Dollaro
«Il dollaro è la nostra moneta, ma il vostro problema» (John Connally)
La crisi del dollaro
di
14 marzo
Il documento stilato al termine del Consiglio Europeo di Bruxelles lancia l’allarme sulla crescita dell’inflazione e sulle conseguenze negative dell’eccessivo rafforzamento dell’euro, la cui quotazione ha raggiunto 1,57 dollari. La divisa statunitense è in forte difficoltà anche rispetto a quella giapponese, con un cambio inferiore a 100 yen per dollaro (il più basso da 12 anni), e alla sterlina, tanto da far mettere in seria discussione il suo ruolo come moneta di scambio internazionale.
Verso la fine dell’egemonia?
Il ruolo del dollaro nell’economia globale è tuttora di grande rilievo, ma nel 2007 e nel 2008 si è tornati a discutere di un suo possibile declino che giunga a porre termine a quella egemonia della valuta americana che Bretton Woods (1944) aveva consacrato. Gli indizi di un declino del dollaro riguardano l’intensità della sua perdita di valore rispetto alle altre principali valute che si è manifestata negli ultimi cinque anni, e la dimensione dello squilibrio dell’economia americana che ne è la causa principale. Combinandosi ciò con il continuo accumularsi di riserve nei paesi petroliferi e negli stessi paesi emergenti che più puntano sulla crescita delle esportazioni, è chiaro perché l’analisi dei flussi finanziari accrediti come possibile un ridimensionamento del ruolo internazionale del dollaro.
In realtà, l’evoluzione nei prossimi anni non è affatto pregiudicata. Per almeno tre motivi. Anzitutto, perché l’esperienza mostra che il dollaro ha già conosciuto ampie fluttuazioni del suo valore esterno, che non ne hanno però ridotto la tradizionale egemonia. In secondo luogo, perché l’economia globale tende a preferire la semplicità: come il monopolio è un sistema più semplice e stabile del duopolio, così una sola moneta internazionale è meglio di due. Infine, perché il dominio del dollaro tuttora riposa su ‘fondamentali’ (la centralità di Wall Street, l’eccellenza nella formazione del capitale umano, il pricing delle principali materie prime, la potenza militare) che non sembrano potere – tutti insieme – sparire presto.
Nel lungo periodo, il graduale ridimensionamento della ‘forza dell’America’ si accompagnerà a una perdita di importanza del dollaro, ma tutto ciò non si preannuncia né prossimo né facile. Venticinque anni fa si discuteva dell’eccessivo apprezzamento del dollaro, e delle sue conseguenze indesiderate. Negli ultimi anni, è avvenuto il contrario: forte deprezzamento del dollaro e sue conseguenze negative. Basta ciò per prevedere che il mondo riuscirà a fare a meno del dollaro?
I vantaggi di una moneta internazionale
In un’economia sempre più globale, crescono i benefici dati da tutto ciò che accomuna: quanto vale per Internet, e per la lingua inglese, vale anche per una moneta che un paese emette mettendola a disposizione del mondo intero. Nel secolo scorso, questo ruolo è stato assunto dal dollaro americano che ha sostituito in quel compito la sterlina inglese. I benefici che ne risultano sono facilmente comprensibili.
Ci aiuta a ragionare sui vantaggi di una moneta internazionale il suggerimento analitico che l’economista inglese John Hicks sviluppò con le cosiddette ‘Due Triadi’. Hicks considerò congiuntamente le 3 funzioni classiche della moneta e i 3 motivi keynesiani che spiegano la domanda di moneta. Ricordiamo che le prime fanno riferimento alle funzioni svolte dalla moneta: come unità di conto (o misura dei valori), come mezzo di pagamento e come riserva di valori. Mentre i motivi per i quali la moneta è domandata riguardano: il motivo delle negoziazioni, quello precauzionale e ancora quello speculativo. Nel contributo analitico di Hicks, è anche chiarito che per il motivo delle negoziazioni (cioè moneta che serve come misura dei valori e mezzo di pagamento) non si può parlare in senso stretto di una ‘domanda’ di moneta. Vi è una certa quantità di moneta ‘necessaria’ perché circoli un certo volume di beni a un dato livello dei prezzi. Domanda di moneta si ha invece per i motivi precauzionali e speculativi, due motivi che diversamente dipendono (il secondo in modo diretto, il primo in modo inverso) dal grado di sviluppo dei mercati finanziari.
Se ragioniamo tenendo conto sia dei costi e benefici di tante monete nazionali (che è poi la teoria dell’optimum currency area iniziata da R. Mundell) sia dei costi e benefici di una sola moneta internazionale, è possibile giungere alla conclusione che la situazione odierna è difficilmente migliorabile. Per situazione odierna intendo quella in cui n-paesi usano ciascuno la propria moneta al loro interno, e tutti usano una sola moneta nei loro scambi internazionali, che è anche la moneta domestica del paese leader. Solo in casi eccezionali, quando il valore della moneta domestica è totalmente inaffidabile, un paese passa a usare la moneta internazionale anche al suo interno, se non come mezzo di pagamento almeno per il motivo precauzionale e per quello speculativo.
È quanto si è osservato con la cosiddetta ‘dollarizzazione’ nei paesi emergenti, e qualcosa di simile si è verificato negli anni scorsi con l’uso della lira (oggi euro) in Romania e del marco tedesco (oggi euro) in Polonia. È più improbabile il processo contrario, cioè l’uso di monete altrui come moneta domestica all’interno del paese leader. In altre parole, e sempre per continuare con l’esempio precedente, mentre in seguito all’apertura di fabbriche italiane in Romania si è diffusa in quel paese la circolazione della lira, nulla di ciò si è visto al seguito degli immigrati italiani negli Stati Uniti.
In conclusione, pur in presenza di tanti motivi che giustificano la permanenza di n-monete domestiche (motivi che la teoria dovuta a Mundell, con le successive integrazioni, ha ben spiegato), è anche evidente (per altri motivi) la convenienza a non impiegare tutte quelle monete, ma a impiegarne una sola, per gli scambi internazionali. È quindi tipico di ciò che è internazionale nella domanda e/o nell’offerta – come lo sono le principali materie prime e le attività finanziarie – richiedere l’uso della moneta internazionale: come numerario, come mezzo di pagamento e come riserva di valore.
Di qui l’abituale definizione che diamo al dollaro: una moneta stampata negli Stati Uniti e usata altrove. Risulta infatti dalle stime della Federal Reserve che i due terzi dei dollari in circolazione sono al di fuori degli Stati Uniti, essendo utilizzati sia per le riserve ufficiali di molti paesi sia per usi privati (più o meno leciti). Il 70% delle riserve ufficiali è costituito da dollari USA. E quelle percentuali non si sono finora ridotte, nonostante ampie fluttuazioni del valore del dollaro. Non è quindi venuto meno il ‘signoraggio’ di cui godono gli Stati Uniti, in quanto produttori di moneta internazionale.
