DOGMA
Nell'uso comune dei Greci si disse dogma (δόγμα; lat. placitum) qualsiasi pubblico decreto emanato dall'autorità civile (così anche in Luca, II,1; Atti, XVlI, 7), e parimente si chiamarono dogmi i principî fondamentali di ciascuna scuola filosofica, che nell'interno della scuola medesima per i suoi aderenti godevano autorità assoluta e certezza indiscutibile, quorum nullum - osserva Cicerone (Academ., II, 9) - sine scelere prodi poterit. Anche nell'uso specifico cristiano dapprima dogma significò una pubblica decisione presa dalla suprema autorità religiosa, qualunque fosse il suo obietto (Atti, XVI, 4; cfr. XV, 28: "è piaciuto [ἔδοξεν] allo Spirito Santo e a noi"), ma poi si restrinse a significare soltanto le solenni decisioni della Chiesa, che hanno per oggetto la formulazione, in esatti termini filosofici, della dottrina cristiana. In questo senso tecnico ricorre nella letteratura patristica relativamente tardi. Marcello di Ancira, che fu uno dei Padri del concilio di Nicea, circa il 335, attribuiva ancora alla parola il senso e valore che aveva nell'uso comune profano (presso Eusebio, Contra Marcellum, I, 4); e lo stesso faceva più tardi in Occidente S. Agostino, scrivendo: dogmata sunt placita sectarum, id est, quod placuit singulis sectis (Quaest. Evang., I, q. II). Il primo ad adoperare la parola in stretto senso ecclesiastico pare sia stato in Oriente S. Gregorio Nisseno, nella seconda metà del sec. IV giacché egli divideva la disciplina cristiana in due parti, una che tratta della morale, e l'altra "i dogmi esatti" (Epist., 24).
Concetto nella dottrina cattolica. - Nella Bibbia e nei Padri della Chiesa, dogma significa sia la verità speculativa sia la prescrizione pratica, finché il primo senso prevale sul secondo presso i Greci e poi presso i Latini. Con la Scolastica, si restringe ancora il significato più rigoroso di "dogma" a quello, ora vigente, di "proposizione o sentenza che si deve tenere da tutti per fede divina e cattolica": una proposizione cioè "che non solo sia di fede in sé stessa come rivelata da Dio, ma anche rispetto a noi; perciò come tale proposta dalla Chiesa a credersi da tutti", mediante il magistero ordinario e universale, per un'esplicita e solenne definizione o di concilî ecumenici o del sommo Pontefice. In senso rigoroso, cioè, anche le verità di fede non si possono chiamare dogmi, finché non siano tali rispetto a noi, cioè proposteci a credere come rivelate.
Fra i dogmi poi quelli che primeggiano si chiamano articoli di fede, contenuti nel Credo (v.). Ma questa distinzione riguarda solo la maggiore o minore importanza e necessità loro in ordine ai primi oggetti della fede, come porta alla salvezza spirituale.
La ragione dei dogmi è quella stessa della Rivelazione divina che li fa conoscere, e questa varia secondo l'ordine delle verità rese manifeste mediante essa; giacché alcune di queste verità non sono affatto inaccessibili alla ragione, per quanto spetta all'ordine naturale (p. es., l'esistenza di Dio); altre trascendono ogni limite d'intelligenza creata, la quale può solo riconoscerne la credibilità estrinseca, ossia i titoli della divina testimonianza che ce li rivela, e la non ripugnanza loro alla ragione e alle verità da essa conquistate.
Quanto alle prime, che sono d'ordine naturale, la ragione della rivelazione loro non è di necessità assoluta, ma di provvidenza salutare; quanto alle altre, invece, la rivelazione appare manifestamente di assoluta necessità, supposta l'elevazione dell'uomo al fine soprannaturale, appunto perché si tratta di verità e di beni divini, che sorpassano interamente ogni intelligenza della mente umana. Questa seconda classe è quella dei dogmi propriamente detti, ossia misteri divini, "i quali eccedono di loro natura talmente l'intelletto creato, che anche insegnati per rivelazione e ricevuti per fede, restano tuttavia coperti dal velo della fede stessa e come avvolti in una caligine" (Conc. Vat., sess. III, can. 2).
La cognizione dei dogmi è quindi necessariamente analogica e imperfetta, stante la trascendenza del loro oggetto, ma non perciò falsa, e neppure meramente soggettiva; ché secondo la dottrina cattolica, a essa cognizione corrisponde una verità ben determinata, che è l'oggetto della rivelazione, di cui la mente umana percepisce i termini e il loro nesso, sebbene non ne scorga l'intrinseca ragione. Può essere una cognizione elementare o catechetica, come quella del semplice catecumeno, o più progredita, astratta, dialettica, come quella del filosofo, ma resta sempre che i dogmi propriamente detti - sebbene evidentemente credibili per l'autorità della testimonianza divina - non possono essere oggetto della scienza meramente naturale, bensì della scienza teologica, in quanto la ragione illuminata dalla fede li assume come principî di altre conclusioni, ne studia i termini, ne cerca una qualche intelligenza o schiarimento e inoltre confuta le obiezioni. Si può invece dare, secondo la dottrina cattolica, una dimostrazione diretta dei preamboli della fede, cioè sia del primo ordine di verità fondamentali alla religione e accessibili alla ragione, sia dei motivi di credibilità del dogma, che mostrano essere non solo ragionevole, ma doveroso l'assentirvi per fede.
Ma, se i dogmi propriamente detti restano sempre incomprensibili, cioè sopra la ragione, non sono però mai contro la ragione; e anche questo è un punto di fede, definito esplicitamente dal Concilio Vaticano, contro il razionalismo da una parte e il fideismei dall'altra. È inoltre condannato il dire che una proposizione possa darsi per dogmaticamente vera e scientificamente falsa, o viceversa.
