è la relazione tra i preti notai e la città? E insomma: che significa essere notaio a Venezia (27)?
Qualche risposta si può abbozzare. No, non è pensabile che tutti i chierici fossero anche notai. Le due classi non possono coincidere, solo una parte del clero ha funzioni di notariato. Fino a tutto il secolo XII i notai erano nominati dal doge, al doge versavano una tassa, dal doge erano dimessi in caso d'indegnità (28). Esisteva perciò una carriera notarile distinta da quella ecclesiastica, soggetta l'una al potere disciplinare e normativo del doge, l'altra ovviamente all'autorità ecclesiastica. Alcune visibili discendenze di usi notarili suggeriscono un passaggio dal notaio anziano all'apprendista; Pagnin suppone anche l'esistenza di una scuola notarile presso S. Marco; sta di fatto che il curriculum di formazione notarile non si identificava col curriculum di formazione chiericale, semmai si affiancava e aggiungeva ad esso (29).
Secondo lo stesso Pagnin i plebani, cioè i titolari della cura d'anime in ciascuna chiesa plebanale, "erano probabilmente quasi sempre notai" (30). Le nostre conoscenze vengono dalla ventina di casi in cui il redattore dichiara, non tanto nella sottoscrizione quanto in altre parti del testo, il proprio ruolo di vicarius o plebanus di una chiesa: cosa diversa dallo stato chiericale, questo dichiarato pressoché da tutti (e infatti si sono ricordati come eccezione i due pievani che appongono la qualifica di ruolo e non di stato). Che tali dichiarazioni non rivelino alcuna sovrapposizione di ufficio e di sede non significa nulla, farebbe meraviglia il contrario; non si può inferirne positivamente che tutti i plebani fossero notai, ma solo non escluderlo. Né si guadagnerebbe molto decidendo, contro l'apparenza, che il titolo di plebanus indichi l'afferenza a una plebania e non la titolarità di essa, o ancora valorizzando le pochissime attestazioni di funzione ecclesiastica non vicariale né plebanale: ne verrebbe al massimo la possibilità, non la certezza, che ci fosse un notaio per parrocchia/confinium.
Non serve affidare risposte più precise all'avanzamento dell'indagine e all'aumento delle informazioni. Il problema sostanziale è un altro. Noi del clero veneziano sappiamo nulla di più e nulla di meno di quanto sappiamo del notariato, cioè di quanto gli stessi preti scrivono di sé in quanto notai. Se vuoi conoscere i nomi dei plebani e confrontarli con i nomi dei notai, vai a vedere le cronotassi approntate dal Corner chiesa per chiesa e ti accorgi che i dati sono gli stessi: le sue fonti erano esattamente le sottoscrizioni notarili. Per questo è naturale l'impressione che tutti i plebani fossero notai ovvero che in tutte le pievanie ci fosse un chierico-notaio. Il nesso tra clero e notariato induce una prospettiva nella quale le due entità si sovrappongono in modo così perfetto da togliere identità all'una rispetto all'altra. Se è vero che clero e notariato veneziani non coincidono, invece coincidono i profili e le storie rispettive. Eccoci al punto: capire la necessità veneziana del binomio preti-notai. E in essa che sta la "differenza" del notariato e della documentazione locali (31).