I punti di forza del dollaro
Scrivendo nel 2003 della ‘forza dell’America’, sostenevo che era basata sulla sua supremazia nelle tre S: Sapere, Soldi, Soldati. Con le qualificazioni e gli aggiornamenti del caso, mi sembra che quella diagnosi sia ancora attuale: ciò che misura la potenza scientifica, economica e militare degli Stati Uniti è alla base dell’egemonia della sua moneta. Esaminiamo brevemente ciascuno di quei fattori, per verificare quanto possa continuare a essere importante anche in futuro.
Capitale umano e scienza. Nella storia dell’umanità, abbiamo visto tante volte operare un meccanismo di questo tipo: l’importanza di lungo periodo di un paese dipende dal riuscire ad attrarre il capitale umano più dotato e a valorizzarne il prodotto intellettuale, con la disponibilità di risorse adeguate. È la politica che gli Stati Uniti hanno costantemente perseguito nell’ultimo secolo, e che continuano a realizzare tuttora, mantenendo una rete di università e di centri di ricerca di eccellenza, aperti ai migliori del mondo. Chi visita le loro università più famose si rende conto del fatto che tra gli studenti – e sempre più anche tra i docenti – i nati in America non sono la maggioranza. In altre parole, chi gestisce quelle università e quei centri di ricerca ha ben chiaro l’obiettivo strategico di attrarre il capitale umano migliore possibile, sia per gli studenti sia per i docenti. Non c’è altro paese al mondo, almeno per ora, che persegua questa strategia con altrettanta coerenza e con altrettante risorse. Ciò dà agli Stati Uniti una leadership globale sul piano della ricerca scientifica e quindi dell’innovazione tecnologica che non sarà erosa facilmente. Si può anche osservare che tenendo conto in modo corretto di questo fattore lo squilibrio corrente dei conti con l’estero statunitensi è probabilmente minore di quanto misurato.
Finanza e moneta. Ovviamente non sono solo i cervelli la cosa che conta: contano anche i soldi e più in generale i capitali. Ma anche da questo punto di vista la posizione degli Stati Uniti è tuttora di preminenza. Per due aspetti, in parte complementari. Il primo aspetto che conta è l’uso del dollaro come moneta di quotazione: le materie prime più significative, a cominciare dal petrolio, sono ‘quotate’ in dollari, cioè è la moneta americana il numerario che tutto il mondo utilizza per esprimere il prezzo da pagare per un barile di petrolio, un’oncia d’oro, una tonnellata di grano e così via. L’uso di una moneta come numerario porta con sé una conseguente attività di pagamento, ma anche di finanziamento, di assicurazione e di speculazione. Un pezzo significativo di finanza ha dunque origine dall’importanza del dollaro ai fini del pricing delle principali materie prime. A questo ruolo si aggiunge quello svolto dalla piazza di Wall Street come grande mercato finanziario dove sono quotidianamente scambiati e quindi rilevati i prezzi di moltissimi titoli, azionari e obbligazionari, e dei contratti che su quei titoli possono essere stipulati. Anche il ruolo di Wall Street non è solo domestico, nel senso che sono americani gli operatori, gli acquirenti o i venditori, o sono americani gli emittenti di quei titoli. Perché rivediamo qui lo stesso modello che vediamo nelle università: è tutto il mondo che opera sulla piazza di Wall Street, ed è tutto il mondo che osserva, interpreta e tiene conto di ciò che succede a Wall Street.
Quando il presidente della Federal Reserve si presenta al Congresso e spiega ai parlamentari degli Stati Uniti come prevede l’andamento dell’economia americana e quale pensa che sarà la conseguente reazione della Banca centrale da lui presieduta, è chiaro che ciò avrà ricadute su Wall Street e quindi nel giro di pochi secondi sulle borse (se aperte) del resto del mondo. Non succede quasi mai, invece, che sia Wall Street a reagire a cosa ha dichiarato il governatore della Banca centrale di un altro paese. A ben guardare, ciò conferma che nell’economia globale in cui viviamo le monete e quindi le Banche centrali non sono affatto uguali: il modello che ne rappresenta l’interdipendenza registra molte asimmetrie. Si può pertanto concludere che la centralità della moneta e della finanza degli Stati Uniti è tuttora robusta e non ne risulta erosa in modo significativo la leadership in termini di tendenze dei mercati finanziari: anche quando un evento importante è avvenuto in paesi lontani, non se ne apprezza il vero significato fin tanto che non è stato (come di solito avviene entro le successive 24 ore) ‘quotato’ a Wall Street!
Forza militare. La presenza di basi statunitensi in 70 paesi nel mondo è tuttora una misura di potenza militare che non ha eguali. Anche se questo è, dei tre considerati, il fattore che si è probabilmente più indebolito negli ultimi dieci anni. La fine del comunismo (con il crollo del Muro di Berlino nel 1989) aveva infatti illuso molti di un futuro incontrastato dominio dell’altra grande potenza rimasta: gli Stati Uniti. In realtà, nel corso degli anni successivi, il diffondersi del terrorismo internazionale in parte collegato a fondamentalismi religiosi, il proliferare delle armi nucleari, l’incancrenirsi di conflitti solo in parte locali, come i combattimenti in Afghanistan e in Iraq, hanno rivelato un’America costretta a proteggersi anche in casa propria e incapace di una vittoria decisiva nei punti più caldi del mondo. Risultato: l’America ha sì vinto la ‘guerra’ al comunismo, ma non ha poi ‘vinto’ la pace. Ed è facile prevedere che dovrà nel tempo continuare a ridimensionare le sue ambizioni imperiali: la ‘pace americana’ è inferiore per qualità a quella britannica che l’aveva preceduta.
Gli squilibri macroeconomici
Da anni gli Stati Uniti stanno facendo due cose non facilmente compatibili. Da un lato, ‘spostano’ la produzione di beni in aree dell’Asia (soprattutto in Cina, ma non solo) caratterizzate da basso costo del lavoro; e ciò riguarda in particolare quelle produzioni ad alta intensità di lavoro che rappresentano solo l’assemblaggio di parti (tipico il caso del personal computer) ovunque prodotte. Dall’altro lato, la loro spesa complessiva – pubblica e privata – supera il reddito nazionale e quindi si manifesta un significativo deficit corrente della bilancia dei pagamenti che il resto del mondo deve finanziare. Questi due processi possono continuare senza limiti? È pensabile che il resto del mondo continui a finanziare l’eccesso di spesa degli americani, accontentandosi di accumulare quei titoli di credito con cui l’America si finanzia sui mercati internazionali? La risposta a queste domande ci aiuta a misurare la quantità di dollari che il mondo dovrà continuare a detenere e quindi il prevedibile valore di questa moneta. Ne dipenderà l’equilibrio finanziario complessivo e quindi il ruolo che il dollaro continuerà a svolgere come moneta internazionale.