I dogmi, essendo verità rivelate da Dio, non possono avere altra origine che la parola divina (cfr. Ebrei, I,1-2); essi sono dunque contenuti nell'Antico e nel Nuovo Testamento e nella tradizione apostolica, che insieme costituiscono il deposito (cfr. I Timoteo, VI, 20; II Tim., I, 14) affidato alla Chiesa da Cristo (v. apostolicità; cattolica, chiesa; chiesa: Il concetto cattolico). Da ciò si deduce il valore obiettivo e immutabile della verità dogmatica, termine necessario della locuzione divina. E la Chiesa ha condannato il cosiddetto evoluzionismo dogmatico in tutte le sue forme: cioè tanto quella del protestantesimo, quanto la filosofia kantiana o derivata dal Kant, e infine il razionalismo e il modernismo: i dogmi definiti sono per sé irreformabili nel loro contenuto oggettivo. Il Concilio Vaticano infatti definì che "si deve sempre ritenere costantemente quel senso dei sacri dogmi che una volta la Chiesa dichiarò, né mai da questo senso si può recedere sotto specie o pretesto di più alta intelligenza" (Const. Dei Filius, IV, can. 3).
L'immutabilità sostanziale del dogma non esclude tuttavia lo svolgimento o il progresso; quindi la perfettibilità rispetto a noi, cioè quanto alla sua cognizione, il che avviene col ridursi in atto quello che prima si aveva in germe o in virtù, come fu già dichiarato nel secolo V da Vincenzo di Lerino (Common. I) e poi ammesso, sebbene con qualche varietà di spiegazioni, dai teologi, quali il Franzelin e il card. Newman stesso. Né solo è ammesso, ma auspicato dalla Chiesa, come lo stesso Concilio Vaticano proclamava.
Questo progresso, che da alcuni è stato detto anche evoluzione o meglio svolgimento del concetto, si avvera: 1. quanto all'espressione verbale, che si viene rendendo più nitida e precisa, secondo il perfezionarsi del linguaggio umano; nel qual senso ammettono alcuni qualche elasticità nella formula, senza alterazione del concetto; 2. nella perfezione intensiva del concetto, in quanto si afferra dalla mente con più chiarezza e più fermezza, quello che prima si teneva in un modo più oscuro e meno fermo: ed è svolgimento però piuttosto soggettivo che oggettivo; 3. nell'oggetto stesso, invece, si avvera quando riguarda il proprio nucleo del concetto dogmatico: svolgendolo cioè nei varî modi che comporta il procedere dell'intelligenza progressiva della mente umana senza alterazione del contenuto, sia deducendone le conclusioni che vi sono racchiuse, sia appianando o dichiarando i concetti stessi dogmatici. Nella locuzione divina, infatti, cioè nell'espressione dei vocaboli con cui ci sono proposti i dogmi (fides ex auditu), ci viene bensì manifestata una verità con termini accessibili alla nostra mente nel loro nesso, quantunque non ne vediamo l'intrinseco valore; ma il senso dei termini è appreso da noi conforme al concetto che ne abbiamo e che poi adattiamo all'espressione del dogma, per credere alla verità che non comprendiamo in sé. Nel dogma dunque l'enunciato stesso, che unisce i termini o i concetti tra loro e costituisce la verità oggettiva manifestata dalla divina testimonianza al genere umano, procede dalla prima Verità, mediante la rivelazione; non ne procedono le nozioni o i concetti primitivi, che sono come gli elementi del giudizio; ma per occasione di essa tuttavia anche questi vengono bene spesso perfezionati e chiariti. Vedi anche teologia.
Bibl.: Le fonti, in Denzinger Bannwart, Enchir. symbol., 17ª ed., Friburgo in B. 1928, pp. 475, 538, 559; inoltre: A. De la Barre, La vie du dogme catholique, Parigi 1899; L. Billot, De sacra traditione ecc., Roma 1904; G. Sortais, Pourquoi les dogmes ne meurent pas, Parigi 1905; S. Schiffini, De vera religione, Siena 1908; A. Lépicier, De stabilitate et progressu dogmatis, Roma 1910; Dictionnaire de théologie catholique, Parigi 1911 e Dictionnaire apologétique de la foi catholique, Parigi 1911, s. v. Dogme.
Storiografia del dogma. - Ciascun dogma prima di essere definito, cioè di divenire dogma, pur essendo una verità generalmente accettata, ha dovuto attraversare una lenta e lunga elaborazione; e di più il dogma, in quanto verità definita, non è nato col cristianesimo ma è sorto relativamente tardi, cosicché a rigore di termini si può dire che la prima età del cristianesimo, apostolica e sub-apostolica, sia stata un periodo storico adogmatico. A mano a mano che la tranquillità e sicurezza dei fedeli lo richiedeva, minacciata dai dissensi e dagli errori dottrinali, la Chiesa ha dovuto per mezzo di vescovi o di concilî pronunciare i suoi giudizî; e solo quando si è avuto un certo numero di dogmi chiaramente definiti, si sono potuti organizzare in un unico sistema dottrinale, e così è nata l'idea dell'ortodossia e si è fissata la regola comune (κάνων) della verità.
A questo lungo processo hanno contribuito due elementi, il divino e l'umano, che più propriamente può dirsi storico. Ma se l'elemento umano è esteriore e visibile, non così il divino, il quale non può essere appreso che per mezzo della fede; onde la storia dei dogmi è di natura assai diversa secondo che è fatta dai credenti o dagl'increduli. Il primo genere di storia, che si potrebbe dire ab intra, prende le mosse dalla fede nel dogma stesso, che è quanto dire nella sua origine divina da cui proviene la sua certezza e immutabilità sostanziale, onde ammette uno sviluppo e accrescimento soltanto esteriore e accidentale del dogma, prodotto appunto dagli elementi umani che hanno agito nella sua formazione; è la storia dogmatica del dogma. L'altro genere, che può dirsi ab extra, prescinde dal valore e dall'origine divina del dogma, e considera soltanto i suoi fattori umani, con i quali crede di spiegare esaurientemente, come di qualsiasi altra dottrina umana, l'origine e i sostanziali cambiamenti: è la storia critica o liberale dei dogmi.
