Abstract
Si analizza il tema delle misure coercitive che l’ordinamento mette a disposizione del creditore per ottenere l’esatto adempimento delle obbligazioni di fare o non fare di carattere infungibile rimaste inadempiute. Oggetto principale delle riflessioni è quindi costituito dal nuovo art. 614 bis c.p.c., attesa la sua portata applicativa generale. Il nuovo articolo, introdotto dalla l. n. 69/2009, pur essendo il frutto di meritevoli intenzioni da parte del legislatore, non va esente da critiche sia tecniche che di rilevanza costituzionale. Si affrontano quindi i più spinosi profili problematici del nuovo istituto nel più ampio quadro segnato dalla teoria generale del diritto e dalle esperienze maturate negli ordinamenti stranieri.
La priorità logico giuridica dell’esatto adempimento per l’intero universo delle obbligazioni civili, se non deve essere un mero flatus vocis, esige in linea di principio il ricorso all’uso della forza statale allo scopo di far ottenere al creditore la prestazione dovuta quando eserciti l’azione contro l’obbligato inadempiente.
L’uso della forza si deve peraltro strutturare secondo modalità diverse a seconda del tipo di obbligazione. Più precisamente a seconda che si tratti di obbligazioni fungibili ovvero di obbligazioni infungibili. Senza bisogno di entrare qui nel merito delle risalenti discussioni su questa dicotomia, è sufficiente ai nostri fini definire come fungibili quelle obbligazioni di fronte al cui inadempimento il creditore munito di titolo esecutivo può rivolgersi allo Stato per ottenere che si sostituisca al debitore nel fargli ottenere la prestazione. Siamo in presenza dell’esecuzione forzata c.d. per surrogazione, nelle sue forme disciplinate dal quarto libro del codice di procedura civile: esecuzione per espropriazione, per consegna, per rilascio, degli obblighi di fare e non fare.
Con riferimento all’ultima categoria nasce il problema dell’infungibilità. Si tratta delle obbligazioni di fare il cui inadempimento non può venir surrogato tramite l’intervento degli organi esecutivi e delle obbligazioni di non fare il cui inadempimento non si manifesti nella costruzione di un’opera suscettibile di venir distrutta sotto il controllo dei medesimi organi.
Nasce qui la tematica della c.d. esecuzione indiretta, o, come oggi si preferisce dire, delle misure coercitive. Si tratta di minacciare una sanzione all’obbligato affinché egli si convinca dell’opportunità di adempiere “spontaneamente” l’obbligazione infungibile dedotta in giudizio. Inutile precisare che anche l’esecuzione per surrogazione ha una funzione “laterale” di natura compulsoria, nel senso che la minaccia della sua attivazione oltre che della sua prosecuzione fino all’esito finale è idonea a premere sull’esecutato inducendolo ad adempiere spontaneamente, se può.
Il principio sopra ricordato deve peraltro lasciar spazio alle eccezioni. Vi sono obbligazioni infungibili il cui inadempimento lascia aperto lo spazio soltanto all’azione risarcitoria. E altre in cui neppure questa è consentita, cosicché esse sono da classificare nel novero delle obbligazioni naturali. Si tratta, ne vedremo esempi più avanti, di obbligazioni dove la coercizione all’esatto adempimento urta contro valori dove la libertà di determinazione dell’individuo prevale rispetto agli impegni assunti, dai quali può sciogliersi con il pagamento una tantum di una somma di denaro, calcolata secondo la disciplina della responsabilità civile o addirittura senza che gli possa venir irrogata alcuna sanzione.
Quando invece la misura coercitiva sia consentita, la relativa sanzione può riguardare la persona dell’obbligato con la privazione della libertà oppure avere natura pecuniaria, indirizzandosi contro il suo patrimonio, con continuità aggredito fino a quando egli non si determini all’esatto adempimento dell’obbligazione.
L’ordinamento italiano, malgrado l’interesse dimostrato in dottrina nei confronti della c.d. priorità logico giuridica dell’esatto adempimento delle obbligazioni infungibili e dei meccanismi per assicurarlo, e l’esempio dei vicini d’Oltralpe che prima per diritto giurisprudenziale nel XIX secolo e poi per intervento legislativo all’inizio del XX avevano introdotto una figura generale di misura coercitiva, doveva aspettare l’ingresso nel XXI secolo per colmare la lacuna.