Non esiste a Venezia un notariato "in senso soggettivo" (32), un notariato come categoria caratterizzata per condizione e funzione sociali. Si consideri di nuovo la formula della sottoscrizione, che è il luogo dove si esplica l'autocoscienza notarile. Tra la qualità chiericale e la qualità notarile, quella meno presente all'attenzione dei redattori veneziani è la seconda; essa è sempre dichiarata in maniera indistinta, con le parole et notarius aggiunte in coda al nome e alla qualifica ecclesiastica; né maggiore autonomia è riservata alla funzione documentaria del redattore, sempre espressa con la stereotipa dichiarazione compievi et roboravi. Le uniche variazioni che il segmento et notarius della sottoscrizione subisce si devono per un verso ai notai che operano nella curia ducale e affermano la loro funzione pubblica (cancellarius, curtis o ducalis palacii notarius e simili: una decina di casi, da aggiungere ai cinque anteriori al Mille (33)), per l'altro verso a redattori che non si dichiarano, e perciò non sono notai. Proprio così. Sei documenti, sparsi tra 1022 e 1112 (non oltre), portano una sottoscrizione in cui figurano soltanto i titoli ecclesiastici del rogatario, senza l'indicazione della funzione notarile e, in tre casi, con significative varianti rispetto al canonico compievi et roboravi, nelle parole cioè che descrivono il ruolo di agente della documentazione. Cinque dei sei documenti sono realizzati lontano da Venezia. Si tratta senza dubbio di redattori occasionali, che scrivono in quanto preti e non in quanto preti e notai.
L'evenienza ribadisce che il carattere costitutivo del notariato veneto è lo stato chiericale. In particolari circostanze (e in una fase relativamente arretrata) bastava esser chierici per redigere documenti; nella norma, occorreva esser chierici per fare il notaio. L'equazione non è reversibile, ci mancherebbe altro: si tratta di una funzione, fare il notaio, che discende da una condizione, essere chierico. La differenza veneziana sta in questo: in Italia il compito di soddisfare le esigenze documentarie della collettività costituisce e identifica il notariato come distinto soggetto sociale; a Venezia il compito è affidato a una categoria, il clero parrocchiale, precostituita in funzione di tutt'altro compito. Venezia non aveva nessun bisogno di inventare, si fa per dire, il notariato: aveva già il clero. Fra l'altro questa scelta inaugurava la strategia veneziana di precludere la formazione di un ceto di tecnici del diritto capace di comportamenti lato sensu politici (34).
Cosicché se in Italia si ha un notariato al quale la convenzione sociale attribuisce la publica fides, per Venezia possiamo parlare di un clero in sé dotato di publica fides. Termini che, condensando "i concetti di fedeltà, di fiducia, di confidenza, di persuasione, di onorabilità, di impegno, di sicurezza, di certezza" (35), rappresentano alla perfezione il peculiare rapporto tra la cittadinanza e il clero veneziani - quella "perfetta saldatura" tra la Chiesa locale, "creatura prediletta del regime", e istituzioni civili della quale proprio "la straordinaria continuità della figura del prete-notaio" è una delle prove maggiori (36). Qui, nello spessore civile di quel clero, nella sua capacità di rappresentanza, nel suo legame con l'istituto ducale, sta la ragione del nesso tra funzione ecclesiastica e funzione notarile al servizio della collettività locale (anche, per ipotesi, nel senso più ristretto di vicinia, restando ferma l'assenza di una territorialità notarile). Appaiono estrinseche altre spiegazioni: perché i chierici erano rimasti gli unici depositari della cultura (37), perché l'aggancio all'ordine universale della Chiesa otteneva una maggiore credibilità alla documentazione (38). Motivi del genere possono valere per i notai ecclesiastici di età altomedievale, non per un fenomeno radicato, durevole, "necessario" come il notariato ecclesiastico veneziano.
Infatti, quella ecclesiastica è componente fisiologica del notariato italiano altomedievale, anzi spesso maggioritaria rispetto alla componente laica: forse più nei territori longobardi che nei territori "romanici", dove pure il notariato ecclesiastico ebbe configurazione categoriale e pubblica (39). A Ravenna fanno capo alla curia cittadina i tabelliones civitatis, alla curia arcivescovile i notarii Ecclesie; analoga è la situazione romana, con i tabelliones di afferenza cittadina e i notarii di afferenza pontificia; per i privati rogano i primi, i secondi redigono solo documenti di interesse ecclesiastico. Nulla di simile a Venezia, se non forse nella qualifica di notarius che è tipica dei redattori ecclesiastici a Ravenna e Roma (e anche, peraltro, in molti dei territori in cui operano in modo organizzato le due categorie). Delle due componenti notarili lì attive con competenze precise, Venezia ne isola una e ad essa affida il monopolio della documentazione, pubblica e privata, laica ed ecclesiastica.