Tra le discipline teologiche la storia dei dogmi è stata quella che più lungamente ha tardato a nascere. E ciò è facile a intendere: perché sino a tanto che si è avuta la fede nel dogma, tutto l'interesse si concentrava nella sua origine divina e nella sua immutabilità; poco importava come e quando fosse stato definito, quali e quanti siano stati quelli che l'hanno ricevuto ovvero respinto. Quindi non solo nel cattolicismo, ma anche nel protestantesimo, non si ebbe sentore di questa disciplina fino al sec. XVIII, quando sorse il razionalismo che cominciò a considerare il dogma dal punto di vista della pura ragione, a trattare la sua storia col medesimo metodo che era applicato alla storia della filosofia e delle altre scienze in generale. Allora fu naturale che anche i cattolici e i protestanti detti ortodossi si risentissero, e non solo rispondessero agli attacchi dei razionalisti, ma anche opponessero alla loro storia, costruita sui principî dell'umana ragione, una storia illustrata e assicurata dal lume della fede. Così la storia dogmatica dei dogmi non ha preceduto, ma piuttosto ha seguito la storia critica. Ciò però non toglie che, anche prima, nel campo ortodosso siano fiorite opere dotte che hanno varî punti di contatto con la storia di dogmi particolari, come gli scritti del Baronio, Bellarmino, Petavio, Tomassino ecc.; e soprattutto che si siano formate grandi collezioni del materiale indispensabile per la storia del dogma, sia per opera dei cattolici (in specie dei benedettini), sia per opera di alcuni protestanti, come il Casaubono, il Vossio, il Pearson, il Basnage, e altri.
La storia critica dei dogmi ha fiorito soprattutto in Germania, dove i primi manuali sono stati quelli di S. S. Lange nel 1796 e di W. Münscher nel 1797 segg. Scritti da un punto di vista prettamente razionalista, considerano i dogmi come aggiunte posteriori, che il cristianesimo deliberatamente ha voluto o per trascuranza ha permesso che si accumulassero sopra di sé, cosicché la sua indole primitiva ne è rimasta notevolmente alterata. Questa concezione della storia del dogma è apparsa ben presto troppo meccanica e artificiosa; quindi gli storici posteriori in mezzo alla evoluzione del dogma hanno cercato di discernere l'elemento stabile, l'idea generatrice e il filo conduttore che ha presieduto a tutto il suo processo evolutivo. Alcuni, provenienti dalla scuola romantica dello Schleiermacher (K. R. Hagenbach, 1840, 1867; A. Neander, 1857), hanno trovato questo filo nel nuovo impulso di vita da cui il cristianesimo fin da principio era animato; altri, della scuola idealista del Hegel e dello Schelling, nell'idea propria del cristianesimo, che per un'intima e logica necessità diversamente si attua nelle singole istituzioni e concezioni. Principale rappresentante di questa tendenza è stato F. Chr. Baur (v.) e la sua scuola, che nella metà del secolo scorso salì a grande rinomanza e splendore. Il suo manuale, splendidamente scritto, in diretta opposizione al passato razionalismo, ha il merito di essere stato il primo tentativo di una concezione completa e unitaria di tutto il processo evolutivo dei dogmi, ma nello stesso tempo manifesta chiaramente i difettì essenziali del sistema: la poca attenzione prestata ai fatti individuali e ai valori personali, e invece l'eccessivo uso e stima delle idee astratte e degli schemi a priori. Contrariamente a questo forzato assoggettamento dei fatti a un'idea preconcetta, si sentì sempre più il bisogno di studiare i fatti per sé medesimi, per apprendere da essi stessi le loro finalità e cercare nella connessione con altri fatti contemporanei la ragione del loro corso e sviluppo. Quindi, come base essenziale della storia dei dogmi, si pose la conoscenza di ciò che la religione cristiana è stata da principio, per poi distinguere ciò che è sbocciato dalla nativa sua forza, e ciò che dal di fuori essa si è assimilato nel corso della sua storia: onde la necessità di non perder mai di vista lo sviluppo generale della storia della Chiesa. Questa via, indicata dal Ritschl e seguita da F. Nitzsch nel suo manuale, è quella stessa per la quale la storia dei dogmi è stata portata da A. v. Harnack a un grado di perfezione mai più raggiunto nei nostri tempi. Egli si lasciò indietro di molto i suoi precursori, non solo per le sue vastissime e profonde conoscenze nel campo della letteratura e storia cristiana, ma soprattutto per la larghezza e acume delle sue vedute. Il concetto del dogma viene da lui esattamente circoscritto e limitato al dogma antico, contenuto nei simboli ermenici, di cui egli segue l'origine, lo sviluppo e il triplice sbocco nel cattolicismo tridentino, nel socinianismo antitrinitario e nel protestantesimo per ciò che originariamente ha avuto di comune con la dottrina della Chiesa. Ora, il dogma antico è stato da lui definito "una costruzione dello spirito greco sul terreno del Vangelo". Questa definizione, in quanto riassume in sé i risultati principali della storia dei dogmi, è stata da molti accusata di attribuire una forza troppo preponderante nella formazione del dogma a elementi estranei al cristianesimo, alla cultura e in specie alla filosofia greca. Il Harnack si è discolpato col dire che i suoi critici non hanno sufflcientemente apprezzato, come di dovere, la parte che egli pur fa nella sua storia, alle forze genuine cristiane cioè al Vangelo e alla pratica della pietà e del culto. Non si può negare però che la conclusione la quale naturalmente sgorga dalla lettura del libro, confermata del resto da altri suoi scritti, e particolarmente da Das Wesen des Christentums, è che il dogma sia un'aggiunta ingombrante fatta al cristianesimo genuino, che l'"Evangelium Jesu Christi", cioè predicato da Gesù, sia tutt'altra cosa dall'"Evangelium de Iesu Christo", professato dalla Chiesa. Nella stessa orbita del Harnack si muovono le storie di F. Loof, di G.N. Bonwetsch e di F. Wiegand, e tante altre monografie pubblicate dietro il suo impulso o sotto la sua direzione. Al contrario A. Dorner, che di nuovo per storia dei dogmi intende in senso più largo la storia della dottrina cristiana, onde la conduce fino ai tempi nostri, è tornato alla concezione hegeliana della storia, e quindi al metodo del Baur. Alla medesima tendenza appartengono Pfleiderer, Lasson, Hartmann e A. Drews.
