Dodecafonia
«Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» (Gottfried Leibniz)
Stockhausen e la musica del Novecento
di
5 dicembre 2007
Muore a Kurten, in Germania, il compositore Karlheinz Stockhausen. Docente universitario e autore di numerose pubblicazioni sulla teoria della musica, era noto soprattutto per la sua produzione compositiva, con cui ha contribuito in maniera significativa a rivoluzionare la musica del 20° secolo, coprendo una vasta area che va dalla dodecafonia alla musica elettronica.
Karlheinz Stockhausen
L’anno 2007 è segnato dalla morte del compositore tedesco Karlheinz Stockhausen. Autodefinitosi un metafisico, Stockhausen si è addentrato nei campi della serialità, della teoria dell’informazione e dell’elettroacustica, cercando ovunque di superare i limiti fino a giungere a una sorta di vitalismo irrazionalistico teso a recuperare alla musica, anche al livello dell’ascolto, una capacità di coinvolgimento totale, di suggestione ‘magica’. Già allievo di Theodor W. Adorno, trascorse il 1952 a Parigi dove stabilì rapporti con l’avanguardia francese, in particolare Olivier Messiaen, Pierre Boulez e Pierre Schaeffer. Nel 1953 tornò in Germania, dove entrò a far parte dello Studio di Colonia, fondato nel 1951 da Herbert Eimert, conducendo con lui i primi pionieristici studi sull’elettronica. La sua notorietà è legata particolarmente alla celebre composizione Gesang der Jünglinge (Canto dei fanciulli, 1955-56), in cui iniziò l’esplorazione della diffusione elettroacustica dei suoni da più punti spazialmente distribuiti, allargando i parametri compositivi a questa nuova dimensione musicale mediante una distribuzione dei suoni elettronici su cinque gruppi di altoparlanti, disposti nella sala attorno all’ascoltatore. Tra i molti lavori, sia elettronici sia strumentali, in cui lo spazio è trattato come parametro compositivo al pari delle dimensioni più tradizionali di durata, altezza, dinamica e timbro, va ricordato Kontakte (1958-60), dove venne utilizzato un altoparlante rotante a diverse velocità. Va ricordato anche il vasto progetto del ciclo Licht («Luce»), dedicato ai sette giorni della settimana, in cui si ritrovano elementi della simbologia cristiana, e un altro ciclo, Klang («Suono»), sulle ventiquattro ore del giorno, al quale si era dedicato negli ultimi anni di vita e di cui aveva presentato l’Ora Prima o Ascensione nel Duomo di Milano nel 2005. Nel 2001 ricevette il Polar Music Prize, una sorta di Nobel della musica.
Come per vari altri musicisti del secolo scorso – Arnold Schönberg e i dodecafonici, John Cage e gli aleatori, Pierre Boulez, Bruno Maderna, Luigi Nono – il giudizio su Stockhausen è tuttavia controverso, giacché vi sono larghi strati del pubblico che pongono in discussione il suo autentico significato musicale. Ciò perché, sotto vari aspetti, egli sembra cercare l’innovazione più come fine a sé stessa, se non talvolta come motivo di business commerciale, che come stretta esigenza di avanzamento culturale. Come lui, una parte dei compositori del Novecento ha senza dubbio «anteposto il nuovo al vero», come ha affermato Roman Vlad, che pure è stato compositore di musica dodecafonica. Solo una parte, occorre sottolinearlo, in quanto non sono mancati i grandi talenti che, pur uscendo in modo più o meno marcato dalle linee della tradizione, hanno prodotto opere di livello artistico pari a quelle dei massimi compositori del passato. Per togliere dubbi su chi appartiene a questa seconda categoria, ricorderò alcuni nomi: Béla Bartók, Claude Debussy, Manuel De Falla, Leós Janácek, Paul Hindemith, Sergej Prokof’ev, Maurice Ravel, Dmitrij Shostakovich, Igor Stravinskij; elenco al quale si possono aggiungere Benjamin Britten, Carlos Chavez, Aaron Copland, George Gershwin, Arthur Honegger, Aram Il’yich Khachaturian, Zoltan Kodály, Jacques Ibert, Charles Ives, Bohuslav Martinu, Olivier Messiaen, Darius Milhaud, Carl Orff, Manuel Maria Ponce, Francis Poulenc, Ottorino Respighi, Nikolaj Rimskij-Korsakov, Joaquín Rodrigo, Aleksandr Skrjabin, Jean Sibelius, Alexander Tansman, Heitor Villa-Lobos e diversi ancora. Altri nomi, talvolta non meno conosciuti o ancora più celebri, come appunto quello di Stockhausen, non hanno trovato nel pubblico appassionato ma non professionale – anche quello di miglior qualità e competenza – un’accoglienza altrettanto positiva. Come se la loro musica fosse afflitta da un certo ‘adiabatismo’, per usare un termine della termodinamica, ossia stentasse a trasmettere messaggi ed emozioni all’ascoltatore, quasi a voler smentire l’affermazione di Stravinskij che «la musica deve piacere in sé e per sé», senza richiedere all’ascoltatore una speciale base professionale o l’uso di un manuale d’istruzioni. O quella altrettanto perentoria del francese Roland-Manuel (al secolo Roland Alexis Manuel Levy, 1891-1966) che la musica «commuove in quanto muove». I quali obiettivi – reazione emotiva e risposta motoria – con l’abrogazione di armonia, melodia, ritmo e metro che spesso caratterizza le composizioni ‘adiabatiche’, sono ardui da raggiungere. Fatto che spiega l’enorme spaccatura che si è creata tra il pubblico della musica ‘seria’ e una certa parte dei compositori del Novecento, circostanza mai verificatasi nei secoli precedenti.
Helmholtz e la psicoacustica
L’enorme progresso fatto dalle neuroscienze alla fine del 20° secolo con l’avvento delle tecnologie avanzate e dell’informatica permette forse di comprendere la ragione di tale spaccatura in termini della difficoltà per un cervello non particolarmente allenato all’uopo di elaborare il materiale sonoro e appropriarsene. Negli ultimissimi anni sono stati compiuti molti studi del comportamento del cervello sottoposto a stimoli musicali, tanto che si può affermare che la musica è oggi la sonda più proficua per comprendere i meccanismi che operano nei circuiti cerebrali. Ma prima di entrare nei dettagli, è bene ricordare il ruolo che ebbe il grande studioso della percezione visiva e uditiva Hermann von Helmholtz (1821-1894) nell’additare il ruolo della psiche nella percezione del suono musicale, in particolare nella discriminazione tra insiemi di suoni consonanti e dissonanti, mattoni costruttivi della tonalità.