Si tratta del nuovo art. 614 bis c.p.c., fondatamente salutato come il più importante intervento di una recente legge di riforma del processo civile, la 18.6.2009, n. 69. Si è sottolineato che finalmente vengono adempiuti i voti della cultura processualcivilistica che da decenni invoca l’introduzione di misure coercitive per assicurare l’adempimento delle obbligazioni civili non suscettibili di esecuzione per surrogazione. Così da adeguare il nostro ordinamento a quanto già previsto sia pure con modalità funzionali e strutturali tra loro molto diverse in numerosi altri ordinamenti dell’Unione europea, a cominciare dalla Francia, come appena accennato (per un ampio panorama comparativo cfr. Vullo, E., L’esecuzione indiretta fra Italia, Francia e Unione europea, in Riv. dir. proc., 2004, 727 ss.).
La scelta si è ispirata al modello francese delle astreintes: la sanzione per il provvedimento di condanna ineseguito è esclusivamente pecuniaria. Malgrado il legislatore si sia dimenticato di precisarlo, la relativa somma di denaro sarà devoluta al creditore.
Una scelta da approvare. La diversa soluzione degli ordinamenti anglogermanici (penalità sia pecuniarie, che di restrizione della libertà, graduabili a seconda della gravità dell’inesecuzione, concepita come violazione dell’autorità della sentenza – Verletzung des Königs secondo l’icastica formula medioevale tedesca) rappresenta un relitto dei tempi feudali (cfr. Lukacs, G., La distruzione della ragione, trad. it, Torino, 1960, 46 ss.) che ha dato luogo a delicati problemi applicativi per tener conto dell’evoluzione storica: in Germania, con interpretazioni fortemente restrittive della disciplina delle c.d. Strafordnungen previste dai §§ 888 e 890 ZPO, arrivandosi ad abrogare il dovere del giudice, ivi sancito, di irrogare la penalità in caso di inesecuzione della condanna a un fare o non fare, sostituendolo con un potere discrezionale; negli Stati Uniti, con interventi legislativi in materia di Injunctions nei conflitti di lavoro, indirizzati a por fine a prassi giurisprudenziali contrastanti con i valori di una moderna democrazia industriale; in Inghilterra con sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo a protezione del diritto costituzionale alla libertà di informazione (per approfondimenti su queste tematiche cfr, se vuoi, Chiarloni, S., Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980, rispettivamente, 97 ss, 241 ss., 240 s.).
Approvata la scelta, nascono i problemi. Buone le intenzioni, problematici i risultati, vien da esclamare, di fronte alle numerose questioni interpretative presentate dal testo, difficilmente risolvibili con un buon margine di sicurezza.
La prima di esse, immediatamente rilevata dai commentatori, riguarda il contrasto tra la rubrica e il dettato dell’art. 614 bis. Mentre la rubrica recita «Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare», il testo parla di fissazione della misura coercitiva per i provvedimenti di condanna in genere. La maggioranza della dottrina (tra altri, Merlin, E., Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009, 1548 s.) ha ritenuto che non sia possibile in questo caso far leva sul canone della prevalenza del testo sulla rubrica per concludere che le misure coercitive possono venir fissate per qualunque provvedimento di condanna, malgrado in sede di lavori preparatori fosse emersa una tendenza alla universalizzazione delle misure, anche con riferimento alle condanne suscettibili di esecuzione forzata per espropriazione. Avevo a suo tempo condiviso la tesi restrittiva, che limita l’applicazione della norma secondo le indicazioni della rubrica (cfr. il mio Aggiornamento alla l. 18 giugno 2009 in Le recenti riforme del processo civile, Bologna, 2009, 18). Ritenevo sia che l’intentio legis andasse semplicemente nel senso di voler estendere uno strumento che ha già conosciuto applicazioni nel nostro ordinamento per casi particolari di obbligazioni di fare infungibili e non fare (l’art. 156, co. 6, e 342 bis ss. c.c.; art. 2600 c.c.; artt. 18, co. 2, e 28, co. 4-5, st. lav.; l’art. 140, co. 7, c. cons.; artt. 124 e 131 c.p.i.), sia che la collocazione della norma, all’interno del capo dedicato all’esecuzione specifica degli obblighi di fare e non fare, deponesse a favore della medesima conclusione.
