DOLCINO
Sconosciuta è la data della sua nascita, che va collocata presumibilmente nella seconda metà del '200. Variamente indicato ne è il luogo, anche se si può ritenere con una buona fondatezza che fosse nel Novarese: Trontano, Prato Sesia, o Novara stessa.
La precisazione: "Dolcino di Novara", che si trova in alcuni processi bolognesi dei primi anni del '300, è precedente infatti alla sua resistenza armata in quelle zone, e non vi è ragione perciò di dubitare di essa. In alcune testimonianze è detto figlio di prete; una notizia che non vuole certo essere lusinghiera per lui. Non per questo va necessariamente respinta: non era certo una condizione rara ed è attestata anche da un autore, coevo e dei luoghi, come il cosiddetto Anonimo sincrono. I dettagli sugli studi compiuti presso un prete e poi un maestro di grammatica vercellese (il cui nome, riportato da Benvenuto da Imola, corrisponde ad un personaggio che insegnò effettivamente in quello studium) offrono un itinerario biografico di formazione abbastanza comune e possibile: senza essere ulteriormente accertabili appaiono plausibili nella loro puntualità e trovano una conferma nella conoscenza che D. mostra del latino e delle Scritture. Verso il 1290 aderì al movimento degli apostolici, cui aveva dato inizio, intorno al 1260, la predicazione penitenziale di Gerardo Segarelli.
Le notizie sulle origini e lo sviluppo di tale movimento sono fortemente inficiate dalla violenta e irridente polemica di Salimbene, che ne parla a lungo, non solo perché Gerardo era come lui originario di Parma e da lì prese le mosse, ma anche perché ne avverte e ne denuncia il carattere pericolosamente concorrenziale con l'Ordine dei minori: distoglievano infatti i fedeli dalle loro chiese, e, più sottilmente, riproponendo aspetti e caratteristiche delle origini francescane, dovevano riuscire di grave disagio per l'Ordine stesso, ancora fortemente lacerato dalle discussioni su tali temi e fatto oggetto insieme, per i suoi aspetti di "novità", degli attacchi dei maestri di Parigi e del clero secolare. Al di là dell'astioso racconto di Salimbene si intravvede, da parte di Gerardo, dopo il rifiuto dei minori di accoglierlo tra loro, la proposta di un modello di vita fondato sull'imitazione letterale del Vangelo: la povertà, l'itineranza, l'annuncio di penitenza, il rifiuto per il proprio gruppo di un'organizzazione stabile gerarchicamente ordinata, sembrano le sue caratteristiche iniziali. Da ciò il nome di "apostoli" o di "apostolici" - ma anche di "minimi", in probabile, implicito riferimento (critico?, di confronto?) allo sviluppo dei minori - per sé ed i suoi seguaci. L'assenza di temi di polemica o contestazione della realtà ecclesiastica, i loro rapporti con monasteri benedettini e con gli stessi minori, li apparentano a quei gruppi penitenziali di laici che in quei decenni, in forma ancora largamente autonoma, si richiamavano all'esperienza francescana. La volontà di imitazione letterale degli "apostoli" lascia intravvedere tendenze di radicalismo evangelico comuni agli orientamenti e alle attese del periodo. Ma non sembrano emergere nel primo espandersi del movimento componenti specificamente apocalittiche e millenaristiche di derivazione gioachimitica, come avverrà chiaramente in seguito e come il collegamento di Salimbene tra i loro inizi e il fatale 1260 sembrerebbe voler suggerire.