I meccanicisti del tempo di Galileo avevano attribuito il piacere di una consonanza e il non piacere di una dissonanza a un mero fatto di favorevole o sfavorevole risposta timpanica e, a un’analisi più approfondita, alla costituzione più o meno armonica dell’insieme di frequenze ricevute. Si tratta della cosiddetta teoria delle coincidenze di armonici, intendendo con armonici (o armoniche) le frequenze satelliti che accompagnano quella fondamentale della nota (f). In un suono di carattere armonico, come quello emesso da una corda, gli armonici hanno frequenze che sono multipli interi di quella fondamentale, ossia 2f, 3f, 4f, 5f ecc. Nell’Ottocento, Helmholtz si chiese quale fosse la ragione per cui, a livello psichico, una forte sovrapposizione degli armonici appartenenti ai suoni di un accordo garantisce la consonanza, caso per esempio della quinta perfetta do-sol, laddove suoni che hanno armonici non coincidenti, ancor peggio se leggermente sfalsati (com’è per esempio il caso della settima maggiore do-si), inducono la sensazione di dissonanza, da intendersi in qualche modo come un senso di insoddisfazione e di incompletezza, che crea l’aspettativa per un ritorno su accordi armonicamente più amalgamati. L’ipotesi centrale di Helmholtz fu che talune coppie di suoni tendessero a respingersi perché nel nostro apparato uditivo esiste una sorta di banda critica: se due frequenze sono troppo ravvicinate, esse vanno a cadere in tale zona e non si sentono come un accordo formato da due suoni distinti, bensì come un suono intermedio accompagnato da un rumore ruvido e aspro che risulta percettivamente sgradito.
La banda critica
Oggi è facile verificare che questo avviene davvero generando con un computer una frequenza pura fissa in simultanea con una frequenza pura che glissa da sotto a sopra la precedente, come mostrato nella fig. 1: se la differenza nelle due frequenze viene gradualmente ridotta, si percepisce prima un fastidioso rullio, poi distintamente i battimenti. Se uno o più armonici della coppia di note presenta tale condizione, il suono complessivo ha carattere dissonante. Helmholtz si rendeva certo conto che la sua proposta, pur fornendo una ragionevole causa per la dissonanza, non garantiva, in caso di mancata ruvidità del suono, la comparsa della consonanza. Egli aveva chiaro come taluni suoni hanno tra loro maggiore affinità di altri – nel senso di possedere una parentela armonica – e che, ai fini della consonanza, questo aspetto era non meno importante.
Siamo in grado adesso di interpretare la zona critica in termini di insufficiente risoluzione a carico della membrana basilare, il filamento all’interno della coclea che, posto in vibrazione, trasmette segnali elettrici alla rete neurale grazie alle celle ciliate, le terminazioni nervose che poggiano su di esso. Le diverse frequenze del suono eccitano punti diversi lungo la membrana basilare (organizzazione tonotopica) e la corteccia uditiva le discrimina in base alle particolari fibre nervose che vanno ad attivare i corrispondenti neuroni (cioè generano gli ‘spari neurali’, in gergo neuroscientifico). Le celle ciliate, però, sono relativamente poche, qualche migliaio, per cui due frequenze troppo vicine eccitano una medesima fibra nervosa, creando ambiguità percettiva a livello mentale.
Sappiamo dalle neuroscienze che esiste una zona della corteccia dove risiedono neuroni preposti al riconoscimento dell’altezza, quindi raggiunti da fibre nervose differenti. Se da una parte ciò può spiegare il disagio mentale prodotto dall’ambiguità nella trasduzione del suono in impulso nervoso a livello delle celle ciliate per note con tono fondamentale o armonici superiori troppo ravvicinati in frequenza, dall’altra suggerisce che note eccessivamente divaricate in frequenza impegnano reti neurali spazialmente lontane, rendendo l’elaborazione della frase musicale in tempo reale più difficoltosa, soprattutto alle prime audizioni, e talvolta impossibile, anche in casi in cui l’ascoltatore ponga il massimo impegno nello sforzo di introiettare e assimilare il materiale musicale.
Ancora una parola su Helmholtz. È interessante ricordare l’atteggiamento che assunsero i contemporanei di fronte alla sua straordinaria capacità innovativa nell’analisi del rapporto musica/uomo. L’approccio di Helmholtz propone una base di innatismo e una legalità naturale sia all’armonia classica, sia ai temi melodici, indispensabili entrambi per elaborare l’insieme dei suoni e dar loro significato. La sua morale era: «poiché i suoni restano fenomeni naturali, se la costruzione delle scale e degli accordi in parte riguarda l’ambito delle libere invenzioni artistiche, resta vero che essa non può sottrarsi all’immediato potere naturale della sensazione. Così le sensazioni di consonanza e dissonanza, determinate da un preciso meccanismo acustico e fisiologico, in vista di una più elevata e spirituale bellezza della musica, sono solo mezzi: ma mezzi essenziali e potenti». Per Helmholtz, dunque, ineludibile rimaneva la sudditanza dell’estetica musicale all’acustica e alla fisiologia dell’apparato uditivo. Poiché le informazioni oggi disponibili dalle neuroscienze erano di là da venire, egli trovò forti opposizioni nell’ambito dei musicisti, opposizioni che, come si è già detto, sussistono a tutt’oggi nei confronti suoi e di chi ha continuato il suo lavoro. E naturalmente anche dei risultati delle neuroscienze, giudicate eccessivamente riduttive del complesso meccanismo di interazione tra l’uomo e la musica.
A onore di Helmholtz, tuttavia, va detto che egli ben si rendeva conto dell’importanza della componente di assuefazione e di acculturamento nell’apprezzamento della musica. Scriveva: «il sistema delle scale, delle tonalità e del loro ordito armonico non si fonda semplicemente su immutabili leggi della natura, ma, al contrario, è in parte anche conseguenza di principi estetici che nello sviluppo progressivo dell’umanità sono stati soggetti a mutamento e lo saranno ancora». Il che oggi è quasi scontato, considerato il fatto
che la ‘crescita’ delle facoltà mentali – e ciò vale per l’apprezzamento della musica come, ovviamente, per ogni altra umana attitudine – è un processo che si prolunga nel corso dell’intera esistenza. Il cervello, in effetti, è dotato di una straordinaria plasticità, di fatto si modifica nel tempo. Il discorso sulle coincidenze, quindi, va preso alla lettera per un cervello relativamente naïf, o comunque poco assuefatto all’ascolto di musiche complesse, tipo quelle che segnano il massimo sviluppo evolutivo nell’Europa di fine Ottocento.
Spari neurali
Grazie agli straordinari progressi delle scienze della mente, oggi siamo in grado di dare molte risposte alle domande sollevate dai critici di Helmholtz. Si può calcolare a priori che, nel caso di armonici condivisi, l’energia acustica che nell’orecchio attiva i treni di impulsi nervosi diretti alla rete neurale – si veda la fig. 3 – presenta particolari caratteri di riconoscibilità e ripetitività che, riflettendosi sul profilo temporale degli impulsi stessi, mettono il cervello in grado di appropriarsi del discorso musicale e dargli un significato.