Lo stato delle fonti non permette di capire se la scelta fu iniziale, originaria, oppure intervenne a un certo punto a modificare una preesistente assimilazione al modello ravennate-romano. Comunque sia, fu una scelta resistentissima. La saldatura al clero della funzione notarile prende vigore proprio quando a livello generale si affermava un'opposizione, per vari motivi, all'esercizio del notariato da parte di ecclesiastici (40): opposizione che avrebbe annullato o ridotto a eccezione il fenomeno (anche a Ravenna e a Roma) e avrebbe trionfato, più che per i veti di Innocenzo III, col notariato "laico" di diritto comune. Quella di Venezia è una vera e propria marcia contro corrente. Marcia solitaria: non valgono a confronto le situazioni con persistenza minoritaria di notariato ecclesiastico; di più, in nessun'altra parte è così netta e istituzionale come a Venezia l'opposizione tra notariato locale e notariato ordinario.
Per conseguenza quello veneziano è come un cuneo di notariato altomedievale nel corpo della civiltà notarile "moderna" dell'Italia centro-settentrionale. Lo stesso documento veneziano presenta, e ben oltre la metà del XII secolo, molte caratteristiche che diremo per brevità altomedievali. Ripetiamole, stavolta fornendo qualche valutazione comparativa. Il testo dei documenti, in forma soggettiva e col tempo al presente, indicativo di una persistenza degli elementi costitutivi della charta (ritualità e formalismi, coincidenza tra azione e documentazione) e infatti opposto al discorso narrativo dell'instrumentum. La pluralità e sovrapposizione dei soggetti, mentre nell'instrumentum l'unico Ego è quello del notaio. La sottoscrizione del redattore, piena di elementi tradizionali - la parola compievi, il signum, la stessa denominazione indiscriminata e minimale di notarius - e priva di quegli elementi che dichiarano la capacità probatoria del redattore: la sua partecipazione al momento dell'azione (interfui), la condizione che lo rende responsabile della documentazione (rogatus), l'autografia come radice dell'autenticità (scripsi). Lo sforzo di connotare con l'esuberanza degli artifici grafici la scrittura documentale, che invece dai notai italiani è realizzata con secchezza e rapidità. Tipicamente "altomedievale" è la prassi della sottoscrizione testimoniale, che da sola rivela l'arcaicità del documento veneziano (41). L'intervento autografo dei testimoni non ha senso nell'instrumentum, tutto ed esclusivamente dovuto alla responsabilità del notaio di publica fides; ha senso quando sia un requisito per ottenere l'autenticità, essendo insufficiente a ottenerla da sola l'autografia del redattore. Proprio questa era la situazione veneziana, poiché la fides dei redattori aveva una base ecclesiastica prima che notarile. Infine, che la figura del redattore pubblico fosse seconda rispetto alla figura chiericale è avvalorato dai comportamenti dei chierici-notai in quanto tecnici della documentazione, se confrontati con l'altro notariato: comportamenti di basso profilo, privi di un interesse specifico al proprio lavoro che non fosse quello di manifestare fedeltà a una tradizione. Vi sono eccezioni, ma portate solo dagli operatori della cancelleria ducale.
La scelta veneziana del notariato ecclesiastico era la volontà di trovare nella propria autonomia e individualità le risorse della documentazione, essendo il clero la componente locale capace del massimo di fides; nei fatti fu una scelta di arretratezza. Identificazione del notariato col clero, insufficienza certificatrice dei notai-preti, inesistenza del notariato: son tutti modi per dire la stessa cosa. Il prezzo della differenza era la debolezza dell'intera struttura documentaria veneziana.
(*)In origine era previsto che il saggio fosse scritto con Marco Pozza, così come quello sulla documentazione dello Stato veneziano che comparirà, stavolta con la firma del solo Pozza, nel secondo volume cronologico della Storia di Venezia. Ciò non significa che entrambi i testi non siano il risultato di molte discussioni e di una costante collaborazione; in particolare, poi, il contributo specifico che Pozza ha portato al presente saggio è nel paragrafo dedicato agli usi redazionali. Allo stesso si deve la scelta dei documenti da riprodurre nelle tavole fuori testo.