Un'opposizione molto più seria, per ciò che riguarda l'origine e la storia antica del dogma, è venuta al Harnack dalla nuova scuola che prende il nome di religionsgeschichtliche, cioè dalla storia comparata delle religioni. Secondo essa il fattore principale del dogma non sarebbe tanto la filosofia greca quanto la religiosità o pietà ellenistica. Non la speculazione dunque razionale, ma la gnosi o sapienza rivelata, la quale, sulla base del dualismo tra carne e spirito, mondo e Dio, fa consistere la salute dell'anima decaduta dalla sfera divina dello spirito e imprigionata entro la sfera mondana della carne, nella redenzione operata da un salvatore o signore disceso dal cielo in terra, per dare appunto all'anima la cognizione della sua origine divina e ricondurla con sé in cielo a Dio. E questa concezione non deve dirsi propriamente greca, ma ellenistica; perché, diffusa ampiamente nel mondo parlante greco, talora fino agli ambienti religiosi più riposti, nei secoli vicini a Cristo. si ricongiungeva per mezzo di fili sottili e spesso intricati e contorti, con miti e riti di antiche religioni orientali o di sette da esse derivate (Reitzenstein). Ora, sulla base appunto di questa concezione religiosa ellenistica, ha tentato il Bousset di spiegare la formazione e lo sviluppo della cristologia - centro e cuore di tutta la dogmatica cristiana - da S. Paolo a S. Ireneo. E l'iato che così è venuto ad aprirsi tra Paolo insieme con la Chiesa gentile di Antiochia, da cui esso derivava, e la chiesa giudaica di Gerusalemme, che continuava la predicazione e la tradizione di Gesù (Heitmüller), è stato colmato da altri studiosi col far risalire l'influenza dell'idea gnostica fino a Gesù medesimo e a Giovanni Battista (Reitzenstein, Behm, Schechter ecc.). Questo è il punto principale intorno al quale ora si dibatte la storia critica del dogma.
Sebbene attualmente i protestanti detti ortodossi non credano più in generale alla verità assoluta dei dogmi, pure ammettono alcune verità fondamentali, di cui si servono come punto fermo per spiegare il processo evolutivo delle altre. Così G. Thomasius cercò di dimostrare che la dottrina ecclesiastica si è svolta in una linea retta dalla rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, e che ha avuto la sua naturale conclusione nella dottrina protestante del sec. XVI. Più premuroso di attenersi esclusivamente alla linea storica dei fatti è R. Seeberg, autore di un manuale assai apprezzato. Ma dove regna la calma più perfetta è naturalmente nel campo storico del cattolicismo, il quale dietro il principio della verità assoluta del dogma non può ammettere alcuna sua variazione interna e sostanziale, tanto che è sorto piuttosto il dubbio se realmente una vera storia del dogma tra i cattolici sia possibile. Questa questione è appunto l'oggetto di un'opera famosa del card. Newman (An essay on the development of Christian doctrine, 1845), scritta poco prima della sua conversione dall'anglicanesimo; egli la risolve mostrando come il dogma, nonostante la sua immutabilità sostanziale e la pienezza originaria del suo contenuto, possa esplicarsi gradualmente, manifestarsi cioè sempre più chiaramente alla mente umana. Su questo principio si fondano appunto gli studî dei cattolici nel campo della storia dei dogmi; nel quale meritano di essere ricordati i manuali di Schvane, Bach e Tixeront, oltre numerose monografie, in specie quelle apparse nella collezione diretta da Ehrhard, e gli articoli del Dictionnaire de théologie catholique.
Storia dei dogmi. - La prima definizione di un dogma, solenne ed ecumenica, fu quella che pronunziò nel 325 il concilio di Nicea, per risolvere la questione ariana; ma anche prima, se non in forma ecumenica, si ebbe la condanna delle dottrine di Marcione, di Paolo di Samosata, di Nepote di Arsinoe, ecc. A ogni modo l'ingresso della storia dei dogmi, almeno nel suo pieno e chiaro sviluppo, si può datare come tante altre esplicazioni della vita pubblica della Chiesa, e in modo particolare i concilî ecumenici, da Costantino; prima dunque in generale è la preistoria. Ma anche lo studio della preistoria è d'interesse fondamentale per l'intelligenza del dogma, perché vi s'imparano a conoscere i germi in cui esso fin da principio era contenuto, le ragioni intime e le condizioni necessarie della sua piena esplicazione.