Nella musica seriale, dodecafonia e sue varie diramazioni, i treni di impulsi neurali divengono del tutto casualizzati, senza elementi di spicco, né conteggiabilità temporale, tipo quelli prodotti dal rumore; il tempo perde il suo ruolo portante; la fruibilità della sequenza di note diviene limitata a un rango molto ristretto di cervelli specialmente dotati o spinti da motivazioni particolari, non più quelle tradizionali che hanno attratto l’uomo verso la musica. Conseguenza di questo stato di cose, nelle parole del musicista György Ligeti, è che «questo progetto di appiattimento è irreversibile. Si possono distinguere sintomi di tale tendenza già nelle composizioni seriali elementari. In questi casi premessa della scrittura è che gli elementi dovrebbero essere usati con la stessa frequenza e ognuno di essi dovrebbe avere la stessa importanza. Ciò porta irresistibilmente a un aumento dell’entropia. Più sarà accurata la rete delle operazioni con materiale preordinato, più alto sarà il grado di livellamento nel risultato. L’applicazione totale e insistita del principio seriale porta, alla fine, alla negazione del serialismo stesso. Non vi è autentica differenza di base tra i risultati dell’automatismo e i prodotti del caso: la determinazione totale risulta eguale alla totale indeterminatezza» (G. Ligeti, Metamorfosi della forma musicale, in Ligeti, a cura di E. Rostagno, Torino, EDT, 1985, p. 229). È particolarmente interessante che, per definire una caratteristica precipua della musica seriale, sia un musicista a fare riferimento al concetto termodinamico di entropia, che Ligeti le attribuisce in grado «irresistibilmente crescente», di fatto definendola – in ossequio al significato termodinamico di entropia – disordinata e casuale, quindi priva di costrutti e di intenzioni.
Neuroscienze e base biologica dell’armonia
Le neuroscienze studiano i correlati neurali della musica con tecniche di neuroimmagine, quali tomografia a emissione di positroni (PET), ecografia, elettroencefalografia (EEG), magnetoencefalografia (MEG) in risoluzione spaziale, risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette una localizzazione spaziale dell’ordine del millimetro cubo, o anche con l’analisi circuitale del cervello in animali. I risultati sembrano indicare che la teoria classica dell’armonia affonda le sue radici nella biologia del nostro sistema fisico e neurale. È divenuto più difficile negare che l’armonia tonale classica abbia una qualche legittimazione naturale, si adatti cioè alle esigenze percettive dell’essere umano allo stadio più elementare e spontaneo. Un’idea che è stata avversata dalle avanguardie durante tutto il Novecento. Qualcosa di simile si può dire per i ruoli della melodia, del ritmo e del metro, che concorrono alla codifica dei segnali neurali e che quando sono sacrificati tendono ad accentuare i connotati di rumore nella sequenza di impulsi diretti al cervello. La facilità di elaborazione degli accordi consonanti, soprattutto in presenza di un solido profilo ritmico, è ciò che li ha resi predominanti nella maggioranza dei sistemi musicali della Terra.
Quello che oggi si sa è che la possibilità per il cervello di conteggiare temporalmente gli impulsi neurali stimolati nell’orecchio interno sta alla base della sensazione di consonanza e della percezione di una stoffa timbrica omogenea e compatta. Si potrebbe dire che i segnali classicamente consonanti, così come temi compositi in cui essi abbiano una funzione risolvente, sono preferiti perché, avendo una fisionomia strutturata, anzitutto destano l’attenzione del cervello, e poi risultano più facili da elaborare. Il sistema orecchio-cervello opera a tutti gli effetti come un convertitore analogico-digitale, dove ogni informazione è il risultato di un ‘conteggio’. Se, quanto a dipendenza da ritmo e metrica, questa proprietà era stata già intuita da Leibniz («la musica è un esercizio aritmetico della mente che conta senza sapere di contare»), oggi sappiamo che lo stesso vale per altri neuroni specializzati, per esempio quelli che rilevano l’intensità del suono o quelli preposti alla discriminazione dell’altezza. È dalla confluenza di queste operazioni che l’evento sonoro assume il suo senso. E a seconda di come esso influenza la chimica del cervello, agendo sul livello di dopamina – il neurotrasmettitore che dà la sensazione di benessere – il passo musicale viene diversamente accolto. Tale reazione emotiva esula dal compito dei neuroscienziati, il cui studio si limita all’hardware cerebrale. La sua conoscenza, d’altra parte, è indispensabile, in quanto accresce, per esempio nel compositore, la consapevolezza delle esigenze del suono musicale.
Nel caso dell’altezza, il conteggio è tanto più agevole quanto più il suono presenta una strutturazione armonica, sia quando si tratta di suono costituito da una nota isolata, sia quando risulta da un insieme di note. La strutturazione armonica è tipica dei suoni naturali, in primissimo luogo la voce umana, e quindi suscita configurazioni di eccitazione familiari al cervello. È particolarmente significativo come i neonati familiarizzino in modo automatico e veloce con gli stimoli sonori ambientali a cui sono più esposti, a cominciare dal canto materno (Schön-Akiva-Kabiri-Vecchi 2007, pp. 20 e 24). Va ribadito che la differenza qualitativa nell’andamento temporale degli impulsi neurali che si ha tra accordi tradizionalmente consonanti oppure dissonanti è talmente marcata che l’avvicendarsi di consonanze, quasi-consonanze, quasi-dissonanze e dissonanze non può non assumere un poderoso potenziale espressivo. Nella musica di genere seriale, di tale potenziale si fa inevitabilmente un uso limitato. Dunque, per non rigettare la ‘nuova musica’, non basta ‘farci l’abitudine’ – impegno che pure rimane indispensabile – ma occorre anche chiedere al cervello di avvalersi di chiavi di lettura meno immediate, in quanto i messaggi che riceve sono assai poco ‘parlanti’. Per le menti non particolarmente ‘imparate’, nell’elaborazione dei complessi segnali che corrono nei circuiti neurali, effetti semplificatori si rendono indispensabili.
Le conclusioni cui giungono oggi i neurologi impegnati nelle scienze cognitive della musica sono in parte basate sui dati sperimentali relativi ai segnali ‘sparati’ dalle fibre nervose uditive alla volta del cervello (che, come mostra la fig. 1, sono in eccellente correlazione con il modello teorico basato su considerazioni energetiche, già anticipato in fig. 3 p. 271). Appare relativamente fuori questione che il profilo temporale degli impulsi neurali generati da note o insiemi di note che rispettino i criteri di armonia scoperti e tramandatici dall’antichità – Greci e Cinesi migliaia di anni prima – presentano caratteristiche di regolarità in forma di picchi di marcata evidenza e ripetitività. Esse semplificano in modo ovvio i meccanismi di elaborazione a livello cerebrale, secondo i neurologi favorendo l’attenzione, l’immediatezza del responso e, non ultima, la capacità di memorizzare. Quello che possiamo dire sicuramente è che la musica è soggetta a un certo numero di leggi universali della percezione che ne condizionano fortemente la struttura (Schön-Akiva-Kabiri-Vecchi 2007, p. 70). In sostanza si può avanzare la tesi che la teoria classica dell’armonia riflette proprietà fisiologiche e anatomiche del sistema nervoso uditivo e dei sistemi cognitivi associati, valendo in modo identico per tutte le popolazioni del mondo, anche nella primissima infanzia, e persino per le specie animali.