Un paese piccolo e aperto la cui moneta domestica non ha alcun ruolo internazionale (pensiamo alla lira italiana fino a 10 anni fa) non può permettersi di avere un deficit di bilancia dei pagamenti per un numero illimitato di anni. Il progressivo cumularsi di debito estero, quando percepito come insostenibile, produrrà una reazione sul tasso di cambio (più o meno accompagnata da altre correzioni di politica economica). La svalutazione della moneta concorrerà a riequilibrare la bilancia dei pagamenti facendo così cessare lo squilibrio dei conti con l’estero. Questo vincolo è di molto ridotto quando la moneta del paese con deficit estero è anche moneta internazionale e come tale detenuta da una parte almeno degli altri n-1 paesi (a fronte dei loro surplus di bilancia dei pagamenti, che qualcuno deve pur avere se c’è un paese con un deficit).
Possiamo ipotizzare che vi siano situazioni in cui il paese leader si trova a dover continuare ad avere un qualche deficit estero, a fronte di una domanda della sua moneta che qualche altro paese manifesta. Più in generale, dobbiamo tener conto del fatto che la sostenibilità dello squilibrio della bilancia dei pagamenti del paese leader dipende dagli interessi e dalle scelte dei paesi creditori. Ma per precisare meglio la rilevanza di queste argomentazioni nei confronti della posizione, corrente e attesa, del dollaro dobbiamo precisare tre aspetti dei quali molto si è discusso – a livello sia teorico sia empirico – in questi anni. Il primo aspetto riguarda la posizione del bilancio pubblico americano: è necessario tornare al pareggio del bilancio pubblico, per riequilibrare la bilancia dei pagamenti e quindi rinsaldare il ruolo del dollaro? Il secondo aspetto riguarda la parte più propriamente finanziaria e monetaria: la politica della Federal Reserve prima nei confronti della stabilità monetaria e più di recente per preservare la stabilità finanziaria, è la politica corretta anche nei confronti della posizione del dollaro? Infine, vi è ciò che riguarda la posizione della Cina: è sostenibile nel tempo, cioè di comune interesse, quella sorta di ‘integrazione economica e monetaria’ che da anni Stati Uniti e Cina hanno di fatto stipulato? Un’integrazione che qualcuno ha battezzato una specie di ‘Bretton Woods-2’ America-Asia, in base alla quale le imprese americane spostano in Asia le loro produzioni più elementari, importandone i prodotti, che sono pagati con dollari reinvestiti (a cambio immutato) negli Stati Uniti stessi. Un corollario di tale meccanismo, come ha funzionato negli anni scorsi, è che tutta questa area economica, operando a cambio fisso, si muove nei confronti dell’Europa in modo unitario, e quindi il cambio dell’euro è l’unico su cui si scarica ogni aggiustamento. Perché è questo alla fine il vero nostro problema: è l’Europa e sono in particolare i paesi della zona-euro a sopportare tutte le conseguenze dell’aggiustamento in corso. Ma andiamo con ordine ed esaminiamo prima i tre aspetti sopra elencati. Vedremo che quegli squilibri potrebbero essere agevolmente ridotti (e in parte già lo sono) e quindi riforme radicali non essere indispensabili. È anche chiaro però che qualcosa potrebbe peggiorare molto e causare una vera e propria ‘crisi del dollaro’, magari definitiva.
I deficit gemelli
Per riequilibrare la bilancia dei pagamenti americana, e quindi stabilizzare il valore del dollaro, è indispensabile ridurre il deficit pubblico, cioè l’eccesso della spesa sulle entrate del Governo? È stata la riduzione delle imposte decisa dall’amministrazione Bush e poi i costi della guerra in Iraq, che assieme spiegano il deficit pubblico americano, a indebolire il dollaro? La risposta a queste domande non è facile perché nella storia dell’economia e della teoria economica si trovano esperienze e spiegazioni anche molto diverse. In proposito, il dibattito – anche recente – ha cercato di misurare la relazione che esisterebbe tra i cosiddetti ‘deficit gemelli’. Abbiamo infatti due opposti punti di vista, con la realtà che è in qualche misura in posizione intermedia. A un estremo c’è la scuola keynesiana, cui si deve la definizione di twin deficits: secondo questa analisi, il deficit pubblico causa un equivalente deficit dei conti con l’estero. All’opposto, la view Ricardiana postula un mondo in cui quel legame non esiste: il settore privato dell’economia ‘compensa’ gli effetti delle politiche di bilancio, assorbendone le conseguenze. Per chiarire questa contrapposizione, consideriamo un esempio molto semplice: il Governo riduce le tasse, finanziando con l’emissione di debito il deficit pubblico che ne risulta. Nel primo caso, aumenta il reddito disponibile e quindi la spesa dei cittadini; e se partiamo da una situazione prossima al pieno impiego la maggior domanda potrà essere soddisfatta solo dal resto del mondo. Ogni dollaro di nuovo deficit pubblico sarà quindi accompagnato da un identico dollaro di deficit dei conti con l’estero, i tassi di interesse salendo per far sì che l’afflusso di capitali dall’estero finanzi quel deficit. Nel caso opposto, se prevalgono le ipotesi della teoria ricondotta a David Ricardo, nulla di tutto ciò succederà: gli individui razionali sanno benissimo che prima o poi quella riduzione delle tasse dovrà essere rovesciata, e quindi fin d’ora aumentano il risparmio. Se non aumenta la spesa e quindi non aumentano le importazioni nette, la bilancia dei conti con l’estero non muta: il maggior deficit pubblico è tutto finanziato dal maggior risparmio privato.
Chiarito tutto ciò, cosa possiamo dire dell’ipotesi che i due deficit siano legati, e quindi il valore del dollaro possa essere ristabilito solo grazie a una politica di bilancio restrittiva? I risultati delle molte ricerche svolte indicano che nel caso degli Stati Uniti prevalgono ‘effetti ricardiani’, cioè i due deficit non sono proprio ‘gemelli’. In altre parole, la riduzione del deficit pubblico potrà servire, ma non basterà. Se lo squilibrio dei conti con l’estero non dipende solo dal deficit pubblico, occorre per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti non solo una diversa politica macroeconomica monetaria oltre che fiscale, ma anche un recupero di competitività. E se questo tarda a verificarsi dovrà poi essere maggiore.