Si diffusero ed ebbero successo anche a Ferrara, Faenza, nella Marca di Ancona. Nel 1266 gli statuti di Parma stabilirono aiuti per gli apostolici come per gli altri Ordini. Lo stesso vescovo raccomandava anni dopo alla carità dei fedeli le "sorelle apostoliche". Il rifiuto di Gerardo di accettare il titolo di loro capo sembra aver causato divisioni e contrasti interni: Salimbene vi individua la causa della loro dispersione. Ma maggior peso nel determinarla ebbe probabilmente la tendenza romana, confermata dal secondo concilio di Lione (1274), di convogliare in ogni modo nei quattro Ordini mendicanti riconosciuti la varietà di tendenze e di movimenti che fermentavano ai loro margini. Non dopo il 1287 (la notizia infatti è data da Salimbene), ma è più probabile pensare agli inizi del movimento, Gerardo fu arrestato una prima volta dal vescovo di Parma in circostanze imprecisate: per le sue stranezze ed oscenità, secondo Salimbene, ma il fatto che poi il prelato lo abbia tenuto per un certo tempo con sé, nel suo palazzo, sembrerebbe indizio di una persistente benevolenza, mal conciliabile con tali imputazioni. Nel 1286 Onorio IV, con la bolla Olim felicis recordationis, decretò lo scioglimento degli apostolici, ed è su tali premesse che quanti di essi persistettero nella loro scelta iniziale si avviarono irrimediabilmente sulla strada della ribellione, divenendo perseguibili come eretici. I successivi arresti di Gerardo, le prime condanne capitali di seguaci del movimento nel corso degli anni '90, si spiegano alla luce di tale situazione e nel più ampio contesto di generale repressione del pauperismo radicale, più o meno legato a memorie francescane, avviato in particolare da Bonifacio VIII. Ma è probabile anche che tali interventi censori e persecutori abbiano provocato una prima formulazione e precisazione di alcuni punti di dottrina - come la negazione che il papa di Roma possa ordinare agli apostolici di abbandonare il tipo di vita da loro professato, o l'affermazione del loro diritto a predicare comunque - e indirizzato il movimento su di una linea di attese e speranze escatologiche, in progressiva alternativa ed antitesi alla realtà ecclesiastica esistente, secondo quanto sembra emergere da una serie di processi bolognesi degli ultimi anni del secolo. E d'altra parte va tenuta presente, nel valutare la realtà e i fermenti religiosi di quel periodo, l'esistenza di situazioni di sincretismo e di incontro tra ciò che restava delle antiche Chiese e degli antichi movimenti eterodossi, ormai emarginati e sconfitti, e le nuove inquiete tendenze, non tutte disciplinabili e disciplinate, che si facevano luce sull'onda e al fianco della rinnovata vita religiosa laicale promossa dai mendicanti. Per questo risulta inutile e profondamente svisante lo sforzo di spiegare in termini di dottrina coerente e sistematica tutte le domande e le affermazioni contenute nei processi, che risentono appunto di tale consapevolezza degli inquisitori ed insieme della loro tendenza a dare una rigida forma dottrinale a esperienze e situazioni ben altrimenti imprecisate e confuse.
Gerardo Segarelli, dopo aver trascorso gli ultimi anni in prigionia, fu bruciato a Parma nel luglio del 1300. Il mese seguente D., come capo dell'Ordine, indirizzò una lettera - la prima che di lui ci sia pervenuta nel sommario offerto da Bernardo Gui - a tutti i fedeli di Cristo. Tale iniziativa, ed il ruolo che manifesta, presuppongono un'autorevolezza ed un prestigio già raggiunti: ma nulla di preciso ci è noto al riguardo, né il suo nome figura nei processi contro gli apostolici degli anni precedenti. La notizia, data dall'Anonimo sincrono, che per ben tre volte, prima del suo arrivo in Piemonte (1304), egli sarebbe stato catturato dall'Inquisizione e costretto all'abiura, non trova altri riscontri e riesce incredibile in questi termini, presupponendo una indulgente longanimità che non era di quel tribunale. Questa sua lettera, dunque, è il primo atto che ci risulti del breve e intenso periodo in cui D. fu protagonista del movimento degli apostolici.
La lettera ci è nota solo attraverso il riassunto - nemmeno esso integrale - offerto da Bernardo Gui. Netta ormai appare la prospettiva escatologica, che riprende temi della tradizione gioachimitica e attese comuni ai gruppi variamente emarginati dal contesto ecclesiastico dominante, che ad essa del resto si richiamavano: la completa imminente rigenerazione della Chiesa, grazie all'avvento di un papa santo, l'individuazione negli apostolici del primo nucleo della futura Chiesa spirituale che dopo molte persecuzioni avrà il sopravvento, lo sterminio di tutti i cattivi prelati ad opera dell'imperatore degli ultimi tempi, che pare individuato in Federico d'Aragona. La storia della salvezza viene scandita in quattro età. La prima fu quella dei patriarchi. La seconda ebbe inizio con Cristo e con gli apostoli, durando sino alla conversione di Costantino: in essa la Chiesa era povera e senza proprietà e la verginità e la castità erano preferite al matrimonio. La terza iniziò col papa Silvestro, quando fu preferibile per la Chiesa possedere beni, a testimonianza dell'avvenuta conversione dei popoli alla fede, e fu necessario esercitare il governo per tenerli legati a sé; durante tale età il monachesimo, fondato da s. Benedetto, rappresentò una reazione alla decadenza introdotta nella Chiesa da questo modo di vivere. Ma quando anche i monaci tralignarono Francesco e Domenico apersero la terza età, mostrandosi ancor più restrittivi nei confronti del possesso dei beni terreni e del dominio temporale di quanto non lo fosse stato Benedetto. La decadenza dei loro seguaci e la corruzione generale della Chiesa impongono il ritorno al vivere apostolico riproposto da Gerardo Segarelli, che apre così la quarta età inaugurando una condizione che durerà sino alla fine del mondo. A tale scansione corrisponde un'esegesi di Apocalisse, 2-3, con l'individuazione dei sette angeli, negli ultimi dei quali sono prefigurati Gerardo, D. e il futuro papa santo.