Il non utilizzo da parte dei compositori del linguaggio biologicamente favorito comporta la generazione di profili temporali nella successione di impulsi convogliati al cervello – riguardino essi l’altezza, l’intensità, il ritmo, la durata, la timbrica – che si avvicinano a quelli prodotti dal rumore casuale. Ciò implica un inevitabile mascheramento dei significati e delle intenzioni contenuti nel messaggio sonoro, e l’insorgere di meccanismi elaborativi dell’informazione via via più complessi e remoti dal naturale modo di operare del nostro sistema nervoso. La musica è una capacità cognitiva complessa: un’ampia rete di aree cerebrali è coinvolta nella sua elaborazione, in quanto operazioni mentali diverse sono implicate negli aspetti acustici, ritmici, melodici e armonici (operazioni che oltretutto si intrecciano variamente). Non a caso oggi si tende a preferire, come strumento di indagine dei correlati neurali, la musica agli stimoli visivi o al parlato, in quanto essa richiede la messa in atto di quasi tutte le funzioni cognitive: attenzione, memoria, motricità, percezione ecc. (Schön-Akiva-Kabiri-Vecchi 2007, p. 106). Come si è detto sopra, è dalla congiunzione di queste svariate funzioni che l’evento sonoro prende significato. Se tale rete non è messa in condizione di svolgere agevolmente i propri compiti, il carico di lavoro del cervello diventa eccessivo, la memoria non viene attivata, e il risultato è che il senso degli stimoli sonori ricevuti viene smarrito.
La musica significa sé stessa, scriveva Leonard Meyer: ogni elemento musicale ha senso in quanto genera aspettative rispetto ad alti eventi (in Schön-Akiva-Kabiri-Vecchi 2007, p. 72). Questo non sarebbe più vero. Il che lascia temere un crepuscolo della musica come genere autonomo di consumo della fascia colta della popolazione, cui è presumibile aspiri a rivolgersi.
L’aspetto motorio
Daniel Levitin, professore di psicologia e musica alla McGill University di Montreal, ha riportato i risultati di una ricerca effettuata su cervelli sottoposti ad ascolti musicali (Levitin 2007). La tecnica usata era la risonanza magnetica funzionale (fMRI), capace di individuare le zone attivate del cervello su scala del millimetro cubo (l’attivazione si riconosce per un incremento del flusso sanguigno). Sono state esaminate 13 persone durante l’ascolto di brani musicali e, come controprova, di loro versioni strutturalmente scompaginate. Si è trovato che, anche in condizioni di immobilità, l’ascolto di musica eccita zone che coordinano le attività motorie. Se il corpo non può danzare, lo fa il cervello, confermando l’indissolubilità del legame tra musica e movimento. Significative le parole di Roland-Manuel, già citate, e quelle di Friedrich von Hausegger: «Le espressioni sonore non sono altro che movimenti muscolari fattisi udibili, gesti che si sentono». L’attribuire scarso peso al metro e al ritmo, come si è fatto in varie forme musicali dell’ultimo secolo, quali la serialità e la dodecafonia e le loro esasperazioni, ha un effetto negativo giacché tali elementi, appellandosi all’aspetto motorio del discorso musicale, sono essenziali nel conferirgli forma e vitalità. Per Stravinskij «il ritmo e il movimento, e non l’espressione delle emozioni, costituiscono i fondamenti dell’arte musicale».
Un altro risultato delle immagini cerebrali, dovuto a A.J. Blood e R.J. Zatorre (2001, p. 11.818 e sgg.), è che musiche che provocano un’intensa commozione interessano pure le aree dell’orgasmo sessuale e di altre soddisfazioni corporali, come la degustazione del buon cibo – ossia ataviche funzioni biologiche inerenti alla sopravvivenza – o aree coinvolte negli stati di allucinazione da droga. Nell’esperimento, lo stato di emozione, descritto dai soggetti esaminati come ‘brivido nella schiena’, viene oggettivamente accertato monitorando altre funzioni del corpo, come il battito cardiaco, l’elettromiogramma, la respirazione. La speciale attivazione di dette parti del cervello avviene all’ascolto di brani musicali classici prescelti dagli ascoltatori (tutti con almeno otto anni di frequentazione della musica ‘seria’), brani in genere caratterizzati da un elevato contenuto melodico e armonico, ossia facilmente memorizzabili e ‘cantabili’. Gli stessi autori osservano anche che accordi consonanti e dissonanti attivano aree diverse, ulteriormente confermando il carattere prettamente fisiologico della dicotomia consonanza/dissonanza.
riferimenti bibliografici
A.J. Blood - R.J. Zatorre, Intensely pleasurable responses to music correlate with activity in brain regions implicated in reward and emotion, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 98, 20, 2001; D. Levitin, Dancing in the seats, «New York Times» 26 ottobre 2007; D. Schön - L. Akiva-Kabiri - T. Vecchi, Psicologia della musica, Roma, Carocci, 2007; M.J. Tramo et al., Neurobiological foundations for the theory of harmony in western music, «Annals of New York Academy of Sciences», 2001; Id., Neurobiology of harmony perception, in The cognitive neuroscience of music, I. Peretz e R.J. Zatorre ed., Oxford, Oxford University Press, 2003.
Modalità e tonalità
Nella crisi dei valori e nella progressiva saturazione dei linguaggi artistici nei primi decenni del 20° secolo, cambiamenti significativi si produssero anche in ambito musicale: la dissoluzione della tonalità, il sistema che per tre secoli aveva retto la musica occidentale, e l’affermarsi del ‘metodo dodecafonico’, tecnica compositiva che considera i 12 suoni della scala cromatica temperata nella loro totalità e reciprocità funzionale. La svolta fu determinante e paragonabile a quel processo riduttivo della ‘linea’ e del ‘punto’ nello spazio che portò Vasilij Kandinskij e Piet Mondrian all’arte astratta. Dal punto di vista formale la dodecafonia è una conseguenza diretta dell’esperienza espressionista in musica che si riconduce essenzialmente ad Arnold Schönberg e alla sua scuola. Tuttavia per comprendere le ragioni storiche che portarono Schönberg alla coerente formulazione del ‘metodo dodecafonico’, è opportuno chiarire i concetti di modalità e tonalità che hanno retto la musica occidentale dai Greci ai giorni nostri.