Ritengo ora di dover modificare la precedente opinione. Non già nel senso che la nuova misura coercitiva sia applicabile a qualsiasi provvedimento di condanna. Bensì nel senso che essa sia applicabile ai provvedimenti di condanna che abbiano ad oggetto un fare o un non fare, sia esso suscettibile o no di esecuzione per surrogazione. Ritengo pertanto errata l’opinione, emersa in dottrina (v. per tutti Borré, G., Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966, 1366, nt. 188), secondo cui esisterebbe un nesso di alternazione esclusiva tra esecuzione per surrogazione ed esecuzione indiretta, nel senso che dove sia prevista la prima, non possa trovare ingresso la seconda e viceversa. Non è vero che il “correlato logico” della figura dell’esecuzione indiretta starebbe nell’infungibilità della prestazione dovuta. Può esistere solo un nesso storico, nel senso che in alcuni ordinamenti, come quello tedesco, misure esecutive indirette sono sopravvissute dove non è possibile l’esecuzione per surrogazione. Ma in altri ordinamenti, come quello francese, le astreintes possono venir comminate anche con riferimento ad obblighi eseguibili per surrogazione.
Do così prevalenza al testo rispetto alla rubrica, ma interpretato alla luce della sua collocazione sistematica che lo vede inserito all’interno della disciplina dell’esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare.
Ritengo questa conclusione opportuna sotto svariati profili.
In primo luogo l’applicazione della misura risulta semplificata tutte le volte che sia incerta la classificazione di un’obbligazione di fare (se fungibile o infungibile). In secondo luogo lo stesso accade se la prestazione sia una prestazione complessa che comprende sia aspetti fungibili cher aspetti infungibili. In terzo luogo l’applicazione della misura risulta consentita quando la violazione di un obbligo originario di non fare (per sua natura sempre infungibile) ha dato luogo ad un obbligo derivato di disfare, consentendo così un trattamento equivalente di tutti gli obblighi originari di non fare, tanto se ha dato luogo all’obbligo derivato in parola, quanto se no.
A parte questi evidenti vantaggi della soluzione interpretativa qui proposta, vale anche la pena di prendere in considerazione l’importanza dell’esecuzione spontanea del provvedimento di condanna a fare o disfare “incoraggiata” dalla misura coercitiva, di fronte alle particolari complicazioni che connotano quasi sempre l’esecuzione per surrogazione ad opera degli organi esecutivi.
Aggiungo che, con qualche audacia, ritengo si possa applicare la misura, come avviene in Francia, nel caso di inesecuzione di obblighi di consegna di una cosa mobile determinata, almeno per il caso di insuccesso dell’esecuzione in forma specifica. È vero che tradizionalmente l’obbligazione di consegna è classificata tra le obbligazioni di dare. Ma è anche vero che essa si manifesta in un’attività materiale dell’obbligato, in un fare latamente inteso. Ma soprattutto è vero che se l’obbligato ha occultato la cosa da consegnare così da frustrare l’esecuzione diretta, l’obbligazione manifesta in concreto la sua infungibilità, nel senso che essa si rivela come adempibile esclusivamente dall’obbligato stesso.
Una lettura indiretta del testo della norma sembra suggerire che qualsiasi provvedimento contenente l’accertamento di una obbligazione civile può venir qualificato come un provvedimento di condanna all’adempimento quando la domanda dell’attore sia in tal senso orientata. Ciò risulta dalla clausola di esordio, che parla di provvedimento di condanna assumendo la possibilità che esso non sia eseguibile né per surrogazione né per via di esecuzione indiretta, nel caso in cui il giudice ritenga di non applicare la richiesta misura coercitiva pecuniaria perché «manifestamente iniqu[a]», ambiguo requisito sul quale ci intratteremo più avanti.
