Doglia mi reca ne lo core ardire
Questa canzone (Rime CVI) è citata nel De vulgari Eloquentia (II II 9) come esempio di canzone che ha per argomento la rettitudine (directio voluntatis), cioè una delle tre cose meravigliosamente grandi, insieme con l'armorum probitas e l'amoris accensio, degne di essere trattate in volgare nell'alto stile della canzone. Come poeta della rettitudine in lingua provenzale, D. cita Giraut de Bornelh, autore del serventese Per solatz reveillar, mentre come poeti d'amore cita Arnaldo Daniello fra i provenzali, e Cino da Pistoia fra gl'italiani. Alla citata poesia di Giraut che, come già rilevò il De Lollis, è un canto pieno di sconforto " contro il decader di pregio, di gioia e di sollazzo, con parole di fuoco contro i cavalieri, mercanti e ladri, che a donneare intendono con mani puzzolenti di montone " (p. 366), D. deve qualcosa della sua ispirazione per Doglia mi reca, che par certo avesse intenzione di commentare nel quindicesimo e ultimo trattato del Convivio (cfr. I VIII 18 Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo libro; e vv. 119-122 di Doglia mi reca). La canzone è costituita di 7 stanze di 21 versi ciascuna e di un congedo regolare di 11 versi, che riprende esattamente la struttura metrica della sirima. La struttura metrica della stanza si accosta, anche per il rapporto tra versi endecasillabi e settenari, a quella di Poscia ch'Amor e di Tre donne: ABbCd, ACcBd; DeeFgGHhhII,
I codici di più antica tradizione manoscritta che la contengono sono: il codice Martelli, il Magliabechiano VI 143, il Veronese 445, i due autografi del Boccaccio (Chigiano L V 176 e Toledano 104, 6), dove è collocata al quattordicesimo posto, dopo Tre donne e prima di Amor, da che convien, nella serie di 15 canzoni che comincia con Così nel mio parlar. Fu stampata in appendice all'edizione veneziana di Pietro Cremonese della Commedia (1491) insieme con le altre 14 canzoni della tradizione Boccaccio, che qui corrono dal n. 3 al n. 17 a causa dell'aggiunta di altre rime in principio e in fine. Nell'edizione Giuntina del 1527 figura nel libro IV della sezione dantesca, al quinto posto della serie di sei " canzoni morali " che comincia con Voi che 'ntendendo e finisce con Tre donne. Il Barbi nell'edizione del 1921 la collocò col n. CVI nel libro VII che comprende " Rime varie del tempo dell'esilio ", dopo la canzone Tre donne e il sonetto Se vedi li occhi miei. Accettarono la collocazione fra le rime dell'esilio, fra gli altri, il Sapegno, il Contini, il Mattalia e, più recentemente, Foster e Boyde; altri critici, invece, come il Parodi, lo Zingarelli, il Nardi, il Casella, preferirono assegnarla al medesimo tempo delle due canzoni dottrinali Le dolci rime e Poscia ch'Amor (1294-95). A favore del tempo dell'esilio starebbe la dedica a una Contessa Bianca Giovanna che pare sia da identificare con la figlia del conte Guido Novello dei conti Guidi del Casentino, sposata in seconde nozze con uno dei Cacciaconti di Siena, che D. poté avere occasione di conoscere nei primi tempi del suo esilio. Importante è anche la vicinanza stilistica con la canzone Tre donne, rilevata da un esperto come il Contini e confermata recentemente dal Boyde. Si può aggiungere che nei vv. 118-125, dove il poeta denunzia l'avarizia di chi volge il donare in vender tanto caro / quanto sa sol chi tal compera paga (121-122), par di sentire l'amarezza personale di chi, come nei primi tempi dell'esilio, è esposto per necessità al bisogno di ricevere aiuto dai signori delle varie corti d'Italia, e che la contiguità a Tre donne, oltre che per lo stile, si può affermare anche per il contenuto. Nell'una e nell'altra canzone, infatti, il motivo di dolersi da parte del poeta è la mancanza della virtù negli uomini (cfr. Tre donne, dove [vv. 63-64] Amore dice alle tre donne: Larghezza e Temperanza e l'altre nate / del nostro sangue mendicando vanno). In un'altra canzone (Poscia ch'Amor) D. aveva dimostrato la mancanza della virtù nei falsi cavalieri che non sanno che cosa sia la vera leggiadria sostituendola con viziosi surrogati, ma la protesta del poeta si riferiva appunto a una specifica carenza in una determinata classe sociale. In Doglia mi reca, invece, la denunzia e la doglia, come in Tre donne, si riferiscono a una situazione generale della società di quel tempo.