Dai Greci alla dissoluzione della tonalità
Alle origini, per i Greci il concetto di ‘armonia’ era una nozione puramente matematica e filosofica. Per i pitagorici il mondo dei suoni era determinabile unicamente in base al rapporto matematico degli intervalli ed essi legittimavano in tal modo sia gli intervalli consonanti, sia quelli dissonanti. Aristosseno di Taranto (Elementa harmonica) per primo si oppose a questa concezione, affermando che si doveva operare una ‘scelta’ percettiva nel rapporto fra suoni, distinguendo cioè gli intervalli consonanti da quelli dissonanti in base al ‘giudizio’ dell’orecchio. Tuttavia sappiamo che il giudizio dell’orecchio è condizionato dall’esperienza percettiva e culturale di una determinata epoca e che esso muta con l’insorgere di nuove esperienze e di nuove condizioni culturali. Infatti per i Greci (e sino ai primi teorici medievali) erano consonanti soltanto gli intervalli di quarta e di quinta e le loro trasposizioni di ottava, cioè l’undicesima e la dodicesima, mentre erano dissonanti la seconda, la terza, la sesta e la settima; e la terza, che diventerà l’intervallo consonante per eccellenza, continuò a essere considerata dissonante sino al Quattrocento inoltrato: per questo le conclusioni di una frase musicale avvenivano sempre all’unisono o all’ottava o alla quinta. Parallelamente, i concetti di ‘modalità’ e ‘tonalità’ continuarono a essere soggetti a confusione e ad ambiguità nella riflessione teorica del Medioevo e anche, in gran parte, del Rinascimento. Mentre nella musica tonale i modi verranno ridotti a due (‘maggiore’ e ‘minore’) perché essa non considererà come finale che due soli gradi (il la e il do) della scala diatonica, nella musica modale la finale di una scala di sette suoni, e quindi la conclusione di una melodia, può cadere su ciascuno dei sette gradi della scala diatonica; ed era questo punto d’arrivo finale che distingueva un modo dall’altro, costituendo così sette scale modali che, per i Greci, si dividevano in tre generi, il diatonico, il cromatico e l’enarmonico. I modi greci passarono nella liturgia della Chiesa cattolica e, in base alla risoluzione sul suono finale d’ottava, furono elevati a otto (quattro autentici e quattro plagali). Il radicale trapasso dalla modalità alla tonalità avvenne con l’affermarsi della monodia del madrigale in forma rappresentativa, con il ‘recitar cantando’ della Camerata Fiorentina agli inizi del Seicento e con lo stile realistico del melodramma monteverdiano, mentre i primi fondamenti teorici dell’armonia in senso tonale si ebbero sin dalla metà del Cinquecento con le Istitutioni harmoniche (1558) seguite dalle Dimostrationi harmoniche (1571) di Gioseffo Zarlino, il quale formulò il principio della ‘divisione armonica’ e della ‘divisione aritmetica’ degli intervalli, gettando le basi di quella teoria armonica duale della tonalità che troverà in Jean-Philippe Rameau la sua sistemazione pratico-teorica. Con l’affermarsi del ‘recitar cantando’ e dello stile melodico era logico che si dovesse cercare un fondamento ‘accordale’, a sostegno del canto, cioè un ‘accompagnamento’ che desse rilievo alla melodia senza sovrapporsi a essa: venne così imponendosi la prassi del ‘basso cifrato’ (i cui numeri stavano a indicare gli intervalli costituenti un accordo), derivato dalla pratica organistica del ‘basso continuo’. In effetti già nel 16° sec., in piena polifonia contrappuntistica, l’intuizione di un centro tonale si manifestava sempre più nell’alterazione dei toni ecclesiastici alla cadenza. Bisognava però attendere che la polifonia contrappuntistica raggiungesse la sua saturazione per poter trarre da questa esperienza una nuova sintesi, la quale permettesse di considerare l’accordo non più come il risultato fortuito del movimento delle parti, ma come un fondamento articolato del linguaggio musicale. A disgregare il sistema modale contribuì poi, in modo decisivo, il cromatismo che nella seconda metà del Cinquecento dilagò nella prassi compositiva ed ebbe i suoi più ferventi cultori in Cipriano de Rore, in Luca Marenzio e in Gesualdo da Venosa.
La codificazione teorica del sistema tonale bi-modale fu merito essenziale di Rameau che seppe, per primo, semplificare e ordinare con estrema chiarezza le elaborazioni teoriche dei suoi predecessori, riducendole a due fondamentali principi: la teoria dei rivolti e quella degli armonici generatori dell’accordo perfetto. Entrambe non erano una novità assoluta: anche il principio del rivolto era stato intuito da Zarlino, ma Rameau univa alla viva esperienza del compositore una solida preparazione scientifica e metodologica. Rameau per primo riuscì a conferire un fondamento armonico razionale all’uso del basso numerato. Nel Traité de l’harmonie (1722), la sua prima opera teorica, dopo aver affermato che «la musique est une science qui doit avoir des règles certaines», Rameau perveniva alla constatazione che gli accordi formati da terze sovrapposte stanno alla base di tutti gli altri accordi composti dalle stesse note e hanno in comune un unico suono fondamentale. Ma Rameau voleva anche trovarne il fondamento ‘naturale’, poiché era convinto che la melodia derivi dall’armonia e non viceversa; fu il fisico Joseph Sauveur a suggerirglielo sulla base di un fenomeno acustico che era già stato notato da Cartesio e da Marin Mersenne: il fenomeno della risonanza di una nota che rivela, in tal modo, di essere composta da una serie di ‘armonici’. Zarlino aveva ottenuto i primi sei armonici dividendo matematicamente una corda; ma Sauveur, in base a dati sperimentali relativi ai rispettivi rapporti di frequenza, descrisse in modo esatto il fenomeno della risonanza, constatando che esso è formato da una serie di armonici la cui udibilità va diminuendo con il crescere dell’altezza dei suoni irradiati dalla nota fondamentale. Rameau applicò questo fenomeno all’accordo perfetto ‘maggiore’ (composto da una terza maggiore e una quinta giusta); in tal modo i fondamenti matematici della consonanza sembrarono aver trovato un fondamento naturale. Rimaneva tuttavia da dimostrare che lo stesso fenomeno degli armonici è pure applicabile alla consonanza perfetta ‘minore’ (caratterizzata dalla terza minore), se si vuole legittimare il sistema armonico tonale come un ‘dono della natura’. Rameau cercò di spiegare questo fenomeno con la teoria degli armonici inferiori. Anche Giuseppe Tartini (Trattato di musica secondo la vera scienza dell’armonia, Padova 1754) derivò l’accordo perfetto ‘minore’ dai cosiddetti armonici inferiori, seguendo il procedimento dei ‘suoni di combinazione’ ottenuti facendo risuonare simultaneamente due note, suono che in realtà deriva da un numero di vibrazioni uguale alla differenza del numero delle vibrazioni dei due primi suoni. Sulla base dei loro studi il fenomeno della risonanza fu meglio analizzato nell’Ottocento da Hermann von Helmholtz, che per primo riuscì a mettere in risalto le singole frequenze separandole dalle altre, realizzando tutta la gamma dei suoni nella totalità delle frequenze. Nel Settecento le basi poste da Rameau produssero anche risultati pratici compositivi. Basti pensare a come, individuato e codificato il sistema tonale bi-modale, Bach ne abbia approfondito tutte le possibilità sui dodici gradi della scala cromatica nei 48 ‘preludi e fughe’ del Clavicembalo ben temperato (1722 e 1744), basati su tutte le tonalità ‘maggiori’ e ‘minori’ del sistema tonale cromatico temperato.
Nella seconda metà del Settecento e per tutto l’Ottocento teorici e didatti non fecero che integrare, sviluppare, approfondire le possibilità dell’armonia tonale sulla base dei principi fondamentali di Rameau.
Dai principi teorici dell’armonia tonale Rameau aveva voluto derivare anche un’estetica musicale che arrivava a fissare il significato particolare delle armonie consonanti e dissonanti secondo la ‘natura’ dei sentimenti umani: così le consonanze (e anche le dissonanze ‘preparate’ nell’accordo precedente) esprimono gioia e magnificenza, le dissonanze ‘minori’ preparate la dolcezza e la tenerezza, le dissonanze non preparate il furore e la disperazione ecc. (Rameau, Traité de l’harmonie, p. 143). Era questa la base della teoria illuministica dell’Affektenlehre che influì anche su Immanuel Kant e su Ludwig van Beethoven e che si basava sull’associazione di determinati affetti a specifici effetti armonici, melodici, ritmici.