Si potrebbe avere insomma, contrariamente a quanto esigono la teoria generale del diritto (V. Kelsen, H., La dottrina pura del diritto, trad. it., Torino, 1966, 14), ma anche il senso comune attento alle connotazioni semantiche, una “condanna” priva di qualsiasi sanzione. Questo errore definitorio ora, per la prima volta, fatto proprio dal legislatore, ma di sicuro inconsapevolmente, cosicché non se ne può ricavare alcuna conseguenza giuridica (ma contra, nel senso che, in assenza di istanza di astreinte, la condanna ad una prestazione infungibile diviene oggi comunque possibile, a prescindere dalla sua eseguibilità, Zucconi Galli Fonseca, E., Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in www.judicium.it, § 4; ugualmente orientato Bove, M., Brevi riflessioni sui lavori in corso sul riaperto cantiere della giustizia civile, ivi, § 15), ha un precedente. La ZPO tedesca del 1879 al secondo comma del § 888 prevede l’inapplicabilità delle misure coercitive sul patrimonio o sulla persona «nel caso di condanna a contrarre matrimonio, a porre in essere la vita coniugale o a prestare opera in base a un contratto di servizio». Il concetto di condanna viene qui mantenuto nel momento stesso in cui lo si nega, sancendo l’esclusione della sanzione, un tempo anche per quegli obblighi prevista. Si capisce allora come mai, influenzato dalla dottrina tedesca che parlava indifferentemente di Leistungsurteil e di Verurteilungsurteil nei primi tempi di applicazione del codice, Chiovenda poteva scrivere «si può essere condannati a tutto ciò che si è tenuti a prestare» (Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, rist. 1960, 167), salvo poi riconoscere altrove l’ovvio e cioè che «quando un bene, per sua natura e per mancanza dei mezzi di surrogazione consentiti dalla legge non può conseguirsi se non con l’esecuzione in via di coazione, e i mezzi di coazione non sono consentiti dalla legge, quel bene non è praticamente [corsivo mio] conseguibile nel processo» (op. cit., 249). Anche in teoria, oserei aggiungere, con quel che ne consegue sul piano dell’interesse ad agire, che esisterà in solo accertamento, salvo l’esercizio dell’azione di condanna per un eventuale risarcimento dei danni, ove ne esistano i presupposti.
Val la pena a questo proposito di sottolineare che l’obbiettivo di obbligazioni infungibili di fare o di non fare insuscettibili di esecuzione indiretta e addirittura, in qualche caso isolato, di risarcimento del danno è il risultato di un processo storico. Che ha a che fare con la progressiva liberazione dai vincoli feudali e l’affermazione dei principi di libertà. Il concetto di obbligazione di fare infungibile è insomma un concetto storicamente determinato. Oggi esistono obbligazioni di tal tipo per le quali, ancora in tempi non troppo lontani, era prevista l’esecuzione in forma specifica.
Ricordo due esempi relativi alla condizione di inferiorità giuridica della donna, il primo perpetuatosi in pieno XIX secolo. In Francia, molti decenni dopo la rivoluzione, civilisti illustri non dubitavano dell’esistenza di un diritto assoluto del marito sulla persona della moglie, per cui era indubitabile la eseguibilità manu militari, in caso di sua inottemperanza all’ordine giudiziale di tornare al domicilio coniugale. Con qualche risvolto folcloristico. Da eseguire, con discrezione, secondo la giurisprudenza: «L’ufficiale giudiziario, accompagnato da due agenti senza uniforme, si presenterà con una carrozza chiusa alla dimora della moglie, possibilmente di notte, e la porterà con sé per consegnarla al marito». In Germania per tutto il basso medioevo si aveva addirittura la coercizione diretta dell’obbligo di contrarre matrimonio, a seguito della promessa. La renitente «wird in die Kirche geschleppt, hand in hand gegeben und der diaconus sagt ex mandato Serenissimi das ja».
Ancora: sempre in Germania, malgrado il secondo comma del § 888 ZPO prevedesse in linea generale l’inapplicabilità della Zwangstrafe ivi prevista al primo comma alle «condanne» a prestare opera in base ad un contratto di servizio, le varie Gesindeordnungen territoriali, continuavano a prevedere, per il caso di fuga, l’accompagnamento coatto sul luogo di lavoro dei domestici e di molte altre categorie di lavoratori manuali e la prigione per il caso di reiterazione della fuga. Disposizioni abrogate solo il 12 dicembre 1918 a seguito dei moti rivoluzionari successivi alla sconfitta nella prima guerra mondiale.