Il conundrum tre anni dopo
Intervenendo al Senato il 16 febbraio 2005 per l’audizione semestrale sulla politica monetaria, il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, dopo aver esaminato l’andamento dei tassi a lunga nei nove mesi precedenti, sottolinea che la loro diminuzione, in presenza di un aumento significativo dei tassi a breve «remains a conundrum». L’espressione inconsueta sta a significare un enigma, cioè qualcosa che non è facile da spiegare in modo razionale. Il successivo dibattito empirico e teorico ha contribuito a chiarire meglio i termini della questione, come allora impostata. Ma soprattutto, la più recente diminuzione dei tassi di interesse e del valore del dollaro – anche in seguito alla crisi finanziaria scoppiata nell’estate 2007 – consente di tornare su quel dibattito con qualche informazione in più. La discesa di tassi a lunga verificatasi tre anni fa è risultata dopotutto giustificata: l’enigma ha infatti ricevuto la spiegazione più probabile, cioè il conundrum era solo profetico, quasi che i mercati sapessero – meglio della Federal Reserve – che quegli aumenti dei tassi ufficiali erano insostenibili, e sarebbero stati rovesciati entro due o tre anni. A questo punto, data la crisi finanziaria in corso, un aumento dei tassi di interesse a difesa del dollaro è semplicemente impensabile. Merita tuttavia rivedere il dibattito sul conundrum – la riduzione dei tassi a lunga nonostante l’aumento dei tassi a breve – perché aiuta a collocare il dibattito sul futuro del dollaro nella duplice prospettiva della politica monetaria statunitense e della politica sulle proprie riserve ufficiali dei paesi emergenti, a cominciare dalla Cina. Esaminiamo anzitutto il primo aspetto.
Qual era l’enigma del 2005? La Federal Reserve per evitare una ripresa dell’inflazione aveva iniziato ad aumentare i tassi di interesse e ciò si trasmetteva solo ai tassi a breve, mentre i tassi a lunga (equivalenti ai tassi a breve previsti) scendevano. Possibili spiegazioni: 1) pessimismo sulle prospettive della crescita economica; 2) massicci acquisti di titoli a lunga americani da parte di Banche centrali estere; 3) previsioni di minor inflazione dovuta agli effetti positivi della globalizzazione. Greenspan menziona tutte e tre queste spiegazioni salvo giudicarle non convincenti, di qui la conclusione che c’è un enigma. Il successivo dibattito – oltre a insistere su ciascuno dei tre aspetti già considerati – ha aggiunto altre possibili spiegazioni: 1) la ridotta incertezza (volatilità) dei mercati finanziari dovuta anche alla buona gestione della macroeconomia; 2) i successi della politica monetaria nel tenere bassa l’inflazione.
La somma di tutto ciò – al netto dell’effetto Banche centrali estere che vedremo nella sezione successiva – rappresenta l’aspetto ‘profetico’ del conundrum: i mercati sapevano che il successo della politica monetaria avrebbe garantito la stabilità monetaria (bassa inflazione), e avevano perciò previsto tassi di interesse molto bassi mantenuti a lungo e su quella base avevano enormemente accresciuto l’attività finanziaria. Ciò equivale a dire che i problemi odierni sono il frutto dei successi precedenti: in termini analitici, il tasso di interesse cui si accompagna la stabilità finanziaria è inferiore a quello che può essere richiesto per garantire la stabilità monetaria.
Il ruolo della Cina
Si è già detto che alla Cina viene attribuita responsabilità nell’ambito del cosiddetto global saving glut che ha caratterizzato l’economia mondiale negli anni scorsi, contribuendo a spiegare sia i bassi tassi di interesse a lunga sia la facilità con cui l’America ha finanziato un crescente indebitamento estero. Ammaestrati dalla loro crisi finanziaria di 10 anni fa, i paesi dell’Asia, con la Cina in testa, hanno infatti perseguito politiche di sottovalutazione del cambio, realizzando così uno sviluppo export-led con crescente accumulazione di riserve investite in dollari.
Quest’aspetto è importante, ma va inserito in una prospettiva più ampia che è quella che ha portato a parlare di ‘Chimerica’ (China + America), cioè di una vera e propria integrazione da complementarità tra Cina e Stati Uniti. Da questo punto di vista, non è beneficenza quella che il governo cinese ha deciso di fare ‘sostenendo’ il dollaro USA con continui acquisti di titoli americani; ma è chiaro che l’aver fissato il valore del renminbi (RMB) nei confronti del dollaro è stato deciso perché anzitutto nell’interesse della Cina, e solo per le continue proteste della comunità finanziaria internazionale il RMB è stato un po’ rivalutato negli ultimi anni. Che speranze ci sono che quella politica sia radicalmente rivista e quindi l’Asia sopporti la sua parte dell’aggiustamento necessario per correggere la altrimenti persistente debolezza del dollaro? Dobbiamo assumere che non convenga neppure alla Cina (e al resto dell’Asia) proseguire nell’attuale crescita eccessiva che si sta accompagnando a problemi inflazionistici. La stabilizzazione della moneta nei confronti del dollaro sta infatti impedendo alla Cina di avere una propria politica monetaria, e quindi di moderare la sua inflazione. Una rivalutazione del RMB favorirebbe la crescita della domanda interna in Asia e la crescita delle esportazioni in America, che è quanto da tempo auspicato da organismi internazionali come il FMI, per rendere più equilibrata l’economia mondiale e meno probabile una crisi grave del dollaro. Non è da escludere che ciò possa avvenire se la Cina capisce che è anche nel suo interesse. Meno probabile che ciò succeda solo perché converrebbe all’Europa, attualmente la più danneggiata dalla debolezza del dollaro e delle monete asiatiche che al dollaro sono legate. Anche perché il declino dell’Europa non è solo un fatto monetario: è il centro del mondo che s’è spostato dall’Atlantico, che lo era stato negli ultimi secoli, al Pacifico dove è probabile resti a lungo in futuro. D’altra parte, l’aggiustamento dei conti con l’estero USA è avviato non solo con la diminuzione del valore esterno del dollaro, ma anche con la riduzione del prezzo degli immobili in America, che significa una variazione del prezzo relativo tra beni tradeable e non-tradeable, in linea con la ricetta auspicata da tutti gli organismi internazionali.
Possibili alternative
L’indebolirsi del dollaro e i dubbi sul suo futuro ripropongono un dibattito che si è già manifestato altre volte – finora con successo solo accademico – negli ultimi 65 anni. Si torna a leggere i piani che John Maynard Keynes aveva presentato a Bretton Woods nel 1944 e se ne propongono nuove versioni. È possibile che nei prossimi anni la moneta del paese leader debba essere sostituita con una ‘moneta virtuale’ (qualcosa come il Bancor di keynesiana memoria) che non è anche la moneta domestica di qualche paese? In termini di processo dinamico che vede l’aggravarsi dell’odierna debolezza del dollaro fino a renderne conveniente la sostituzione come moneta internazionale, quali possono essere gli indicatori che segnalano quella convenienza, per tutte le parti interessate o almeno per le principali, dollaro USA compreso? Si deve ipotizzare una crisi – con ‘fuga dal dollaro’ – più grave di quelle che pure ci sono già state in passato, come quando il presidente Richard Nixon (15 agosto 1971) sospese la convertibilità in oro del dollaro. E a sua volta ciò dovrebbe originare dall’insostenibilità di una politica di benign neglect nei confronti del dollaro che è quella prevalsa (al di là di rari interventi solo retorici) negli ultimi cinque anni. È possibile, ma non è probabile, sempre che la crisi finanziaria in corso non precipiti una crisi del dollaro ben più grave di quella finora vista. Poco probabile perché anche in questo caso è tornato a essere vero ciò che nel 1971 il segretario al Tesoro John Connally diceva agli Europei: «Il dollaro è la nostra moneta, ma il vostro problema».