Non si sa dove D. scrisse questa lettera, corredata di molti versetti scritturistici, pochi dei quali sono esplicitamente ricordati da Bernardo Gui. Essa dovette godere di larga diffusione tra gli apostolici, perché molti suoi temi risultano presenti nelle risposte degli imputati nei processi di quegli anni. Sempre nel 1300 D. dovette passare e forse trattenersi per un certo tempo a Bologna, ma non si sa invece se assistette al rogo di Gerardo, come qualcuno ha voluto ipotizzare. Nel 1302-1303 è segnalato nella diocesi di Trento e nella zona del Garda, e per un certo periodo si trattenne certamente ad Arco, "dove non vi fu brava persona che non ospitasse gli apostolici", com'è detto in un processo trentino di parecchi anni dopo.
Erano chiamati frati ed anche questo è un indizio della percezione con cui erano visti e accolti. Sono anni in cui più serrata si va facendo, da parte dell'Inquisizione, la caccia agli apostolici, che risulterebbero di non irrilevante consistenza (4.000 aderenti nel 1303), anche se le cifre, come sempre, vanno prese con beneficio d'inventario: resta il fatto di una fascia di simpatizzanti di una certa estensione, a giudicare dai processi, coevi o degli anni successivi, che attestano della larga ospitalità e dei soccorsi loro prestati pur senza appartenere al movimento. Del dicembre 1303 è la seconda lettera di D., riassunta dal Gui: non sappiamo se scritta ancora dal Trentino o, com'è più probabile, nel corso del suo trasferimento in Piemonte, che dovette avvenire tra il 1303 e il 1304, attraverso le montagne lombarde.
In essa compaiono i nomi di suoi seguaci e discepoli, probabilmente quelli che viaggiavano con lui: sorella Margherita, "a lui più di tutti carissima" - di cui la maldicenza contemporanea e la fantasia posteriore faranno la bellissima compagna della sua vita -, fra' Longino da Bergamo, fra' Federico da Novara, e altri. Le caratteristiche offerte dal Gui sembrano eminentemente profetiche - si tratta probabilmente anche qui di una selezione, che a lui del resto fa buon gioco, per mostrare come nulla di ciò che D. aveva predetto si sia avverato -, sollecitate probabilmente dalla recente rovina di Bonifacio VIII e in vista, parrebbe, di confortare e rassicurare i fratelli e le sorelle: così al papa buono (Celestino V) e al papa cattivo (Bonifacio VIII), dovevano succedere un altro papa cattivo - che, con la sua Curia, sarebbe stato debellato l'anno seguente da Federico di Sicilia - e infine un papa santo, che avrebbe fatto liberare tutti i membri della Congregazione. Nella stessa linea rassicurante l'esegesi che egli offre di Isaia, 16, 14: i "tre anni mercenari" sono il 1303, il 1304 e il 1305; nel primo è stato debellato Bonifacio, nel secondo avverrà lo stesso dei cardinali e del nuovo papa, nel terzo saranno desolati tutti i chierici, monache e religiosi, che nel frattempo saranno scesi sempre più in basso. Dopo di che D. e tutti i suoi fedeli potranno finalmente mostrarsi apertamente.