Tuttavia con Beethoven stesso e con il romanticismo si produsse una nuova dimensione culturale e spirituale: l’‘espressione dei sentimenti’ non appariva più riferibile ai dati oggettivi della costruzione musicale e si sviluppò il concetto di ‘musica assoluta’ (puramente strumentale) intesa poi dai romantici come la sola vera forma di ‘espressione musicale’ autonoma e autosufficiente, in opposizione all’opera teatrale sostanzialmente ibrida e impura, soggetta alla moda e alle convenzioni. La comparsa del pianoforte fu poi decisiva per l’evoluzione dell’armonia: esso appare come il veicolo più diretto nel sondare la dimensione verticale del mondo sonoro, come mezzo di scrittura ‘diretta’ dell’interiorità soggettiva. Anche l’allargamento e l’arricchimento dei mezzi orchestrali (con Hector Berlioz, con Ferenc Liszt e infine con Richard Wagner) diedero un forte impulso alla saturazione dell’armonia tonale. Il crescente uso della modulazione (non più semplice veicolo per il passaggio da una tonalità a un’altra) ingenerò poi la presenza di accordi sempre più ‘estranei’ alla tonalità: l’elemento cromatico s’insinuava nella costruzione armonica e ne scuoteva il fondamento tonale unificatore. Come già l’elemento cromatico aveva costituito il germe disgregatore del sistema modale, che aveva raggiunto il suo limite di saturazione nel contrappunto dei Fiamminghi, così si verificò per la seconda volta con il sistema tonale. Il concetto di tonalità va progressivamente cadendo con «il passaggio da dodici tonalità maggiori e dodici tonalità minori a dodici tonalità cromatiche: questo passaggio si compie con la musica di Wagner» (Schönberg 1922, trad. it., p. 486).
La saturazione cromatica del linguaggio musicale, conseguenza dell’armonia wagneriana, portò nei postromantici (Anton Bruckner, Max Reger, Aleksandr Skrjabin, Richard Strauss e, parzialmente, anche Gustav Mahler) alla progressiva cromatizzazione delle strutture tonali; mentre, negli stessi anni in cui Schönberg scriveva musica ‘atonale’, per reagire alla saturazione cromatica Claude Debussy e Maurice Ravel cercavano una via d’uscita con l’esatonalismo (la scala orientale, priva di semitoni).
L’individuazione dodecafonica di Schönberg
Tra i vari orientamenti assunti dai musicisti agli inizi del 20° secolo, quello di Schönberg fu il più radicale nel cercare una via d’uscita dalla saturazione del linguaggio tonale maturata durante il romanticismo. Questo processo può essere delineato in sintesi in alcuni punti fermi del coerente cammino creativo percorso dal grande maestro viennese: da Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4, per sestetto d’archi, che risale al 1899 e nella quale il cromatismo è spinto allo sfaldamento, alla Kammersymphonie op. 9 (1906) che, attraverso l’‘allargamento della tonalità’, la dissolve e preannuncia nel contempo la politonalità, quindi alla ‘sospensione tonale’ (coi Drei Klavierstücke op. 11, 1908-09) e infine alla ‘atonalità’ (termine che peraltro Schönberg rifiuta, preferendo parlare semmai di ‘pantonalità’) con gli aforistici Sechs kleine Klavierstücke op. 19 (1911); qui l’esperienza espressionista del compositore raggiunge la sua fase più acuta nella ‘riduzione’ dell’idea sonora all’essenza, dopo la quale non vi può essere che la sospensione del suono nel silenzio, oppure la riorganizzazione dei mezzi sonori in una nuova sintassi musicale. «È per questa ragione che le uniche opere alquanto ampie di quest’epoca sono solo composizioni con testo, dove appunto la parola costituisce l’elemento connettivo» (Schönberg 1922, trad. it., p. 404). L’opera più importante realizzata da Schönberg nel linguaggio della libera ‘atonalità’ è infatti Pierrot lunaire op. 21 (1912) su testi del simbolista belga Albert Giraud, tradotti in tedesco da Otto Erich Hartleben. Alla dodecafonia Schönberg giunse attraverso una serrata riflessione teorica che procedeva di pari passo e scaturiva anzi dalla prassi creativa. La Harmonielehre, scritta fra il 1909 e il 1911, frutto dell’attività didattica iniziata a Berlino nel 1902 e proseguita poi a Vienna negli anni seguenti, sottoponeva a una nuova metodologia lo studio dell’armonia e del contrappunto. Schönberg respinse gli schemi precostituiti e le regole date per dimostrate dalla tradizione didattica imperante nei conservatori, per proporre una fenomenologia della tecnica musicale studiata nella sua evoluzione storica: dalla ‘modalità’, attraverso secoli di lenta elaborazione, al ‘sistema tonale’ che aveva determinato e dominato l’evoluzione della musica dal Rinascimento al romanticismo. I principi dell’armonia tonale, che da Rameau e Tartini erano andati consolidandosi, che avevano avuto da Moritz Hauptmann e Hugo Riemann un’ulteriore accademica codificazione e che ancora vigevano nell’insegnamento dei conservatori, venivano attaccati alla base da Schönberg, che affermava che «la tonalità non è una legge naturale ed eterna della musica» (Schönberg 1922, trad. it., p. 9), ma semplicemente il risultato di una direzione maturata dalla musica occidentale e dimostratasi attiva e feconda sino al suo attuale sfaldamento.
Per comprendere la posizione teorica e didattica di Schönberg si deve connetterla strettamente alla sua esperienza di compositore che a quest’epoca (1911) ha già oltrepassato quei ‘confini della tonalità’ di cui si parla negli ultimi capitoli della Harmonielehre. Dopo Pierrot lunaire e i Vier Stücke op. 22 per canto e orchestra, l’attività creativa di Schönberg si arresta per diversi anni. Nel 1917 riprende però, con crescente fervore, l’insegnamento nel Seminar für Komposition, dove sempre più numerosi si raggruppano gli allievi: la Harmonielehre continua a essere la base dell’insegnamento preliminare, mentre in questo periodo Schönberg sta già elaborando i principi del ‘metodo dodecafonico’, sperimentati parzialmente nei Fünf Stücke op. 23 per pianoforte e nella Serenade op. 24 (1920-23) e, per la prima volta, integralmente realizzati nella Suite op. 25 per pianoforte (1921-23).
Tuttavia nella Harmonielehre (ampliata e ristampata nel 1922) non si parla mai di ‘metodo dodecafonico’, anche se gli ultimi capitoli, sostanzialmente già formulati nel 1911, trattano di ‘accordi vaganti’, di ‘suoni estranei all’armonia’ e di ‘valutazione estetica degli accordi di sei e più suoni’, preludendo in tal modo alla formulazione di un’‘armonia’ fondata sul totale cromatico.