Conclusioni
La perdita di valore del dollaro USA che si è manifestata negli ultimi cinque anni è comparabile – nella misura se non nella rapidità – a quella avvenuta nella seconda metà degli anni 1980. Il dollaro qualche anno dopo si riprese e la stessa storia potrebbe ripetersi negli anni prossimi. Lo squilibrio del conto corrente della bilancia dei pagamenti USA, che aveva raggiunto il 6,8% del GDP (Gross Domestic Product, prodotto interno lordo) a fine 2005, sta infatti riducendosi nonostante l’aumentato prezzo del petrolio abbia raddoppiato in cinque anni il deficit petrolifero americano. D’altra parte, la crescita in questi dieci anni di una possibile alternativa rappresentata dall’euro, e dal suo mercato finanziario, non ha portato ancora a un corrispondente ruolo internazionale della nostra moneta né a fini ufficiali né a fini privati. La letteratura scientifica è concorde sul fatto che vi è inerzia nei comportamenti di chi amministra le riserve ufficiali e che la crescita e l’efficienza del proprio mercato finanziario è condizione necessaria, ma non sufficiente per diventare moneta internazionale. Si ricordi che una equivalente inerzia consentì un secolo fa alla sterlina inglese di mantenere a lungo il ruolo di moneta internazionale nonostante il Regno Unito avesse già perso la supremazia economico-militare. Probabilmente nuoce all’euro il suo essere la moneta di un’entità che ancora non ha né un Governo né un esercito, due aspetti che continuano a favorire il dollaro americano. D’altra parte, il dibattito sulla crisi del dollaro sembra indicare che è un problema nostro più che un problema del mondo intero. Forse perché la discesa del valore del dollaro è avvenuta soprattutto nei confronti dell’euro, mentre le monete asiatiche hanno mantenuto cambi quasi-fissi con il dollaro. E quindi anche la riduzione del deficit con l’estero americano è avvenuta finora soprattutto a spese dei paesi della zona-euro. Ma non sono più i tempi (anni 1940) dei piani Keynes, di quando, in altre parole, almeno sul piano intellettuale noi europei non eravamo secondi a nessuno. Nel mondo globale di oggi non ci sono più le condizioni per una trattativa limitata a Europa e America. Il sistema monetario internazionale riguarda in egual misura BRICs (Brasile, Russia, India, Cina) e il resto dei paesi emergenti, che per ora sono – più di noi – ‘affezionati’ al dollaro. Un nuovo futuro ‘piano Keynes’ dovrà quindi partire da questa prospettiva: come convincere paesi il cui successo è stato finora dipendente dal dollaro che un sistema radicalmente diverso potrebbe essere anche migliore.
riferimenti bibliografici
L. Bartolini, A. Lahiri, Twin deficits, twenty years later, Federal Reserve Bank of New York, October 2006; G. Galati, P. Wooldridge, The euro as a reserve currency: a challenge to the pre-eminence of the US dollar?, «BIS Working Papers», October 2006; J.R. Hicks, Le due triadi (1967), in Saggi critici di economia monetaria, Milano, Etas Kompass, 1971; G. Vaciago, La forza dell’America, «Il Mulino», 1, 2003, pp. 143-49.
Il sistema monetario
Origine e funzione della moneta
Il modo odierno di considerare la moneta e i fenomeni monetari è il risultato di un’evoluzione secolare che appare dominata dalla ricerca spontanea di soluzioni idonee ad agevolare gli scambi tra gli operatori economici. Lo scambio diretto di beni contro beni, o baratto, presentava comprensibili inconvenienti per l’eventuale non coincidenza nell’apprezzamento dei beni potenzialmente scambiabili e per altre analoghe complicazioni pratiche. Di qui lo scindersi dell’atto di scambio in due operazioni distinte: cessione di un bene o servizio contro un bene intermedio, che l’esperienza dimostrava essere largamente richiesto e accettato dal pubblico; e impiego di questo bene intermedio per l’ottenimento degli altri beni e servizi desiderati. Quale strumento intermedio degli scambi vennero adoperate, nella più lontana antichità, le cose più disparate: pietre, conchiglie, sale, capi di bestiame, tabacco, metalli vari e infine metalli preziosi (oro, argento), che si adattavano bene alla funzione in virtù delle loro peculiari caratteristiche, prime fra tutte il valore intrinseco e la non deperibilità, che li rendevano accettabili da chiunque e adatti alla tesaurizzazione. Questa spinta evolutiva dettata dalla comodità e dalla convenienza degli scambi la si ritrova anche nell’ulteriore passaggio dalla moneta con un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi a una moneta puramente cartacea o scritturale, né il processo è da ritenersi concluso. Da un lato, come possibilità legata agli sviluppi delle contabilizzazioni elettroniche, si profilano sistemi che tendono a rendere ancora più immateriale lo strumento monetario, in quanto risulta virtualmente non necessaria persino la sua esistenza come segno cartaceo; dall’altro lato, la diffusione delle cosiddette carte di credito richiama l’attenzione sulla concreta maggiore complessità e molteplicità della creazione di mezzi monetari. A conferire carattere di moneta a un determinato mezzo usato come intermediario degli scambi di beni e servizi o, più in generale, come strumento regolatore dei rapporti di debito, del resto, non concorre necessariamente l’utilità intrinseca del mezzo stesso, bensì la fiducia nella sua generale accettazione. Tuttavia il concetto di moneta non si presta a una definizione che si basi soltanto su una sua caratteristica. Come intermediario negli scambi, la moneta costituisce un mezzo di pagamento. Ma questa funzione implica che una qualche disponibilità monetaria sia trattenuta, nel corso del tempo, da chi ne fa uso; le consuetudini di pagamento dei sistemi economici moderni comportano, di norma, il decorso di intervalli più o meno prolungati tra gli incassi e gli esborsi. Oltre che mezzo di pagamento, la moneta è dunque riserva di valore: vale a dire uno dei possibili modi in cui gli operatori economici possono mantenere la ricchezza di cui dispongono. Meno strettamente connesse con quelle sinora menzionate sono le funzioni della moneta come misura dei valori e come termine di riferimento nei pagamenti differiti, aspetti che possono anche non coesistere nel mezzo che operi come mezzo di pagamento e riserva di valore. Conviene inoltre sottolineare la mancanza di ogni necessaria connessione tra il contenuto intrinseco della moneta e la solidità del sistema monetario. Se la moneta fu incontestabilmente creazione dell’economia mercantile, e non già dello Stato, fu tuttavia la prima delle creazioni dell’economia mercantile di cui i governi appresero a impossessarsi per effetto della coniazione, imprimendo sui pezzi metallici figure o iscrizioni, che finirono per far apparire la moneta come un’espressione della sovranità dei pubblici reggitori. Questi non tardarono a individuare nella creazione di moneta un mezzo per procurare entrate all’erario. Nel tempo, si è osservato che l’influenza dei governi poteva esercitarsi più liberamente sulle monete con circolazione limitata a circoscritte aree statali, nell’ambito delle quali era possibile salvaguardare l’accettazione dei pezzi metallici deprezzati, conferendo loro il carattere di moneta legale. Nei riguardi, invece, delle monete estesamente usate nei traffici internazionali, l’accettazione dipendeva dall’apprezzamento dei mercanti. Essi non avrebbero mancato di sospendere l’invio dei metalli preziosi verso i paesi le cui zecche si fossero rese responsabili di alterazioni monetarie.