A tacere dell’esecuzione specifica, oggi impensabile, di questi ultimi obblighi, li ho ricordati, perché, a mio giudizio, non si può oggi per essi neanche pensare ad una condanna all’adempimento assistita da qualunque mezzo di esecuzione indiretta. Quanto poi ai primi due, oggi non è pensabile né una qualche forma di Leistungsurteil, né un’azione derivata di risarcimento del danno, in caso di accertamento del relativo obbligo, che potrà avvenire esclusivamente ad altri fini, come la restituzione dei doni o la declaratoria di separazione con addebito.
Mi aspetta al varco un’obiezione. La sentenza che accerta un obbligo sostanziale infungibile, qualificata come condanna nella formula adottata dal dispositivo anche se insuscettibile di esecuzione indiretta consentirà sempre, l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. La risposta non può che essere metodologica, alla luce di quanto rilevato finora. Non è lecito collocare a punto di partenza dell’indagine un assunto che dovrebbe costituire l’esito di un processo dimostrativo. Non è lecito, quindi, affermare apoditticamente che l’ “essenza” del concetto di condanna sta nell’accertamento della pretesa ad una prestazione, di qualunque tipo essa sia, anche se non è previsto alcun tipo di sanzione per il caso di mancata esecuzione spontanea. Così da poter, ad esempio, arrivare ad affermare, discutendo dell’inibitoria in materia di concorrenza sleale ex art. 2599 c.c. che il legislatore si sarebbe «dimenticato» di disciplinare le modalità attraverso cui «garantire l’attuazione» di questa forma di tutela di condanna (così Proto Pisani, A., Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1154).
Dal punto di vista di una posizione che non voglia cadere nell’errore logico della quaternio terminorum proprio della Begriffsjurisprudenz (cfr. Heck, P., Begriffsbildung und Interessenjurisprudenz, Tübingen, 1932, 92 e 166 ss.), il procedimento argomentativo deve essere inverso, inducendo gli effetti giuridici da un esame del contesto normativo e poi concettualizzandoli in un Ordnungsbegriff.
Così operando, ci rendiamo subito conto che quest’inibitoria, senza sanzione prima del 2009, era nient’altro che una sorta di sentenza di accertamento in futuro, nel senso che dall’ordine impartito nel dispositivo risulta semplicemente che, in caso di reiterazione del comportamento inibito, il giudice successivo non aveva che da accertarne l’accadimento, senza poterne mettere in discussione il disvalore giuridico, con tutte le relative conseguenze, ad esempio risarcitorie.
Orbene, se la sentenza relativa ad obblighi infungibili non è asssitita da mezzi di coazione, essa non potrà mai essere una sentenza di condanna nel senso del legislatore, quale che sia il linguaggio usato e non potrà costituire titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale (contrario il parere di Proto Pisani, A., op. cit., 1161 ss.): sarà una sentenza di accertamento, come aveva già compreso Calamandrei (La condanna, in Studi in onore di F. Cammeo, Padova, 1933, 13 dell’estratto). Né può indurre ad opposta soluzione il testo del nuovo art. 614 bis, inconsapevolmente caduto nella trappola della Leistungsurteil.
Poiché nelle norme processuali il tempo indicativo rappresenta un potere dovere dell’organo giurisdizionale, se ci fermassimo dove il nuovo art 614 bis dice «il giudice … fissa, su richiesta di parte» la misura coercitiva, dovremmo pensare che il legislatore si è allontanato dai precedenti, italiani e stranieri, che al giudice attribuiscono un potere discrezionale di concessione della misura stessa. Ma non è così. Il giudice deve sì concedere la misura, ma se e solo se «ciò non sia manifestamente iniquo». Certo, la formula è alquanto infelice (cfr, nello stesso senso, Carratta, A., L’esecuzione forzata indiretta delle obbligazioni di fare infungibili o di non fare: i limiti delle misure coercitive dell’art. 614 bis c.p.c., in www.treccani.it/Portale/sito/diritto, 3). Forse che il giudice deve fissare la somma di denaro dovuta dall’obbligato, se l’iniquità esiste, ma non è manifesta? E poi, cosa significa “iniquo”? forse non equo nel bilanciare l’interesse del creditore all’adempimento e il sacrificio richiesto al debitore? O forse malvagio? Ma non vale la pena di addentrarsi in questi indovinelli semantici. Possiamo ragionevolmente aspettarci che, prima ancora le domande di parte, e poi comunque l’elaborazione giurisprudenziale, nel fissare i parametri dell’iniquità, non si discosteranno dalle esperienza di altri paesi, dove le misure coercitive indirizzate all’adempimento dei provvedimenti che condannano ad un fare o a un non fare sono affidate alla discrezionalità giurisdizionale. Discrezionalità rigorosa, vista la casistica non troppo ricca a disposizione.