La radice ultima del dogma sta nel Vangelo, il quale come fu predicato prima da Gesù e poi daí suoi apostoli con l'assistenza dello Spirito Santo, così ebbe per oggetto il Regno o la salute di Dio, che avrebbe apportato Gesù, in quanto Cristo, pienamente alla fine dei tempi e intanto per mezzo dello Spirito e dei suoi doni. Sicché fin da questo momento l'oggetto della fede cristiana fu uno e triplice: Dio, il Cristo e lo Spirito Santo. Al centro la figura storica di Gesù Cristo il quale come è stato mandato e ha rivelato il Padre, così, a sua volta, ha mandato ed è stato rivelato dallo Spirito Santo. E per confessare questa fede vi furono fin da principio, come apparisce da S. Paolo, formule apposite semplicissime. La più semplice e, per ragione della posizione centrale tenuta dalla persona di Gesù, forse la primitiva, era: Κύριος 'Ιησῦς "Gesù è il Signore" (I Corinzî, XII, 3; Romani, X, 9; Filippesi, II, 11); onde, per contrario la formula di rinunzia alla fede: ἀνάϑεμα 'Ιησοῦς "maledetto Gesù" (cfr. la lettera di Plinio a Traiano: Christo maedixerunt). Il titolo di Signore (in palestinese maran; I Cor., XVI, 22; Didachè, 10, cfr. Apocalisse, XXII, 20), che prevalse, come si vede dagli scritti di S. Paolo, su quello di Cristo, divenuto nome proprio al pari di Gesù, significava che Gesù innalzato dal Padre per la resurrezione (Rom., X, 9) alla sua destra era stato investito della signoria di tutto il mondo, cielo terra e inferno; e perciò come tale, per la gloria stessa del Padre, doveva al pari di lui essere da tutti onorato e adorato (Filipp., II, 9-11). Una formula più ampia faceva anche menzione espressa e dava il maggior rilievo a Dio, da cui il Figlio era stato mandato: "qui sta la vita eterna, che conoscano te unico Dio vero (in opposizione al politeismo) e quegli che hai mandato, Gesù Cristo (in opposizione al giudaismo)" (Giovanni, XVII, 3, cfr. I Cor., VIII, 6; I Tim., VI, 13). Ma la formula più piena conteneva anche il nome dello Spirito Santo, e fu quella che prevalse nell'uso del battesimo, amministrato "nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo" (Matt., XXVIII, 19), invece che "nel nome del Signore Gesù" (Atti, XIX, 5; cfr., II, 38; I Cor., I, 13). Si noti bene però che tutte queste formule erano l'espressione della fede, soprattutto in quanto adesione a una realtà immediatamente sentita ed esperimentata nell'esercizio stesso della vita cristiana. Così nel battesimo la presenza dello Spirito Santo era attestata dagli effetti che esso produceva nei singoli battezzati e nel corpo mistico di Cristo, che dai battezzati era costituito (Giovanni, III, 5, 8; I Cor., XII, 13); così nei fatti straordinarî miracolosi che avvenivano nella Chiesa primitiva si vedeva l'efficienza di un'unica operazione che era insieme dello Spirito, del Signore e di Dio (I Cor., XII, 4-6). Dalla formula trinitaria è venuto per un naturale sviluppo e ampliamento il simbolo (v. credo), che in origine ebbe per scopo la fissazione dei punti essenziali di orientamento pratico della vita cristiana, di cui il battesimo, per il quale fu fatto, segnava l'inizio; nello stesso tempo i suoi articoli assunsero forme d'implicita condanna della dottrina gnostica e marcionita, che nel sec. II minacciò seriamente di corrompere appunto la vita cristiana (espressa asserzione dell'onnipotenza di Dio, della sua attività creatrice, della verità della carne di Cristo, della bontà naturale della carne dell'uomo da maniíestarsi nella resurrezione universale). Così il simbolo addivenne la regula fidei, perché nelle sue concise enunciazioni potesse servire di base a ogni futura costruzione dogmatica, rimanendo in ogni tempo la guida sicura che conduce alla persona di Cristo e al suo Vangelo. In tal senso si dissero canone o regola anche gli scritti del Nuovo Testamento. Ma ciò non era ancora il dogma; si richiedeva la riflessione elaboratrice del Vangelo, la teologia.
Che la teologia carismatica - quella che rimane strettamente chiusa nel campo della rivelazione, le cui verità confronta, ordina e illustra - abbia molto contribuito alla formazione della dottrina cristiana apparisce dall'uso che ne ha fatto S. Paolo, fondandosi sia su rivelazioni che forse egli stesso ha ricevuto (Filipp., II, 6-11; Coloss., I, 15-20; I Cor., XII, 23), e sia su quelle di altri che avevano acquistato credito sufficiente nelle chiese (I Cor., II, 8, cfr. Ascensio Isaiae). Ma non tutti i "pneumatici" avevano l'autorità di Paolo, onde più ascoltata era la teologia razionale, che senza rinunziare del tutto alle rivelazioni, faceva principalmente appello alla comune ragione umana. Suo soggetto fondamentale era la cristologia, cioè il problema della persona di Cristo: come si conciliava la divinità di Cristo con l'assoluta unità di Dio già definita nell'Antico Testamento? La soluzione non era possibile che per mezzo della revisione e di un maggior approfondimento o del eoncetto di Cristo (cristologia) o del concetto di Dio (teologia propriamente detta). Così fin da tempi antichissimi si sono proposte tre diverse sentenze per la soluzione della questione. La 1ª considerava la figliolanza divina di Cristo come semplicemente adottiva (onde il nome di adozionismo), soltanto esteriore, che non poteva perciò portare alcuna intima diminuzione all'unità di Dio: il Cristo cioè sarebbe figlio di Dio perché è stato generato da Maria per opera dello Spirito Santo, e perché con la sua vita e morte si è meritato di essere costituito da Dio signore universale, giudice dei vivi e dei morti (Teodoto, Asclepiodoto, Natale, Artemone, Paolo di Samosata). La 2ª dichiarava che in Cristo si è fatto carne e ha patito il Padre medesimo (Noeto, Praxeas); il che, secondo Sabellio, doveva intendersi nel senso che la medesima sostanza divina, rimanendo sempre una, prende tre aspetti e nomi diversi: di Padre, come creatore di tutte le cose, di Figlio come redentore degli uomini, di Spirito Santo come santificatore dei fedeli, cioè della Chiesa (v. monarchianismo). La 3ª sentenza invece riconosceva in Cristo un essere divino preesistente ma distinto dal Padre, il quale da lui mandato in terra per la redenzione degli uomini si è incarnato e, compita la sua opera, è tornato in cielo. In questi tre campi si è divisa la teologia cristiana nella seconda metà del sec. II e nella prima del III. Ma respinta la 1ª sentenza già ai tempi di papa Vittore a Roma (v. adozionismo) e poi ad Antiochia con la condanna di Paolo di Samosata pronunziata da tre concilî provinciali (260-268), la 2ª che