Monete immaginarie e monete reali
Un aspetto interessante delle antiche vicissitudini monetarie è costituito dalle cosiddette monete immaginarie o ideali o numerarie o di conto, che, a differenza di quelle reali, le quali soltanto potevano essere impiegate nei pagamenti effettivi, servivano per fini di contrattazione e di contabilizzazione. Questo dualismo tra moneta astratta e moneta effettiva esaurì la sua funzione verso la fine del sec. 18°. Le variazioni – disposte dalle autorità pubbliche – del rapporto delle monete immaginarie rispetto a quelle reali realizzavano quegli stessi effetti che oggi si attendono da un processo inflazionistico o deflazionistico. La cosiddetta moneta immaginaria costituiva già un esempio di moneta-segno, sprovvista cioè di un effettivo contenuto intrinseco in metalli preziosi. Con il volgere del tempo, la circolazione di mezzi di pagamento cartacei, rappresentativi di determinati quantitativi di metalli preziosi e trasformabili nei medesimi a richiesta dei detentori si andò affermando per ragioni di convenienza. Anziché conservare direttamente e con notevoli rischi i metalli preziosi, risultò vantaggioso depositarli presso persone che godevano di larga fiducia (orefici, mercanti e simili) e che rilasciavano di norma attestazioni del loro impegno alla pronta riconsegna dei metalli. Queste attestazioni divennero a loro volta utilizzabili per effettuare pagamenti. Su queste basi sorse l’attività bancaria, divenuta particolarmente significativa per i fenomeni monetari, allorché il banchiere si rese conto della possibilità pratica di far fronte alle richieste di conversione in metalli dei segni cartacei da lui rilasciati, senza che questi fossero integralmente coperti da metalli preziosi. A fronte delle attestazioni rilasciate era infatti sufficiente la conservazione di una prudenziale ‘riserva parziale’, la differenza potendo essere utilizzata per effettuare operazioni di prestito. Così, mentre l’accettazione dei mezzi cartacei continuava a basarsi sulla fiducia, il sistema ammetteva la creazione di mezzi cartacei multipla rispetto alla disponibilità metallica mantenuta come riserva: da una funzione di semplice intermediazione, il sistema bancario evolveva verso una funzione di partecipazione diretta alla creazione di mezzi monetari.
L’unità monetaria e i suoi multipli
Fino a che la circolazione monetaria fu costituita esclusivamente da monete metalliche, l’unità monetaria, o moneta base di un sistema monetario cui tutte le altre monete del sistema stesso venivano riferite, quando era effettivamente coniata, doveva essere una moneta perfetta e così pure i suoi multipli. I sottomultipli, invece, impiegati per piccoli pagamenti e coniati in metalli o leghe di metalli non nobili, nascevano in genere come monete imperfette; si dava cioè loro un valore legale superiore a quello del metallo in esse contenuto (il che era reso necessario anche dal fatto che la coincidenza dei due valori, dato lo scarso prezzo dei metalli non nobili, avrebbe richiesto la coniazione di monete troppo grandi e pesanti). Conseguentemente, al contrario di quanto avveniva per le monete perfette, si attribuiva ai sottomultipli soltanto un potere liberatorio limitato e non si ammetteva per essi libertà di coniazione. Ogni sistema monetario risultava così costituito dall’unità monetaria, coniata o ideale, avente un valore corrispondente a un dato peso di metallo fino, di monete dello stesso metallo di valore multiplo dell’unità, anch’esse di pieno peso e valore, e di monete divisionali, di valore superiore al valore intrinseco, che erano accettate in pagamento in quanto convertibili nelle precedenti (e furono dette perciò anche monete fiduciarie).
Sistema monometallico o bimetallico
Un sistema monetario poteva essere monometallico o bimetallico a seconda che la moneta legale con potere liberatorio illimitato (unità monetaria e suoi multipli) fosse di un solo metallo, oro o argento, o dell’uno e dell’altro metallo. Perché il monometallismo aureo o argenteo funzionasse in modo perfetto occorreva però che i privati avessero facoltà di portare senza limiti di sorta metallo alla zecca per ottenerne moneta e viceversa, e di far uscire ed entrare metallo dalle frontiere; soltanto l’esistenza di queste due libertà permetteva infatti un automatico processo di adeguamento del valore di scambio delle monete alle variazioni del valore commerciale del metallo in esse contenuto. Attraverso la sua libera trasferibilità in corrispettivo dei saldi passivi delle bilance dei pagamenti il metallo tendeva inoltre a distribuirsi tra i vari paesi in reciproche relazioni d’affari in modo da avere in tutti lo stesso prezzo, e i rapporti tra i livelli dei prezzi esistenti nei vari paesi, ossia tra i poteri d’acquisto delle relative monete, tendevano a ritornare automaticamente su posizioni di equilibrio, qualora temporaneamente se ne fossero allontanati. Nel bimetallismo, oltre al verificarsi delle suddette condizioni per le moneta sia d’oro sia d’argento, occorreva poi che venisse fissato il rapporto legale tra le une e le altre in base al rapporto tra i valori commerciali dei due metalli. Al sistema bimetallico si ricorse nel sec. 19° nella speranza che potesse assicurare meglio del sistema monometallico la stabilità del valore della moneta attraverso processi compensatori: questi potevano però funzionare soltanto quando le deviazioni del rapporto commerciale tra i valori dei due metalli dal rapporto legale erano di lieve entità e non valevano a riportare i due rapporti alla coincidenza in caso contrario. Di fronte alle forti fluttuazioni del prezzo dell’oro, e soprattutto dell’argento, verificatesi negli ultimi decenni del sec. 19°, il bimetallismo doveva in breve tempo rivelare la sua inadeguatezza a raggiungere il fine che si proponeva. Per la legge di Gresham, secondo la quale la moneta cattiva scaccia la buona, esso era infatti avviato a trasformarsi in un sistema monometallico a tipo alternato, in seguito all’uscita dalla circolazione delle monete coniate nel metallo a favore del quale si era mutato il rapporto tra i valori. L’Unione (o Lega) monetaria latina, che aveva adottato il sistema bimetallico, dovette a un certo punto sospendere la libera coniazione dell’argento, che si era deprezzato, per rompere il circolo attraverso il quale l’oro tendeva a smonetarsi. Ne risultò, nei paesi membri dell’Unione, un sistema monetario detto bimetallismo zoppo o incompleto (in quanto soltanto le monete d’oro conservarono in esso carattere di monete perfette e quelle d’argento furono automaticamente ridotte a monete divisionarie, ammettendosi che il loro valore legale potesse superare quello commerciale) assai vicino al monometallismo. Per la progressiva smonetazione dell’argento, andò poi sempre più prevalendo il monometallismo aureo.