La sua andata in Piemonte non ha spiegazioni certe. Il frequente spostarsi di D., come degli altri apostolici, a piccoli gruppi, oltre che da ragioni di proselitismo, era certamente reso necessario dall'urgenza di sfuggire alla caccia che ormai veniva loro data; e in effetti l'Anonimo sincrono, che per questo periodo della vita di D. è di gran lunga la fonte principale, così spiega i suoi primi spostamenti dal Vercellese al Novarese. Ma la scelta di quelle zone può essere stata consigliata anche dalla sua conoscenza di esse, se là appunto egli era nato e cresciuto. Resta tuttavia il fatto che la sua presenza in quei luoghi assunse rapidamente altre caratteristiche, mutando profondamente di segno: il peregrinare itinerante a piccoli gruppi, ospitati e nascosti da case amiche, si trasformò in uno spostamento di massa, che convogliava e raggruppava gli aderenti di varie zone. e si organizzava, si difendeva e contrattaccava, e sembrava cercare un suo stanziamento comunitario e antagonista rispetto ai poteri e alle realtà istituzionali della zona. Sono appunto tali aspetti che rendono la vicenda di D. e dei suoi un episodio unico, e per questo affascinante, nella storia dei movimenti ereticali del basso Medioevo, che ha colpito contemporanei e posteri e ne ha fatto, nell'ultimo secolo, occasione e pretesto di polemiche e di verifiche ideologico-politiche.
Nel 1304 dunque D. giunse nella diocesi di Vercelli. A questi suoi ultimi anni molto probabilmente risale una terza lettera da lui scritta, che Bernardo Gui ricorda senza però averla vista: nulla si sa perciò del suo contenuto, e tutto, inutilmente, si può supporre. A Gattinara, e soprattutto a Serravalle, iniziò una coperta attività di proselitismo, che gli valse, a dire dell'Anonimo, numerose adesioni, e provocò in seguito pesanti interventi punitivi su quegli abitanti per il soccorso prestatogli. Scoperto e attivamente ricercato, fuggì in Val Sesia, dove si trattenne più mesi. Vi predicò, si direbbe apertamente, mentre i seguaci cominciarono ad affluirvi da molte parti: indizio anche questo, parrebbe, del maturare di un progetto piuttosto che di una situazione casualmente determinatasi. Tutti si stabilirono poi su di un monte della diocesi novarese, le Balme. Il fatto che vi costruirono case e capanne fa pensare all'idea di una relativa stabilità di stanziamento, ragione e premessa, come si è detto, degli aspetti e dei caratteri nuovi che il movimento venne allora assumendo. Non credo basti ricorrere, per una spiegazione, a motivi di sicurezza: sui monti li spingevano molto probabilmente anche la visione profetica e le attese apocalittiche che D. aveva attivato. L'immagine del monte Sion, "dove vi sarà la salvezza", e sia pure allegoricamente interpretata, è presente nella sua seconda lettera, i testi di Abdia e di Ezechiele, cui egli ricorre, pullulano di indicazioni in questo senso (Orioli); ma si può ricordare anche come l'attesa dello scontro decisivo e risolutore, che era in lui e nei suoi seguaci, potesse trovare nelle stesse parole di Cristo il consiglio di fuggire sui monti all'approssimarsi della grande tribolazione (Matteo, 24,16), per attendere così il compimento degli ultimi atti che egli aveva vaticinato.
Ma la macchina repressiva ed inquisitoriale era più che mai in moto. Forti di bolle papali il vescovo di Vercelli e gli inquisitori riunirono un primo esercito. D. ed i suoi fuggirono notte tempo, facendo credere così di essersi dispersi. Si rifugiarono invece su di un altro monte della zona, la Parete Calva, costruendovi le loro dimore e questa volta fortificandole. Continuavano intanto a giungere altri fedeli da varie parti, e l'Anonimo parla di più di millequattrocento persone che vi si erano raccolte. La necessità di provvedersi di mezzi di sussistenza li spinse a saccheggi e scorrerie nei paesi circostanti. È l'immagine di D. e dei suoi che più di altre resta fissata nel racconto dell'Anonimo - banditi e predoni crudeli e avidi - e che in qualche modo si riflette nello stesso ricordo dantesco, che fa di D. un seminatore di discordie.
La persistente pressione nemica li costrinse a spostarsi nei pressi di Trivero, e infine, stretti dalla fame e dal freddo, si trasferirono, il 10 marzo 1306, per sentieri impervi, sul vicino monte Rubello, di nuovo nella diocesi di Vercelli, che divenne sede della loro ultima disperata resistenza.