1. Pierre Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium médiéval et la Sabine du IXe à la fin du XIIe siècle, Rome 1973, p. 71 (tutta la parte relativa alla documentazione è omessa nella traduzione italiana: Feudalesimo mediterraneo. Il caso del Lazio medievale, Milano 1980). Utili riflessioni sistematiche sono esposte in premessa ed esemplificate in descrizione da Cristina Carbonetti Vendittelli - Sandro Carocci, Le fonti per la storia locale: il caso di Tivoli. Produzione, conservazione e ricerca della documentazione medievale, "Rassegna degli archivi di Stato ", 44, 1984, 1, pp. 68-148.
2. Si rinvia all'ultimo scritto di Luigi Lanfranchi, retrospettivo e propositivo : Per un codice diplomatico veneziano del secolo XIII, in AA.VV., Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, pp. 355-363. Come esempio della situazione di passaggio può vedersi l'elenco delle fonti edite enunciato in avvio da Beniamino Pagnin, Il documento privato veneziano ‒ Il formulario, Padova 1950, che è il lavoro più organico di diplomatica del documento notarile veneziano : sono indicate raccolte assai disparate e di valore diseguale, da Corner ai Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Roma 1940 (Regesta chartarum Italiae) e Torino 1940 (Documenti e studi per la storia del commercio e del diritto italiano, 19-20); Si intravede soltanto l'apporto recentissimo delle Fonti, con i due primi volumi curati da Luigi Lanfranchi nel 1947 e 1948. Oggi l'elenco non solo sarebbe molto più lungo, ma avrebbe maggiore compattezza.
3. Qualcosa di analogo hanno fatto Toubert, già citato, e Michael T. Clanchy, From Memory to Written Record. England 1066-1307, London 1979; tra gli specialisti di diplomatica, Franco Magistrale, Notariato e documentazione in terra di Bari, Bari 1984. Se si volesse stabilire una prospettiva teorica, molto potrebbe mutuarsi dal programma della codicologia volta a volta definita quantitativa, sperimentale, sociologica (in riferimento alla "popolazione" dei libri) dai suoi promotori: Carla Bozzolo - Ezio Ornato, Pour une codicologie expérimentale, "Scrittura e civiltà ", 6, 1982, pp. 263-302.
4. Da rintracciarsi tra i Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille pubblicati da Roberto Cessi in due volumi, Padova 1942, la gran parte dei quali di emanazione cancelleresca.
5. Tale è la proposta di M. T. Clanchy di valutare l'entità della produzione complessiva di scrittura (di qualsivoglia scrittura) nell'Inghilterra medievale centuplicando il numero dei documenti conservati: From Memory, p. 40.
6. Cinzio Violante, Lo studio dei documenti privati per la storia medioevale fino al XII secolo, in AA.VV., Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del congresso internazionale tenutosi in occasione del 900 anniversario della fondazione dell'Istituto storico italiano (Roma 1973), Roma 1976, pp. 8o-81 (pp. 69-129).
7. Nei due primi volumi del Codice diplomatico padovano curato da Andrea Gloria (l'iniziale dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, e il primo dei due dall'anno 1101 alla pace di Costanza, Venezia 1877 e 1879) sono editi 79 documenti tra 1001 e 1050, 179 tra 1051 e 1100, 542 tra 1101 e 1150: documenti sia notarili sia di cancellerie.
8. Cf. soprattutto Gabriella Severino, Medioevo centrale, periodizzazione, documentazione, in AA.VV., Periodi e contenuti del Medio Evo, a cura di Paolo Delogu, Roma 1988, pp. 121-136.
9. Dinamica descritta da Paolo Cammarosano, inteso a definire la "geografia documentaria" dell'Italia centromedievale, in più interventi: l'ultima volta in Città e campagna: rapporti politici ed economici, in AA.VV., Società e istituzioni dell'Italia comunale: l'esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Perugia 1988, pp. 305-309 (pp. 303-349).