Nel sec. 19° accanto alle monete metalliche si era diffusa però in misura crescente la circolazione di surrogati, sotto forma di biglietti di banca o di Stato convertibili in moneta, a corso fiduciario o legale, e poi anche di assegni, sempre a corso fiduciario. Questi titoli di credito, quando riscuotevano la fiducia del pubblico, erano perfettamente in grado di adempiere come la moneta metallica alla funzione d’intermediazione negli scambi e non impedivano che la moneta da loro rappresentata seguitasse a esplicare l’altra sua importante funzione di misura comune dei valori, permettendo che ogni bene esistente nel mercato avesse un solo prezzo, espresso in moneta, anziché tanti prezzi quanti sono gli altri beni con cui può scambiarsi, come avverrebbe se la moneta non ci fosse. I biglietti a corso legale avevano inoltre potere liberatorio nei pagamenti come le monete metalliche e come queste potevano, in condizioni di stabilità dei prezzi, permettere di accumulare valori per il futuro, attraverso il risparmio, o di trasportarli nello spazio (mediante, per es., vendita di immobili in un luogo e acquisto con il ricavato di altri immobili in luogo diverso). Soltanto le funzioni di riserva metallica delle banche, ossia di copertura della circolazione cartacea, non potevano ovviamente essere svolte dai biglietti emessi dalle banche stesse, che per il resto erano in grado di rappresentare pienamente le monete propriamente dette, e, con qualche limitazione, gli assegni potevano a loro volta rappresentare i biglietti a corso legale. Il monometallismo aureo (gold standard) andò pertanto sempre più trasformandosi in un sistema in cui accanto e in luogo delle monete d’oro circolavano i biglietti di banca o di Stato a corso legale in esse convertibili, e questo sistema fu largamente attuato nella sua forma classica fino alla Prima guerra mondiale.
Dopo il conflitto, che aveva costretto a sospendere il regime aureo per adottare il corso forzoso, e in seguito alla grande depressione del 1929-31, sorse l’esigenza di un sistema monetario internazionale che disciplinasse: 1) i rapporti di cambio tra le monete nei differenti paesi; 2) le modalità per effettuare transazioni con l’estero; 3) le caratteristiche degli strumenti che in ogni momento vengono universalmente accettati come mezzo di pagamento e fungono da moneta di riserva; 4) le modalità per correggere situazioni di squilibrio nei pagamenti internazionali. Con gli accordi di Bretton Woods del 1944 il sistema aureo fu quindi ripristinato sotto forma di gold exchange standard (in cui i biglietti sono convertibili in divise esterne equiparate, cioè a loro volta convertibili in oro in altri paesi), preferito al gold bullion standard (in cui i biglietti sono convertibili in verghe d’oro se vengono presentati per valori superiori a un minimo fissato dalla legge) e alla forma mista (in cui è lasciata all’istituto di emissione la scelta tra convertire in oro o in divise estere i biglietti presentatigli a questo scopo). Nel 1973 dopo la crisi del sistema di Bretton Woods, si è instaurato un sistema ibrido basato sulla fluttuazione dei cambi e in cui coesistono una pluralità di strumenti di riserva (multicurrency reserve system) e, soprattutto dal 1985, una gestione più attiva e coordinata dei cambi da parte delle autorità dei principali paesi (managed floating). Un tale sistema, consentendo con una certa flessibilità l’adeguamento ai mutamenti delle condizioni economiche e degli equilibri politici e sociali, tende verso tassi di cambio più stabili grazie a una sorveglianza multilaterale dei tassi e l’istituzione di zone obiettivo, e cioè di bande di fluttuazione di ampiezza predeterminata di cui un esempio è il Sistema Monetario Europeo. Tuttavia questo sistema è oggetto di numerose controversie in quanto necessita di una limitazione della sovranità monetaria nazionale per il dovuto coordinamento delle politiche economiche.
Va ricordato inoltre che qualora venga sospesa la convertibilità e proclamato il corso forzoso dei biglietti, questi da surrogati della moneta si trasformano in vera e propria moneta (carta moneta, o moneta cartacea) e, se la loro circolazione fosse contenuta entro i limiti del fabbisogno nazionale di mezzi di pagamento, potrebbero a rigore seguitare ad assolvere le funzioni della moneta senza gravi disturbi. Ciò però non avviene perché al corso forzoso si ricorre o per salvare, accollandone le passività allo Stato, istituti bancari pericolanti in conseguenza di eccessive immobilizzazioni, o per salvaguardare lo stesso istituto di emissione dalle conseguenze di un imprudente allargamento della circolazione o di una contrazione delle sue riserve, o soprattutto per fornire un’entrata straordinaria allo Stato il cui deficit di bilancio non sia altrimenti sanabile o appaia destinato ad allargarsi, come avviene, per es., all’inizio di una guerra. L’inflazione, in tal caso, attraverso la svalutazione dei biglietti, pone a disposizione dello Stato una parte del potere d’acquisto prima goduto dai cittadini e permette così di far fronte alle spese eccezionali in atto o previste. Man mano che cresce la quantità di biglietti in circolazione diminuisce però la fiducia del pubblico che, per quanto obbligato ad accettarli in pagamento, cerca di disfarsene al più presto, rinunciando a servirsene come mezzo d’accumulazione e finanche, a inflazione avanzatissima, come mezzo di scambio, tanto è vero che si verificano in qualche caso il fenomeno della fuga dalla moneta e il ritorno al baratto. Non essendo più possibile allora restaurare la fiducia del pubblico nella moneta così svalutata, non resta che cambiarla con una nuova moneta; ma può succedere invece che ci si arresti in tempo sulla via dell’inflazione e che si possa, a poco a poco, arrivare, grazie anche allo sviluppo dell’attività economica che riassorbe l’eccedenza di moneta, alla stabilizzazione dei prezzi e dei cambi su nuovi livelli.