Si deve anche tener presente che intorno al 1920 anche altri teorizzavano metodi simili: così Joseph Mathias Hauer formulò, sin dall’epoca nella quale Schönberg scriveva la sua Harmonielehre, una teoria atonale e dodecafonica, dove le diverse combinazioni dei 12 suoni sono suddivise in gruppi che egli chiama ‘tropi’, arrivando a calcolare che, nell’ottava cromatica, sono possibili 479.001.600 combinazioni armonico-melodiche, ordinate in 44 gruppi, considerando ogni serie di 12 suoni suddivisa in due serie di 6 suoni ciascuna. Nel 1924 il musicologo e compositore Herbert Eimert dava alle stampe una Atonale Musiklehre, nella quale esaminava con rigore i rapporti reciproci dei dodici semitoni liberati dalla funzione tonale, prospettando quindi la possibilità di organizzarli in strutture seriali dodecafoniche.
Nonostante fosse giunto a quest’epoca alla piena formulazione del ‘metodo dodecafonico’, Schönberg non scrisse né volle mai in seguito scrivere un trattato o un manuale di tecnica dodecafonica, lasciando ad altri questo compito. Solo vent’anni più tardi, sollecitato da più parti, si limitò a illustrare il suo ‘metodo’ in una conferenza tenuta il 26 marzo 1941 all’Università di California a Los Angeles (Schönberg 1950), in cui rintracciava le ragioni storiche che lo avevano portato alla atonalità e quindi alla dodecafonia con ampi esempi e analisi dalle sue opere.
Viene per es. illustrato come la scelta di una ‘serie’ non sia più la scelta di un tema o Leit-motiv, sul quale la composizione è destinata a svilupparsi, bensì l’idea fondamentale (Grundgestalt), il fulcro generatore che informa già in sé e per sé la costruzione sonora che verrà elaborata dal compositore sia in senso verticale, sia in senso orizzontale. Le stesse nozioni di melodia e armonia vengono per essere assorbite dall’idea di polifonia assoluta. Nella prassi operativa il compositore predispone inizialmente una tabella con le quattro forme della serie, intendendo per serie una successione rigorosamente predeterminata e invariabile dei dodici suoni della scala cromatica, presenti ciascuno una sola volta: 1) esposizione della serie nella sua forma originale; 2) regressione della serie dall’ultima alla prima nota; 3) inversione della serie, ossia rivolto degli intervalli in modo che gli intervalli discendenti divengano ascendenti e viceversa; 4) regressione della serie rovesciata.
Queste quattro forme speculari offrono al compositore la più ampia libertà nelle combinazioni orizzontali e verticali della serie, sui dodici gradi della scala cromatica: conseguentemente si ha una tabella di 48 trasposizioni. Inoltre, la serie è divisibile in sezioni simmetriche (2 di 6 note; 3 di 4 note; 4 di 3 note ecc.) che costituiscono altrettante possibilità accordali e melodiche, e con l’idea della proporzione simmetrica si riaffaccia anche il concetto pitagorico della relazione tra numero e suono. Nella Suite op. 25 (1921-23) di Schönberg, per la prima volta una serie dodecafonica sta alla base di tutti i pezzi che compongono l’opera (1. Praeludium, 2. Gavotte, 3. Musette, 4. Intermezzo, 5. Menuett, 6. Gigue). Essa è utilizzata nelle quattro forme della serie originale e nella trasposizione alla ‘quarta’ inferiore aumentata (o ‘quinta’ diminuita). La summa della tecnica dodecafonico-seriale è raggiunta in campo strumentale da Schönberg con le Variationen op. 31 per orchestra (1926-28), nelle quali il principio della ‘variazione’ ritmomelodica impegna tutte le dodici trasposizioni possibili sui gradi della scala cromatica della serie nelle quattro forme (originale, retrograda, inversa, retrograda dell’inversa). Il totale di 48 serie viene impiegato in infinite combinazioni orizzontali (melodiche) e verticali (accordi).
Parallelamente a Schönberg, i suoi due grandi allievi Alban Berg e Anton Webern percorrono l’esperienza dodecafonica in due direzioni divergenti: una ‘regressiva’, mirante a ‘recuperi’ dell’esperienza romantica e postromantica; l’altra ‘progressiva’, tendente cioè a spingere alle estreme conseguenze l’individuazione dodecafonica schönberghiana verso un serialismo integrale.
Per quanto riguarda Berg, la particolare impronta data allo spazio dodecafonico, mediante recuperi ‘tonali’, rivela, in misura ancor più evidente che in Schönberg, la coerenza e la continuità dell’ideologia espressionista, che trova anzi nella nuova tecnica seriale una definizione accentuata e afferma nello stesso tempo le affinità estetiche di Berg, attraverso Mahler, con lo Jugendstil e la Secessione viennese.
Se per Schönberg e per Berg la serie costituisce pur sempre la Grundgestalt di un’idea musicale che deve essere ancora sviluppata in una forma ‘compiuta’, in Webern la serie presuppone già la forma ‘compiuta’ di un pensiero musicale: essa è l’essenza, il fondamento originario che conferisce unità e identità al discorso musicale, prima ancora di esser espresso. Il principio della variazione viene elevato a principio fondante l’idea musicale e investe la stessa serie. Webern prepara diligentemente le tabelle seriali, prima d’iniziare il lavoro di composizione. Inizialmente questa applicazione rigorosa della serie porta l’autore verso il ‘puntillismo’ melodico-timbrico, tendenza particolarmente evidente nei Fünf Stücke op. 10 per orchestra (1913). La tecnica dodecafonica weberniana tocca forse il limite estremo con la serie delle Variationen op. 30 per orchestra (1940) che rappresentano il capolavoro della maturità del grande compositore viennese. La serialità diventa integrale coinvolgendo non soltanto le altezze ma anche altri parametri del suono, quali la durata e il timbro. Webern fu preso come punto di riferimento da molti compositori delle generazioni successive, facenti capo a Pierre Boulez e Olivier Messiaen, interessati agli sviluppi della serialità.
Eredità e diffusione della dodecafonia
Nel periodo fra le due guerre mondiali la dodecafonia fu quasi totalmente ignorata, se non avversata, dalla maggior parte dei compositori europei, tedeschi compresi, che perseguivano altre strade o nella scia post-romantica o alla ricerca di nuove dimensioni sonore in base ai principi della tonalità estesa, ai recuperi modali e diatonici, all’esatonalismo, al bitonalismo, al politonalismo ecc. Tra essi Igor Stravinskij, che verrà a costituire l’antitesi di Schönberg, e Paul Hindemith, che rimarrà violentemente avverso alla dodecafonia, anche quando Stravinskij ne riconoscerà l’importanza e ne tenterà, attraverso la ‘scoperta’ di Webern, una mediazione adottando, a suo modo, la tecnica seriale e dodecafonica in alcune delle ultime opere scritte dopo il 1955 (Settimino, In memoriam Dylan Thomas, Threni, Agon).