10. I dati sulle provenienze archivistiche dei documenti andranno perfezionati in base alle indagini in corso sui catastici moderni degli archivi monastici ad opera specialmente di FRANCESCA Cavazzana ROMANELLI (dispongo del suo Archivi monastici e illuminismo : "catastici" e ordinamenti settecenteschi in area veneziana, in bozze; come è in corso di stampa la sua Guida agli archivi dei monasteri benedettini conservati presso l'Archivio di Stato di Venezia).
11.Si tratta infatti dell'archivio dei Procuratori di S. Marco, in quanto archivio di deposito degli atti privati; dei Libri pactorum, redatti a partire dagli ultimi anni del XII secolo; e soprattutto del Codex publicorum, di redazione tardo-duecentesca (se ne veda, nella collana delle Fonti, l'edizione curata da Bianca Lanfranchi Strina nel 1985). Una ventina invece provengono direttamente dalle Cancellerie ducale e inferiore.
12. V. i Documenti del commercio veneziano, I, pp. IX-XV.
13. Ibid., pp. XIX-XX.
14. Cf. ibid., pp. XXVIII-XXIX.
15. Ibid., pp. XVIII-XIX.
16. Il tema è assai presente alla storiografia diplomatistica :l'intervento più recente è di Alessandro Pratesi, Appunti per una storia dell'evoluzione del notariato, in AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Sandri, Roma 1983, pp. 759-772.
17. Cf. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laico-rum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano", 3, 1961, pp. 179-189.
18. Deve esser segnalato l'unico caso di un notaio-prete veneto che si qualifica notaio imperiale: Leo presbiter Sylvius Maiori Clugie et sacri Palacii notarius, si sottoscrive il prete di Chioggia nel settembre 1107, in calce a un documento ducale diretto a Giovanni Gradenigo patriarca di Grado. Che si tratti di un precoce caso di aggiunta del titolo imperiale a quello locale-chiericale? Ma Leo Sylvius i suoi documenti li firma sempre presbiter et notarius. Preferisco sospendere il giudizio.
19. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, II, pp. 99-104, nr. 54; e Cesare Manaresi, I placiti del "Regnum Italiae", II/1, Roma 1,957, pp. 169-175, nr. 181.
20. E questa una linea di metodo assai produttiva data l'uniformità e stabilità della prassi documentaria veneta, della quale si dirà. Più degli elementi testuali e formulari, sono certi formalismi, certi artifici grafici ad avere una funzione connotativa tale da far identificare i rapporti di discendenza, di scuola, di apprendistato che legano le diverse produzioni notarili; non solo nei centri minori, ma nella stessa Venezia. I primi sondaggi sono assai promettenti.
21. Al proposito è sufficiente citare il sistema adottato in Venezia per la trascrizione autentica degli originali, denominato della carta mater e della carta filia e basato sull'intervento di più persone: cf. Beniamino Pagnin, L'exemplum nel documento medievale, "Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti", II: Classe di Scienze morali e letterarie, 101, 1941-42, pp. 201-215.
22. È la tipica linea seguita dagli storici del diritto come Zdekauer e Gaudenzi, e ribadita frequentemente da Pagnin. Certo l'idea di una derivazione veneziana da Ravenna, sicuramente fondata, è almeno incoraggiata dal ritardo della documentazione veneziana rispetto alla splendida precocità e abbondanza della ravennate - che tuttavia sono anch'esse, si perdoni la ripetizione, dati di fatto significativi e non casuali.