L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 614 bis esclude l’applicabilità della misura coercitiva nelle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409. Tanto per cominciare va sottolineato che la norma non fa cenno delle controversie di lavoro autonomo (lo rileva Merlin, E., op. cit., 1557, sottolineando l’assurdità della differenziazone tra le due categorie di lavoratori), dove le obbligazioni di fare del lavoratore devono affidarsi al giudizio discrezionale del giudice. Anche se mi aspetto che la pressione sulla libertà di determinazione del lavoratore autonomo, sia manuale che intellettuale, in relazione a controversie per le quali è largamente sufficiente l’eventuale risarcimento del danno procurato dall’inadempimento al committente orienterà la giurisprudenza (se mai ne verrà investita) a ritenere iniqua la misura, abbiamo qui un primo dubbio di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza. Il secondo dubbio è più grave. L’utilità ovvia della misura coercitiva nei confronti delle obbligazioni di fare del datore di lavoro aveva originato il dibattito sull’istituto negli anni Ottanta del secolo scorso. Essa veniva propugnata come un importante aspetto della legislazione di sostegno della parte debole del rapporto e aveva dato luogo ad audaci operazioni interpretative (ad opera di Proto Pisani, A., op. cit., passim) volte ad applicare alcune norme penali, direi a causa della mancanza di misure coercitive civili, limitate nello statuto dei lavoratori alla tutela dei rappresentanti sindacali aziendali illegittimamente licenziati. Poiché le obbligazioni di fare del datore di lavoro non sono generalmente connotate «da alcun elemento di coinvolgimento personale o intellettuale» (Merlin, E., op. cit., 1556) risulta evidente l’assolutamente irragionevole disparità di trattamento con le altre obbligazioni dello stesso tipo (cfr., al riguardo, le osservazioni di Proto Pisani, A., che parla di «scelta tipicamente classista» in Ancora una legge di riforma a costo zero del processo civile, Appendice alle Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2009, 4; Bove, M., La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 784 ritiene la disposizione «irragionevole»). Quanto alle obbligazioni del lavoratore occorre distinguere: le obbligazioni di non fare (ad esempio, l’obbligo di non concorrenza) avrebbero potuto venir sottoposte alla misura senza problemi. Quanto invece alla obbligazione della prestazione di lavoro la consapevolezza che essa non può venir sottoposta a compulsione è intuitiva dal punto di vista dei valori di libertà; tanto è vero che la relativa probizione risale, come abbiamo visto addirittura alla ZPO del 1877.
«Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza» (e anche per ogni ritardo, il legislatore se ne è dimenticato, ma possiamo ascriverlo a un ampio concetto di inosservanza). Siamo di fronte ad una condanna in futuro, senza necessità di un nuovo giudizio per la formazione del titolo esecutivo. Una grossa semplificazione, anche rispetto alla proposta, contenuta nel progetto di nuovo codice di rito redatto sotto la direzione di Andrea Proto Pisani, di accertamento successivo nelle forme del procedimento sommario. La scelta non dovrebbe destare soverchie perplessità, poiché il diritto di difesa del debitore è assicurato dall’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., se intende contestare la verificazione dell’inadempimento, o qualche errore di quantificazione della misura operata nel precetto dal creditore. Vi è solo da rilevare che il creditore dovrà analiticamente precisare nel precetto, a pena di nullità ex art. 156 c.p.c. (così Merlin, E., op. cit., 1551), con una sorta di autocertificazione, gli episodi che hanno dato origine all’obbligo di pagare le somme a suo tempo indicate dal giudice e che l’onere della prova in caso di opposizione graverà su di lui, salvo l’applicazione del principio negativa non sunt probanda.