sotto i papi Vittore, Zefirino e Callisto aveva incontrato a Roma molto favole, resistette più a lungo; tuttavia alla fine dovette cedere anch'essa dinanzi alla 3ª corrente, la quale si allargò sempre più e riuscì dovunque a prevalere, sotto la forma che identificava l'essere celeste incarnato in Cristo con il Logos del Quarto Vangelo, per cui è stata detta la teologia del Logos. Le ragioni del suo trionfo finale si debbono riconoscere nel suo accordo non solo con gli scritti canonici di Paolo e di Giovanni, ma anche con la dottrina degli apologisti, che aveva appunto il suo centro nella teoria del Logos; il quale, strumento di Dio come per la creazione e conservazione del mondo, così per la sua rivelazione agli uomini, prima ha parlato per la bocca dei filosofi delle genti e dei profeti degli Ebrei, e poi s'è incarnato in Cristo, in cui la verità e la grazia divina si sono manifestate nel più alto grado. Questo grandioso sistema, il quale inquadra l'idea della redenzione cristiana in una concezione amplissima, che abbraccia Dio e il mondo, la grazia e la natura, la storia degli Ebrei e dei gentili dalla creazione sino alla consumazione di tutte le cose, fu tracciato nelle linee principali da Giustino e Ireneo in Oriente, da Ippolito e Novaziano a Roma, da Tertulliano in Africa, da Clemente in Egitto; ma ebbe la sua unità e il suo ultimo compimento solo per opera del genio di Origene, il quale dottissimo sia nella Bibbia sia nella filosofia greca, sulle orme del suo concittadino il giudeo Filone, tentò la sintesi dei dati della rivelazione ebraica e cristiana con le speculazioni dei filosofi, in specie di Platone e dei suoi più recenti interpreti. La sua teologia destò grande ammirazione e fu considerata come l'unica e vera dottrina cristiana, in opposizione alla falsa gnosi di Basilide, Valentino, Marcione, ecc.; non fu però accettata da tutti nei singoli punti, ché anzi, per causa di alcune deviazioni dalla strada maestra della tradizione, egli, il padre della teologia della Chiesa, nel sec. V fu condannato dalla Chiesa come eretico. Ciò non toglie che ormai si avesse una teologia cattolica, base indispensabile per la fissazione del dogma; anzi le stesse mancanze del sistema di Origene e le conseguenti incertezze e confusioni furono la causa principale per cui si dovette ricorrere alle definizioni dogmatiche.
Le tre epoche della storia dei dogmi. - La storia dei dogmi si divide in tre epoche - antica, medievale e moderna-, nettamente separate tra loro dai due scismi più gravi che abbia sofferto il cristianesimo, la separazione della Chiesa orientale dall'occidentale e la Riforma protestante. Nella prima epoca, quando la Chiesa era unita, il dogma fu determinato nelle sue linee fondamentali, sia in riguardo alla persona del redentore, sia alla redenzione per sé medesima: la prima definizione fu opera principale della Chiesa orientale, in modo speciale dei sette concilî ecumenici; la seconda della Chiesa occidentale in modo particolare di S. Agostino.
Quanto alla persona di Cristo, essa poteva essere considerata rispetto alla sua divinità e rispetto alla sua umanità. Il problema che nasceva dalla divinità di Cristo era il medesimo che anche prima era sorto, e aveva provocato le soluzioni dell'adozionismo e del monarchianismo. Giacché nella teologia di Origene il Logos, incarnatosi in Cristo era della natura del Padre (pare che fin da allora fosse adoperato il termine homousios "consustanziale"), da lui generato ab aeterno, ma nello stesso tempo era un essere a sé, subordinato al Padre: ora alcuni insistevano piuttosto sulla distinzione del Logos dal Padre, tanto da farne un'essere creato, finito e temporale; altri invece sulla sua identità col Padre, tanto da ridurre la distinzione a una quantità trascurabile. Dei primi era Luciano, fondatore della scuola di Antiochia, il quale modificò la teologia origeniana nel senso dell'adozionismo di Paolo di Samosata, di cui l'eco non era ancora spenta in Oriente, ed ebbe seguace Ario in Alessandria; la seconda posizione era quella presa da Osio, rappresentante principale al concilio di Nicea dell'Occidente, e da Atanasio, rappresentante della Chiesa di Alessandria, la quale al razionalismo di Antiochia opponeva una concezione mistica della redenzione, quasi divinizzazione della natura umana per mezzo dell'uomo-Dio (v. arianesimo). La conclusione delle lotte ariane, alla quale si giunse solo parecchio tempo dopo il Concilio Niceno, fu che si riconobbe la reale distinzione in mezzo all'unità divina delle tre persone, per l'attribuzione a ciascuna di una relazione propria verso le altre: della generazione attiva al Padre, della generazione passiva al Figlio, della semplice processione allo Spirito Santo. Risoluta così la questione teologica del come conciliare la distinzione delle tre persone con l'unità della natura divina, sorse la questione strettamente cristologica del come conciliare l'unità della persona di Cristo con la distinzione della sua natura umana da quella del Logos. A dir vero, quantunque dopo la condanna dello gnosticismo rimanesse fermo che la carne di Cristo fosse vera carne, e non soltanto apparente come voleva il docetismo (v.), pure nel campo degli origenisti regnava intorno all'integrità della sua natura umana grande varietà di idee e di dubbî, che andava da quelli i quali eoncedevano di umano a Cristo solo la carne, a quelli che, come Apollinare di Laodicea (v.), gli concedevano ancora l'anima, ma non la mente, cioè l'anima razionale (ψυχή λογική), la quale sarebbe stata in lui sostituita dal Logos. Ma anche qui il campo si divise tra le due scuole principali, di Alessandria e di Antiochia. La prima, sotto la guida dei patriarchi Teofilo, Cirillo e Dioscoro, fedele al suo principio mistico, che la redenzione dell'uomo non era possibile se non per la reale unione (ἔνωσις ϕυσική) della sua natura con quella di Dio, insisteva sulla stretta unità della persona di Cristo, ammettendo la distinzione delle due nature solo per necessità di fede come un mistero: la seconda al contrario insisteva sulla distinzione delle due nature entrambe vere e complete e individuali, come richiedono tanto la storia evangelica quanto la ragione, mentre riguardava la loro unione non come fisica ma morale (ἔνωσις σχετική), quanto bastava per salvare l'unità di Cristo oggetto dell'adorazione dei fedeli (Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia), sotto la manifesta influenza anche qui della dottrina di Paolo di Samosata. Dalla scuola antiochena venne Nestorio (v.) e dalla alessandrina Eutiche (v.), i quali accesero una lotta che durò dei secoli. Giacché a finirla non valse né la condanna di Nestorio nel concilio di Efeso del 431, né quella di Eutiche e di Dioscoro nel concilio di Calcedonia del 451. La formula di Apollinare e Cirillo, approvata dal Concilio Efesino, "una sola natura del Verbo divino incarnata" (μία ϕύσις τοῦ ϑεοῦ λόγου σεσαρκωμένη), apparve troppo vaga e fu sospetta agli occidentali di monofisitismo; e d'altra parte la formula di Leone Magno approvata dal Calcedonese: "uno e medesimo Cristo in due nature" (εν δύο ϕύσεσιν, e non εκ σύο ϕύσεσιν, come dicevano i monofisiti), parve agli orientali contraria a Cirillo e favorevole a Nestorio. Come per la questione trinitaria, così per la cristologica, solo col tempo si è venuto a un'intesa comune tra gli ortodossi; quando cioè, per il progresso fatto dal sec. VI in poi dalla teologia scolastica in Oriente, si capì il valore che aveva la distinzione tra natura e persona, di modo che come in Dio vi sono tre persone ma una sola natura, così in Cristo vi sono due nature ma una sola persona. Anche allora vi furono alcuni i quali, con Sergio patriarca di Costantinopoli, sebbene ammettessero due nature in Cristo, pure sostenevano, per salvare l'unità della persona, che vi fosse in lui un'unica operazione e volontà; errore che fu condannato nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 680. Così fu definitivamente stabilita in Oriente l'ortodossia (la questione delle immagini definita nel 7° concilio ecumenico del 787 ebbe importanza secondaria, più pratica che dottrinale); ma essa costò cara alla Chiesa e all'Impero: la formazione di molte chiese dissidenti e la perdita delle migliori provincie passate sotto il dominio dell'Islām.
Il dogma relativo alla persona del Cristo redentore, definito in Oriente, fu pienamente ricevuto anche in Occidente. La teologia occidentale si occupò a preferenza del modo e della natura della redenzione, come cioè si concilii in essa l'operazione della grazia divina con quella della volontà umana. Problema assai diverso ma analogo al cristologico, e come questo sospeso tra due tendenze opposte: una razionalista, la quale mirava soprattutto a salvare la libertà della volontà umana e quindi la sua sufficienza a operare il bene e a osservare la legge, a che la grazia di Dio presta soltanto il suo aiuto; l'altra mistica, la quale di fronte all'impotenza morale della natura umana guasta per il peccato originale, esaltava la potenza ed efficacia irresistibile della grazia e della provvidenza di Dio, per cui è fisso ab aeterno, senza loro merito, il numero delle singole anime che debbono effettivamente essere redente da Cristo. La prima corrente, formata dal monaco Pelagio (v.) e dai suoi seguaci (Celestio, Giuliano di Eclano, ecc.) rappresentava un modo molto comune di pensare; e che avesse un'intima affinità in Oriente con la teologia antiochena, è comprovato dal favore che i pelagiani scacciati dall'Occidente godettero presso Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, e viceversa dall'opposizione che incontrarono, per l'ispirazione di Cirillo, nel concilio di Efeso. La seconda veduta, sebbene tragga le sue origini dalle idee di S. Paolo sul Vangelo e la Legge, sulla grazia e il peccato, e nonostante gli accenni che se ne trovano in scrittori antecedenti, come Tertulliano (vitium originis, tradux peccati) e S. Ambrogio (non gloriabor quia iustus sum, sed gloriabor quia redemptus sum), nel suo complesso e in tutta la sua profondità e chiarezza si deve al genio e al profondo sentimento religioso di S. Agostino. Di nuovo però, come per il dogma cristologico, si dovette percorrere una via lunga e aspra, dopo la morte dei protagonisti, per arrivare a un accordo comune, il quale salvasse insieme la necessità e potenza della grazia di Dio e la libertà e responsabilità della volontà umana. La lotta fu combattuta nel sud delle Gallie, dove, col desiderio di tenere una via media e giusta, alcuni, come il monaco Cassiano e Vincenzo di Lerino, inclinarono di più verso Pelagio, onde furono detti semipelagiani, altri invece, come Prospero d'Aquitania e Cesario di Arles, verso S. Agostino; finché alla controversia fu posto fine per la definizione fatta dal sinodo di Oranges (529) in 25 capitoli della dottrina della grazia, confermata da Bonifacio II.
Connessa con la questione della grazia fu quella della santità della Chiesa, che è quanto dire della natura stessa della Chiesa. Essa era stata di già sollevata dal rigorismo morale dei montanisti, cui Tertulliano diede l'appoggio della sua forte eloquenza; poi seguitò nelle dispute, circa il mantenimento dell'antico rigore della prassi penitenziale, di Ippolito e Novaziano contro il papa Callisto (215-222) a Roma, di Felicissimo e Novato contro Cipriano a Cartagine; e infine nella controversia sulla validità dei sacramenti amministrati dagli eretici o dagl'indegni, la quale si mantenne da principio in stretti limiti tra Cipriano di Cartagine e Stefano di Roma (254-57), ma poi divampò per tutta la provincia dell'Africa nel sec. IV e V con lo scisma donatista. Il nocciolo della questione stava in ciò, se la santità della Chiesa dipenda dalla condotta morale dei singoli individui, onde i peccatori debbano essere tenuti da essa lontani perché non la contaminino, e i sacramenti non possano essere efficacemente amministrati dagl'indegni; ovvero la santità sia qualcosa di oggettivo, superiore e anteriore ai singoli, per modo che essi non possano con la loro indegnità pregiudicare la dignità dell'istituzione. Questa seconda soluzione del problema dovette essere per necessità quella sostenuta da S. Agostino: per il quale la grazia divina ha un'efficacia indipendente dalla bontà e dai meriti dell'uomo, e si serve come suo strumento sensibile della Chiesa e dei sacramenti da essa amministrati; onde, anche se detta grazia straordinariamente si dona a chi sta fuori della Chiesa, ordinariamente si dà solo a chi appartiene alla Chiesa e si serve dei mezzi che in essa sono e che agiscono indipendentemente dalle qualità morali di chi li amministra. Il donatismo (v.), già condannato nel 313, aveva saldamente resistito, ma spezzatosi poi in varî gruppi, fu finalmente fiaccato a morte dalla polemica d'Agostino. Eliminato così lo scisma africano, in tutto l'Occidente rimase solidamente stabilita l'idea della Chiesa come mezzo esteriore e obiettivo di salute, la quale interiormente è operata dalla grazia di Dio pienamente libera ed efficace.