23. La cosa è ben visibile dalla redazione statutaria tiepolesca del 1242, per esempio là dove si accoglie il modello "italiano" della triplice redazione dell'instrumentum - a Venezia i tre stadi (non due, come vorrebbe Pagnin) hanno i nomi di prex, imbreviatura e carta. Cf. Beniamino Pagnin, Per uno studio sulla redazione del documento veneziano, "Bullettino dell'Archivio Paleografico Italiano", n. ser., 2-3, 1956-57, 2, pp. 215-216 (pp. 215-222). Si consideri la contraddizione che in tal modo veniva a crearsi tra una procedura così economica (in quanto impostata sulla piena autonomia redazionale del notaio) e la persistente necessità della sottoscrizione testimoniale, fattore di complicazione e rallentamento.
24. Per la parte che segue ci si rifà a Documenti del commercio veneziano, pp. XXII-XXVIII e soprattutto A B. Pagnin, Il documento privato veneziano, specialmente pp. 9-13, 57-69 (tutto il resto è dedicato alle formule del tenor); ma con qualche novità e precisazione, che devo alla tesi di Federica Parcianello e ai suggerimenti di Marco Pozza.
25. Su di essa Beniamino Pagnin, La notitia testium nel documento privato medievale italiano, "Atti del R. Istituto veneto di scienze lettere ed arti", II: Classe di scienze morali e letterarie, 97, 1937-38, pp. 1-17.
26.Com'è brillantemente dimostrato da Giovanna Petronio Nicolaj, Il "signum" dei tabellioni romani: simbologia o realtà giuridica?, in AA.VV., Palaeographica diplomatica et archivistica. Studi in onore di Giulio Battelli, II, Roma 1979, pp. 7-40.
27. Non mancano precedenti tentativi di porsi queste domande e di fornire qualche risposta: Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I, Padova 1906, pp. 73-78; B. Pagnin, Il documento privato veneziano, pp. 64-69. Disponiamo inoltre, per l'interessamento dell'Archivio di Stato di Venezia, delle schede di catalogo, inedite, della Mostra storica sul notariato organizzata nel 1952-53 dallo stesso Archivio, con la direzione di Raimondo Morozzo della Rocca, in occasione del IV congresso internazionale notarile. Alcune valutazioni di massima svolge G. Cracco, "Relinquere laicis".
28. Oltre alle informazioni fornite da M. Roberti, Le magistrature giudiziarie, pp. 74-75 e da B. Pagnin, Il documento privato veneziano, pp. 67 e 69, si legga ora l'edizione de Le promissioni del Doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, luoghi citati alla voce notarius nell'Indice. E dalla metà del Due-cento (promissione di Ranieri Zeno, p. 48) che compare la clausola, poi sempre ripetuta, "Notarios [...] sine maiori parte consilii et collaudatione populi facere non debemus": la qual cosa significa che prima il potere di nomina notarile era esclusivo del Doge.
29. B. Pagnin, Il documento privato veneziano, pp. 66-67; Id., Note sull'"ignorantia litterarum" nei documenti veneziani intorno al Mille (osservazioni di carattere diplomatico e culturale, "Ricerche medievali", 3, 1968, pp. 67-68 (pp. 61-71).
31. Il documento privato veneziano, p. 24. La questione è legata al problema del significato istituzionale da dare alle parole vicarius e plebanus. Si leggerà al proposito il saggio di Daniela Rando in questo volume; intanto si legga, della stessa, Aspetti dell'organizzazione della cura d'anime a Venezia nei secoli XI XII, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI XII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988 (Contributi alla storia della Chiesa di Venezia, 2), pp. 53-72: un cenno alla questione a p. 55
32. Per valutare la quale occorre disporre di un quadro descrittivo della storia del notariato nei territori italiani. Il migliore è ancora quello tracciato da Armando Petrucci nell'introduzione al suo Notarii. Documenti per la storia del notariato italiano, Milano 1958, pp. 3-44 - naturalmente da leggere insieme con contributi più recenti: per esempio gli Appunti di A. Pratesi citati sopra e, prima, un paio di saggi di Giorgio Cencetti: Il notaio medievale italiano, "Atti della Società ligure di storia patria", n. ser., 4, 1964, pp. VII-XXIII; Dal tabellione romano al notaio medievale, in AA.VV., Il notaio veronese attraverso i secoli, Verona 1966, pp. XIX-XXIX. Da questa storiografia diplomatica, è bene esserne avvertiti, il notariato veneziano è pressoché ignorato; il che si deve a motivi appunto storiografici.