Oltre a quelli fin qui esaminati, già i primi commentatori hanno individuato una serie di problemi intepretativi, che ci limitiamo a ricordare, esprimendo una rapida opinione.
Si discute se la misura coercitiva sia applicabile a tutti i provvedimenti condannatori o esclusivamente alle sentenze di condanna; se essa sia irrogabile anche con il lodo arbittrale rituale; oppure con il relativo decreto giudiziale di omologa; oppure ancora con il verbale di conciliazione giudiziale; quale sia il momento ultimo per la presentazione dell’istanza e se essa sia presentabile per la prima volta in appello (e, aggiungerei, nel giudizio di rinvio); se la concessione o il rifiuto della misura siano sindacabili in sede di impugnazione; se la relativa somma sia da restituire al convenuto che vince in detta sede.
Credo che, entro i suoi limiti, la misura coercitiva sia applicabile a tutti i provvedimenti di condanna. Non esiste, a mio giudizio, alcuna connessione tra il concetto di condanna civile e l’idoneità del relativo provvedimento alla cosa giudicata. È sufficiente la previsione di una sanzione per il caso di mancata esecuzione spontanea. D’altra parte la giurisprudenza è già orientata in questo senso. I primi provvedimenti (v., ad esempio, Trib. Sant’Angelo dei Lombardi, 14.6.2011, in www.altalex.it) applicano la misura coercitiva a ipotesi di provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. Quanto all’irrogabilità della misura nel lodo arbitrale rituale sono dubbioso. Malgrado la riforma del 2006 abbia molto avvicinato la giustizia privata a quella pubblica, occorre riflettere sulla natura di sanzione compulsoria della misura stessa e sul fatto che, contro i voti di parte della dottrina, non è stato abrogato l’art. 818 c.p.c., che inibisce agli arbitri la concessione di provvedimenti cautelari. Né, d’altra parte, si può ritenere concedibile dal giudice la misura, in sede di omologazione del lodo, visto che, ai sensi dell’art. 825 c.p.c. il tribunale si limita ad accertarne la regolarità formale e, quindi, non può entrare nel merito, allo scopo, ad esempio, di accertare l’equità della misura. Sono convinto poi che il giudice non possa irrogarla in sede di conciliazione giudiziale. Occorre rispettare la lettera della legge che parla di provvedimento, laddove la conciliazione, se pur procurata grazie ai buoni uffici del giudice, ha comunque natura negoziale. Semmai, si potrebbe pensare che anche alla conciliazione giudiziale sia applicabile per via analogica l’art. 11, co. 3, ultima parte, d.lgs. 4.3.2010, n. 28, ai cui sensi l’accordo amichevole raggiunto dalle parti all’esito della procedura di mediazione «può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti, ovvero per il ritardo nel loro adempimento». Quanto alla disciplina dell’istanza ad essa non può di certo applicarsi la disciplina della domanda in materia di preclusioni, malgrado il contrario avviso di taluno. Si tratta di una semplice istanza processuale. La misura coercitiva avrebbe anche potuto venir affidata al potere ufficioso del giudice, come avviene in Francia per l’astreinte e da noi per la condanna alle spese. L’ultimo momento utile per la proposizione dell’istanza sarà dato dalla precisazione delle conclusioni. Resisto così alla tentazione di ritenere la misura concedibile anche se richiesta in comparsa conclusionale, vista la possibilità per l’altra parte di esercitare il diritto di difesa con la memoria di replica. Potrà poi venir chiesta per la prima volta in appello e, se del caso, nel giudizio di rinvio. Nessun dubbio, infine, che rifiuto o concessione della misura siano controllabili in sede di impugnazione e che, nel caso di rovesciamento della vittoria in appello, l’appellante vittorioso abbia diritto alla restituzione delle somme eventualmente pagate. Questo perché la misura non è indirizzata a sanzionare una pretesa violazione dell’autorità della sentenza di primo grado, come avviene negli ordinamenti tedesco-anglosassoni, ma soltanto a stimolare la sua esecuzione spontanea.
Art. 614 bis c.p.c.
Bove, M., La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 781 ss.; Merlin, E., Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009, 1546 ss.; Proto Pisani, A., Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1104 ss.; Vullo, E., L’esecuzione indiretta fra Italia, Francia e Unione europea, in Riv. dir. proc., 2004, 727 ss.