Scorrerie, imboscate, veri e propri episodi di guerriglia, caratterizzarono l'ultimo anno di lotta degli apostolici. La loro ingombrante presenza, causa di guerra e di saccheggio, non poteva non inimicare loro anche una parte della popolazione. Il vescovo di Vercelli ottenne da Clemente V le concessioni e i benefici spirituali che venivano riservati ai crociati: l'indulgenza plenaria per quanti avessero preso le armi per combatterli, o per chi, almeno, avesse versato lo stipendio di un mese per pagare un soldato. L'Anonimo non lascia dubbi sull'accanimento con cui D. ed i suoi, stretti in un assedio mortale, si difesero sino all'ultimo. La teorizzazione che egli gli attribuisce della liceità di tale lotta, è, in simili circostanze, del tutto plausibile. Così com'è del tutto plausibile la condizione disperata cui li ridusse lo strettissimo assedio, al punto da costringerli a mangiare i cadaveri per sfamarsi.
Nella settimana di Pasqua del 1307 avvenne l'attacco decisivo. Dopo durissimi combattimenti, il giovedì santo, 13 marzo, D., Margherita e Longino furono catturati vivi. Condotti a Biella al cospetto del vescovo furono posti in carcere con pesanti catene. Dopo aver consultato il papa, si tenne il processo che ovviamente si concluse, vista la fermezza degli imputati, con la loro consegna al braccio secolare. Margherita fu bruciata su di un'alta colonna. D. invece, sottoposto ad orrende torture e mutilazioni, fu fatto girare per le strade e le piazze di Vercelli ad ammaestramento ed ammonimento di tutti. Infine, il 1º giugno 1307, venne bruciato, mentre i resti degli apostolici continuarono ad essere braccati e processati ancora per parecchi decenni.
Fonti e Bibl.: Le fonti principali riguardanti D. sono raccolte da A. Segarizzi nei Rer. Ital. Script., 2 ed., IX, 5: in particolare [Anonimo sincrono], Historia fratris Dulcini heresiarche, pp. 3-13, e B. Gui, De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum, pp. 17-36, oltre a testi minori. Cfr. inoltre per B. Gui, C. Douais, Practica inquisitionis haereticae pravitatis auctore Bernardo Guidonis Ordinis fratrum praedicatorum, Paris 1886, pp. 327-52, riedito integralmente per la parte riguardante gli apostolici in Manuel de l'inquisiteur, a cura di G. Mollat, I, Paris 1964, pp. 84-106 (De secta pseudo-apostolorum). Per Benvenuto da Imola cfr. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, II, Florentiae 1887, pp. 358-63. Per i processi bolognesi cfr. Acta S. Officii Bononie ab anno 1291usque ad annum 1310, a cura di L. Paolini e di R. Orioli, con prefazione di O. Capitani, Roma 1982, in Fonti per la storia d'Italia, CVI, pp. 714. Una buona selezione e raccolta delle fonti riguardanti gli apostolici e D., offerte in traduzione italiana, in Fra' D. Nascita, vita e morte di un'eresia medievale, a cura di R. Orioli, Milano 1983. La letteratura su D. è molto ampia, spesso ispirata a motivi ideologici e politici, anche per essere divenuta la lotta da lui sostenuta in Piemonte terreno di esercitazione e di applicazione di metodi che intendono richiamarsi all'analisi marxiana, spesso irrigidita in schemi semplificatori: su di essa in generale cfr. G. Miccoli, Note sulla fortuna di fra' D., in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, s. 2, XXV (1956), pp. 245-59, e G. Grado Merlo, Il problema di fra' D. negli ultimi vent'anni, in Boll. storico-bibliogr. subalp., LXXII (1974), pp. 701-708. Per il ricordo di lui nel contesto locale cfr. E. Rotelli, Fra' D. e gli apostolici nella storia e nella tradizione, Torino 1979. Contributi più rigorosamente storiografici sono offerti da E. Dupré Theseider, Fra' D. storia e mito, in Bollett. della Soc. di studi valdesi, LXXVII (1958), pp. 5-25; E. Anagnine, D. e il movimento ereticale agli inizi del Trecento, Firenze 1964 (ma la sua stesura è certo precedente di parecchi anni); R. Orioli, L'eresia a Bologna fra XIII e XIV secolo, II, L'eresia dolciniana, Roma 1975; Id., Il mistero D., in Fra' D. Nascita, vita e morte, cit., pp. 9-39 (ampia bibliografia a pp. 243-47). Per la citazione che di D. fa Dante (Divina Commedia, Inf., XXVIII, vv. 55-60) cfr. G. Miccoli, in Enc. dantesca, II, sub voce Dolcino.