Il tema della canzone (mancanza negli uomini della virtù in generale con esemplificazione della mancanza della liberalità, il cui vuoto è riempito dal vizio dell'avarizia) è svolto dalla seconda alla sesta stanza, precedute da un proemio (prima stanza) e seguite da una conclusione (settima stanza). Tanto nel proemio quanto nella conclusione il poeta insiste nel grave ammonimento alle donne dotate di bellezza di non amare gli uomini perché sono senza virtù. Il vero amore, è detto nel proemio, consiste nella fusione in una sola cosa della bellezza della donna e della virtù dell'uomo, e perciò nelle presenti condizioni le donne che s'innamorano fallano contro Amore, donde l'ammonimento del poeta: voi non dovreste amare, / ma coprir quanto di biltà v'è dato, / poi che non c'è vertú, ch'era suo segno (vv. 15-17). Sarebbe anzi un lodevole atto di bel disdegno che le donne allontanassero da sé la loro bellezza. Nella conclusione l'ammonimento è ribadito con la conferma che, se le donne amassero uomini privi di virtù, quello non sarebbe amore, ma appetito di fera: Oh, cotal donna pera / che sua biltà dischiera / da natural bontà per tal cagione, / e crede amor fuor d'orto di ragione! (vv. 144-147). Ma proemio e conclusione sono soltanto la cornice che fa ornamento di bell'effetto oratorio alla sostanza della canzone, che è la denunzia del deserto morale in cui vive la società umana senza l'esercizio delle virtù, ed è una denunzia che colpisce direttamente la responsabilità dell'uomo che, invece di essere signore avendo al suo servizio la virtù, cara ancella e pura che per lo corto viaggio / conserva, adorna, accresce ciò che trova (vv. 36-37), si è fatto servo del vizio.
Si prenda l'esempio dell'avaro: costui va follemente, come servo, dietro all'avere, al denaro che egli insegue senza mai poterlo oltrepassare perché il numero non ha mai fine. E intanto arriva la morte mettendo fine a una vita inutile: che hai tu fatto / cieco avaro disfatto? / ... Maladetta tua culla, / che lusingò cotanti sonni invano / Maladetto lo tuo perduto pane, / che non si perde al cane! (vv. 75-81). Né la morte né la fortuna possono rimediare al disordine provocato dal vizio dell'avarizia. Dopo la morte dell'avaro, infatti, anche se il denaro da quello accumulato viene messo in circolazione, con quale giustizia si ridistribuisce, se non può essere reso a chi è stato tolto? Intanto è cosa certa che dall'asservimento della ragione al vizio dell'avarizia deriva una duplice onta: si vedono andar nudi uomini virtuosi immuni da ogni vizio, e si vedono falsi animali che tengono accuratamente vestito il loro vil fango. Ad aggravare la responsabilità dell'avaro nella persistenza del vizio, D. ricorda le frequenti occasioni che la virtù gli offre per indurlo alla liberalità. Ma egli quasi sempre sfugge, e se qualche volta, dopo tante incertezze, si decide a donare, lo fa con tanta mala grazia, che il suo atto non risulta meritorio. È codesto un donare che, oltre che fare il danno dell'avaro che in tal modo non opera virtuosamente, lo fa anche di chi riceve il dono. Se si tarda a donare, o si dona per vanità, in modo che gli altri vedano, o con sembianza trista, è come tramutare il dono in una vendita a caro prezzo come sa chi è costretto a pagare tal compera. Tanta è l'umiliazione che ne riceve, che gli parrà poi meno amaro il rifiuto, avendo provato quanto costa il ricevere: Volete udir se piaga? / Tanto chi prende smaga, / che 'l negar poscia non li pare amaro. / Così altrui è sé concia l'avaro (vv. 123-126).
Il congedo, con l'invito alla canzone di recarsi da una gentildonna che si chiama Bianca Giovanna Contessa, per manifestare a lei prima che a ogni altra persona quel che la canzone è, e quel per che egli la manda, fa pensare a uno scopo personale che D. intendeva raggiungere con questa canzone; ma qualunque sia stata la privata occasione, non c'è dubbio che essa si è poeticamente risolta in una visione di deserto morale nel mondo.
Bibl. - C. De Lollis, Quel di Lemosi, in Scritti vari di filologia in onore di E. Monaci, Roma 1901, 353-372; E.G. Parodi, Le Rime di D., in Dante, Milano 1921, 53-67; N. Sapegno, Le Rime di D., in " La Cultura " n. s., IX (1930) 721-737; ID., Le Rime di D., Roma, dispense anno accad. 1956-57, II 115 ss.; Contini, Rime 182 ss.; D.A., Rime, a c. di D. Mattalia, Torino 1943, 185 ss.; Zingarelli, Dante 346 ss.; M. Casella, Le rime di D., in Dizion. delle opere e dei personaggi, VI (1951); B. Nardi, Dal ‛ Convivio ' alla ‛ Commedia ', Roma 1960, 1-20; A. Pézard, Courroux de belles Dames, in " Studi d. " XXXVIII (1961) 1-46; D.A., Oeuvres complètes, a c. di A. Pézard, Parigi 1965, 214 ss.; P. Boyde, Style and Structure in Dante's canzone ‛ Doglia mi reca ', in " Italian Studies " XX (1965) 26-41; D.A., Rime, a c. di M. Apollonio, Milano 1965, 206 ss.; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, II, Oxford 1967, 295 ss.; Barbi-Pernicone, Rime 605-623.