Sostanzialmente la dodecafonia fu praticata, nell’isolamento e nell’incomprensione, da Schönberg e dai suoi allievi, in una cerchia ristretta di amici. Con l’avvento del nazismo, che s’affrettò non solo a condannare l’ebreo Schönberg, ma a bollare la dodecafonia come la più pericolosa tecnica delle ‘arti degenerate’, i musicisti della Scuola di Vienna si dispersero. Schönberg emigrò sin dal 1933, prima in Francia e poi negli Stati Uniti, come Ernst K½enek che nel 1927 s’era accostato al maestro viennese e ne aveva adottato la tecnica dodecafonica. Altri allievi, quali Egon Wellesz, Roberto Gerhard ed Erwin Stein, che era stato il primo a descrivere il metodo dodecafonico (Neue Formprinzipien, 1924) emigrarono in Inghilterra, mentre Berg e Webern rimasero a Vienna, affrontando difficoltà e vivendo in segregazione, via via abbandonati dagli allievi che temevano rappresaglie da parte nazista. Tuttavia solo nel secondo dopoguerra la presenza della Scuola di Vienna fu improvvisamente avvertita dal mondo culturale e artistico occidentale, determinando nelle nuove generazioni di musicisti un deciso orientamento verso la tecnica dodecafonica, come punto di partenza verso ulteriori, radicali proposte (il serialismo integrale) nel rinnovamento del linguaggio musicale.
Nel mondo della cultura letteraria e filosofica grande incidenza ebbe la Philosophie der neuen Musik di Theodor W. Adorno (1949), dalla quale Thomas Mann trasse lo spunto per il suo celebre romanzo Doktor Faustus. Entrambi emigrati negli Stati Uniti, Adorno fece leggere a Mann ancora in manoscritto i suoi due saggi (su Stravinskij e su Schönberg), che dovevano costituire la Philosophie der neuen Musik. Da ciò nacquero la suggestiva interpretazione data da Mann, nel Doktor Faustus, della crisi della musica contemporanea come crisi di una civiltà e il significato ‘demoniaco’ attribuito all’ambiziosa proposta scaturente dal ‘metodo dodecafonico’. Ne derivò una polemica con Schönberg, il quale rivendicò la paternità della dodecafonia e pretese che essa fosse riconosciuta in una nota in appendice nelle successive edizioni del romanzo.
L’influenza della dodecafonia, nel secondo dopoguerra, fu sentita anche da taluni compositori coetanei di Schönberg, che già avevano elaborato un proprio compiuto linguaggio, come Darius Milhaud in diverse composizioni strumentali, o come in Italia Alfredo Casella e persino Gian Francesco Malipiero e Giorgio Federico Ghedini che usano liberamente procedimenti seriali. Bela Bartók, già prima della guerra, aveva sperimentato la tecnica dodecafonica e seriale, in modo conseguente e, nello stesso tempo, coerente coi propri nessi etnici, nel Concerto per violino e orchestra (1937-38).
Diversi musicisti della generazione di mezzo, in Germania, adottarono la dodecafonia, con differenti procedimenti e in modo non sistematico; tra essi, Rudolf Wagner-Regeny, Wolfgang Fortner, Boris Blacher e Herman Heiss e i più giovani Hans Werner Henze e Giselher Klebe. Anche i due più importanti compositori della Repubblica Democratica Tedesca, Hanns Eisler e Paul Dessau, che erano stati attivi collaboratori di Bertolt Brecht, fecero uso talvolta della dodecafonia nel contesto del loro linguaggio impegnato in una Gebrauchsmusik di contenuto etico e politico, a differenza dei compositori dell’URSS dove la dodecafonia, in base ai retaggi staliniani, fu bandita; in Polonia invece, dopo la morte di Stalin, la cultura musicale si aprì alle correnti più vive della musica occidentale e la dodecafonia trovò subito i suoi adepti tra i quali, in primo piano, Krzysztof Penderecki.
In Francia la diffusione della dodecafonia è dovuta soprattutto all’opera critica e teorica di René Leibowitz, autore di scritti (Schönberg et son école, 1947, e Introduction à la musique de douze sons, 1949), che ebbero un’importanza decisiva per le giovani generazioni di compositori non solo nella stessa Francia, ma in tutto il mondo. A sua volta allievo di Leibowitz, Pierre Boulez si è imposto tra quei musicisti più radicali che, partiti dalla dodecafonia, si sono poi volti verso un serialismo integrale non dodecafonico, impegnato a sondare tutte le dimensioni possibili del suono e del rumore, e che hanno maturato la loro esperienza ai Ferienkurse für neue Musik di Darmstadt. Questi, sorti nel 1950, attirarono giovani musicisti da tutto il mondo; si vennero così formando gruppi e tendenze ultraradicali che, partendo da Webern, estesero i principi del ‘puntillismo’ e della variazione integrale ai quattro parametri del suono e a tutte le dimensioni strutturali del linguaggio musicale. Ritenendo Webern il punto limite dell’esperienza dodecafonica, i compositori di Darmstadt proposero in seguito, sia pure in differenti forme e modi, un ‘ricominciare da capo’, partendo dal rumore, dal suono massa, attraverso l’utilizzazione di qualsiasi mezzo sonoro. Da tali premesse scaturirono anche le ricerche sperimentali della musique concrète e quelle della ‘musica elettronica’; la prima sorta in Francia, per iniziativa di Pierre Schaeffer, la seconda a Colonia per impulso di Herbert Eimert e di Karlheinz Stockhausen, cui s’aggiunsero, in seguito, altri laboratori di musica elettronica in diversi centri europei e, tra i primi, lo Studio di fonologia musicale della RAI, a Milano. I maggiori esponenti del ‘serialismo integrale’ sorto a Darmstadt sono stati, con Boulez e Stockhausen, gli italiani Luigi Nono e Bruno Maderna, seguiti più tardi da Luciano Berio e dal belga Henry Pousseur.
riferimenti bibliografici
Th.W. Adorno, Philosophie der neuen Musik, Tübingen, Mohr, 1949 (trad. it. Torino, Einaudi, 1959); P. Boulez, Série, in Encyclopédie de la musique, vol. III, Paris, Fasquelle, 1961 (trad. it. in Note d’apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, pp. 261-63); H. Eimert, Atonale Musiklehre, Leipzig, Breitkopf & Hartel, 1924; Id., Lehrbuch der Zwölftontechnik, Wiesbaden, Breitkopf & Hartel, 1952 (trad. it. Milano, Carisch, 1954); J.M. Hauer, Vom Wesen des Musikalischen, Leipzig-Wien, Waldheim-Eberle, 1922 (nuova ed., Lehrbuch der Zwölftöne-Musik, Wien, Schlesinger e Haslinger, 1923); R. Leibowitz, Schönberg et son école, Paris, Janin, 1947; Id., Introduction à la musique de douze sons, Paris, L’Arche, 1949; R. Malipiero, Guida alla dodecafonia, Milano, Ricordi, 1961; A. Schönberg, Harmonielehre, Wien, 19222 (trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1963); Id., Composition with twelve tones, in Style and idea, New York, Viking Press, 1950, pp. 102-43 (trad. it. Milano, Feltrinelli, 1960); R. Vlad, Storia della dodecafonia, Milano, Suvini Zerboni, 1958; A. Webern, Der Weg zur neuen Musik, Wien, Universal Edition, 1960 (trad. it. Milano, Bompiani, 1963).