La seconda epoca della storia del dogma fu soprattutto opera di perfezionamento e consolidamento. Ciò si deve alla teologia scolastica, che iniziatasi con S. Anselmo (morto nel 1109) attinse il suo apice con S. Tommaso d'Aquino (morto nel 1274). La parte che ebbe maggior bisogno di essere completata fu la storia dei sacramenti. Nei secoli IX-XI fu assai agitata la questione sul contenuto dell'Eucaristia, se fosse il vero corpo e sangue di Cristo (Radberto Pascasio, morto nell'860; Lanfranco priore di Bec poi vescovo di Canterbury, morto nel 1089; il suo discepolo Guitmondo di Aversa) ovvero un puro simbolo (dubbiamente Rabano vescovo di Magonza, Ratramno, certamente Berengario, morto nel 1088). La questione fu determinata nel 1215 dal IV Concilio Lateranense sotto Innocenzo III, il quale definì il dogma della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia per mezzo della transustanziazione; così fu completato il dogma cristologico, garantendo alla pietà cristiana sia il possesso della persona divina sotto l'umanità di Cristo, sia quello della sua umanità sotto le specie sacramentali. Anche la questione della confessione, se fosse libera come una tra le altre opere di penitenza (Abelardo), ovvero necessaria condizione per l'assoluzione dei peccati (Ugo da S. Vittore), fu definita, ma per la semplice via teologica, cioè per la decisione data nel secondo senso dal libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Questi nel Medioevo ebbe in teologia la stessa autorità che nel diritto gli scritti dei grandi giureconsulti antichi; fu il primo a determinare il numero dei sacramenti, i particolari loro effetti e i loro legittimi ministri. Ma il merito principale della teologia medievale è stato quello di avere costruito un grandioso sistema, in cui i dogmi sono strettamente legati tra loro e di più illustrati e completati per mezzo della filosofia; così si è avuto non solo un numero più o meno largo di singoli dogmi, ma il dogma come un'organica unità di verità rivelate. Ciò fu tentato in varî modi; ma il sistema che prevalse su tutti fu quello di Tommaso d'Aquino, che assunto dal concilio di Trento a base delle sue decisioni, si può eonsiderare come ufficialmente approvato ed equivalente in sostanza alla stessa dottrina cattolica.
Nella terza epoca - la moderna - prima il protestantesimo e poi il razionalismo hanno impugnato, non isolatamente questo o quel dogma, ma il dogma per sé medesimo; onde la Chiesa, per difenderlo, ha dovuto cominciare dal definire il concetto stesso di rivelazione e determinare le sue basi. Per il concetto di rivelazione, di nuovo ha soccorso ed è stato decisivo il giudizio di S. Tommaso. Prima di lui l'agostinianismo, professato generalmente dalle scuole medievali, fondato alla sua volta sulla filosofia neoplatonica, aveva reso corrente un concetto mistico della cognizione umana come effetto dell'illuminazione interiore e immediata del Verbo divino, che incarnatosi in Cristo anche con la parola esteriore ha reso più facile e chiara l'apprensione delle verità divine; onde la rivelazione e la cognizione naturale non sarebbero essenzialmente diverse, ma la prima preparerebbe la seconda, e la seconda compirebbe la prima, e da qui il motto allora assai diffuso credo ut intelligam. Ma S. Tommaso, col sostituire la filosofia di Aristotele a quella di Platone, ha distinto nettamente tra la ragione e la fede: la ragione che conosce direttamente e col proprio lume per mezzo dell'astrazione solo le idee e le verità contenute nei dati sensibili, la fede che conosce invece le verità soprannaturali proprie di Dio, non direttamente però ma per mezzo del lume della rivelazione; onde la ragione precede la fede, in quanto necessaria a dimostrare i preambula fidei, cioè la possibilità e il fatto della rivelazione, e quindi l'inversione del motto sopracitato, intelligout credam. Con questo rivolgimento nel processo della fede, il dogma, sottratto alle incertezze e variabilità della cognizione individuale, è stato ristretto al campo obiettivo delle verità rivelate, di esclusiva competenza del magistero ecclesiastico, il quale però indirettamente giudica anche delle verità della ragione, che preparano o in qualsiasi modo sono connesse con l'atto di fede. Questa è la dottrina della rivelazione che il concilio di Trento ha accettato insieme con l'intero sistema di S. Tommaso, e che il concilio Vaticano ha dichiarato e svolto nella costituzione De fide catholica, e ha portato a compimento con la definizione dell'infallibilità pontificia.
Anche per l'altro lato, riguardante i principî dell'azione morale, la grazia efficace di Dio e la libera volontà dell'uomo, l'agostinianismo qual'era esposto da Baio e da Giansenio (v.), fu condannato da Pio V nel 1567 e da Innocenzo X nel 1653, in favore di una maggiore libertà e responsabilità della volontà umana, e sulla base di una più netta distinzione tra l'ordine naturale e soprannaturale. Così il processo evolutivo del dogma ha finito col consolidare sempre più l'autorità della Chiesa, e assicurare il suo esercizio nel campo della fede e della morale.
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