32. Espressione mutuata da Silvia Gasparini, I giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell'età del diritto comune, in AA.VV., Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen-von Stryk - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 67-105, che la riferisce alla burocrazia: "E peculiare [...] che a Venezia e nel suo Dominio non si sia mai formata una burocrazia in senso soggettivo" (p. 76 n. 38).
33. Cf. M. Roberti, Le magistrature giudiziarie, pp. 75-76. n si affronta qui il tema della documentazione pubblica e dei redattori dei documenti ducali: esso sarà trattato da Marco Pozza nel secondo volume della Storia di Venezia.
34. Il concetto, ben presente alla modernistica veneziana, è esposto in sintesi da S. Gasparini, I giuristi veneziani.
35. A. Pratesi, Appunti per una storia, p. 766.
36. Così Giorgio Cracco, Chiesa e istituzioni civili nel secolo della quarta crociata, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XII, cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 21-22 (pp. 11-30).
37. È giudizio ricorrente, tanto da sembrare inevitabile: M. Roberti, Le magistrature giudiziarie, p. 74; B. Pagnin, soprattutto in Note sull'"ignorantia litterarum", p. 66. Il giudizio fra l'altro è immediatamente smentito dalla ricchezza e longevità veneziane delle sottoscrizioni autografe "laiche" in calce ai documenti stessi.
38. Un po' come avvenne con la giunzione delle figure del giudice e del notaio nel Regnum durante il secolo X: A. Pratesi, Appunti per una storia, pp. 764-765. La discussione in merito è comunque utile per impostare il tema dell'abbinamento chierico-notaio: vedi allora Giorgio Costamagna, L'alto Medioevo, in Mario Amelotti - Giorgio Costamagna, Alle origini del notariato italiano, Roma 1975, pp. 197-200.
39. Circa i territori romanici la migliore trattazione d'insieme è data da M. Amelotti, L'età romana, ibid., pp. 49-68 (Il documento tabellionico tra l'Oriente e l'Italia), che pure è attento più alle forme documentali che ai notai. Quanto al Regnum, per brevità si veda solo il quadro fornito da Costamagna nello stesso volume, p. 157. Per l'Italia meridionale è di ancor maggiore evidenza la tabella dei notai baresi fino alla metà dell'XI secolo in F. Magistrale, Notariato e documentazione, pp. 13-30. Un'apertura sui territori longobardi dell'Italia meridionale, e in particolare su quelli di appartenenza bizantina ma di lingua latina e di diritto longobardo, sarebbe meno impropria di quanto possa apparire: soprattutto lì più che altrove si trovano situazioni locali di monopolio o quasi-monopolio ecclesiastico della funzione notarile. Situazioni durature ma, comunque, non quanto a Venezia, perché a escludere il clero dal notariato fu, da ultimo, Federico II. Si vedano AA.VV., Per una storia del notariato meridionale, Roma 1982, e Alessandro Pratesi, Il notariato latino nel Mezzogiorno medievale d'Italia, in AA.VV., Scuole diritto e società nel Mezzogiorno medievale d'Italia, Catania [1987], pp. 139-168.
40. Si veda l'ampia documentazione normativa presentata da Enzo Petrucci, An clerici artem notariae possint exercere, in AA.VV., Studi storici in onore di Ottorino Bertolini, Pisa 1972, pp. 553-598.
41. Con possibili effetti positivi, tuttavia, sulle ricerche in tema di alfabetismo dei non professionisti dello scrivere: ricerche consentite ove sia in vi-gore un regime documentale di tipo "alto-medievale", mentre il notariato di publica fides le rende impraticabili. Di simili ricerche l'esempio migliore è il saggio di Armando Petrucci - Carlo Romeo, Scrittura e alfabetismo nella Salerno del IX secolo, "Scrittura e civiltà", 7, 1983, pp. 51-112.