Il sistema monetario internazionale
Un sistema monetario internazionale è un insieme di regole e norme, definite da trattati internazionali e integrate da convenzioni e usi accettati dai paesi che ne fanno parte, riguardanti i criteri di regolamento dei pagamenti internazionali, il grado di stabilità dei tassi di cambio fra le valute dei paesi membri e gli aiuti finanziari fra banche centrali o Stati in caso di crisi di bilancia dei pagamenti. In un caso, quello del gold standard, in vigore approssimativamente dal 1880 al 1914, le convenzioni e gli usi si radicarono talmente nella prassi dei governi che esso si può considerare uno dei sistemi monetari internazionali meglio funzionanti, nonostante l’assenza di trattati che lo regolassero. Nel secondo dopoguerra invece, con il Sistema di Bretton Woods (1944-71) e con il Sistema Monetario Europeo, in vigore dal marzo 1979, la cristallizzazione delle regole in trattati ha preso il sopravvento sulle convenzioni e gli usi. L’utilità e la necessità di un sistema monetario internazionale aumentano con la dimensione degli scambi commerciali fra i paesi e quindi con la specializzazione internazionale. Anzi un ‘buon’ sistema monetario internazionale favorisce la specializzazione internazionale e quindi aumenta la ricchezza delle nazioni. L’iniziativa per la creazione di un sistema monetario internazionale nasce generalmente dal paese (o dai paesi) economicamente e politicamente dominante nell’economia mondiale (l’Inghilterra nel caso del classical gold standard, gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra), che ha il maggior interesse nella stabilità dei rapporti economici internazionali e nella prosperità delle nazioni attraverso la specializzazione internazionale. Come conseguenza i sistemi monetari internazionali sono generalmente ‘asimmetrici’, nel senso che un paese assume il ruolo di guida con il vantaggio di trasferire sugli altri paesi membri quasi tutto l’onere dell’aggiustamento dei disavanzi di bilancia dei pagamenti e di trarre benefici dall’uso della propria moneta cartacea anche nel resto del mondo sia come riserva internazionale sia, soprattutto, come mezzo di pagamento (il cosiddetto ‘signoraggio’). Ma il grado di asimmetria dei sistemi monetari internazionali può variare di molto.
Bretton Woods
Il sistema di Bretton Woods in vigore dal 1944 al 15 agosto 1971 era basato da un lato sulla convertibilità del dollaro in oro consentita a tutti i governi membri, garantita dal governo degli Stati Uniti e dalle sue enormi riserve auree (circa 25 miliardi di dollari nel 1949, scesi poi a circa 11 nel 1971), e dall’altro sui cambi fissi, ma aggiustabili in caso di ‘disequilibrio fondamentale’ della bilancia dei pagamenti. Esisteva quindi ancora fino al 1971 un legame, sia pure indiretto, fra la circolazione cartacea dei singoli paesi membri e l’oro, che rappresentava un’‘ancora’ del sistema monetario internazionale e dei sistemi monetari nazionali. Il difetto principale del sistema di Bretton Woods, intuito da John Maynard Keynes già al tavolo delle trattative nel 1944 ed esposto da Robert Triffin nel 1960, è consistito nella veloce diminuzione dal 1950 al 1971 del rapporto fra riserve auree statunitensi e debiti a breve in dollari degli Stati Uniti nei confronti dei paesi membri (le riserve internazionali in dollari di questi ultimi). Questi debiti a breve crescevano in concomitanza con la crescita del commercio e dell’economia mondiali, e quindi con un fabbisogno di riserve internazionali da parte dei paesi membri che non poteva essere soddisfatto dall’insufficiente produzione mondiale di oro. Con la caduta del rapporto, la fiducia nella convertibilità del dollaro in oro da parte degli Stati Uniti diventava sempre più debole, fino a indurre alcuni paesi particolarmente affezionati all’oro (per es. la Francia) ad accelerare le richieste di conversione. La crisi di fiducia verso il dollaro si acuì nella seconda metà degli anni 1960, per l’accresciuto impegno finanziario statunitense nella guerra del Vietnam e il finanziamento monetario dei disavanzi del Tesoro degli Stati Uniti.
Il dilemma fra finanziamento dei commerci mondiali con riserve in dollari (l’unica strada percorribile dal momento che la produzione aurea era insufficiente) e il venir meno della fiducia nella convertibilità del dollaro in oro, è noto sotto il nome di ‘dilemma di Triffin’. A dire il vero esisteva una terza via per ovviare al crescente fabbisogno di riserve internazionali: la creazione dal nulla di mezzi di pagamento internazionali da parte di un organismo sovranazionale come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), accettati da tutti i governi membri. Ciò avrebbe trasformato il FMI in una vera Banca centrale mondiale sottraendo agli Stati Uniti il potere di creare la moneta mondiale (il dollaro) e di influire sull’inflazione e sulla congiuntura mondiale, e i vantaggi derivanti dal signoraggio. Si capisce allora perché i molteplici tentativi d’imboccare questa terza via, iniziati da Keynes stesso come capo della delegazione inglese al tavolo delle trattative nei primi anni 1940 e ripresi poi a partire dagli anni 1960, non portarono a grandi risultati.
Dopo Bretton Woods
La crisi strutturale dell’economia statunitense nel 1971 indusse l’allora presidente Richard Nixon a interrompere la convertibilità del dollaro in oro. La sospensione del gold standard (definitivamente abbandonato nel 1973) innescò un meccanismo che pose fine al sistema di cambi fissi. Il sistema monetario internazionale si sfaldò lasciando il posto a un grado di cooperazione fra le politiche economiche dei principali paesi assai variabile nel tempo, a una gestione comune delle situazioni di crisi con il contributo del FMI, a cambi molto instabili, a enormi deviazioni dei cambi dai livelli di equilibrio e a disavanzi delle partite correnti senza precedenti. Il ritorno a tassi di cambi fluttuanti fu comunque accompagnato dalla definizione di un insieme ben definito di ‘regole del gioco’ per la condotta delle transazioni monetarie internazionali cui i paesi industrializzati interessati si attennero strettamente. Il dollaro continuò inoltre a essere considerato la moneta di riferimento de facto per le transazioni monetarie internazionali, sia ufficiali sia private.
Il periodo del regime dei tassi fluttuanti fu interrotto dall’istituzione di un importante sottoregime: il Sistema Monetario Europeo (SME), definito anche ‘area del marco tedesco’ per indicare il ruolo di moneta di riferimento assunto dalla divisa tedesca per le altre valute europee che aderivano allo SME o ne facevano già parte. Il Sistema Monetario Europeo entrò in crisi dopo l’autunno del 1992, dapprima con l’uscita di alcune delle principali monete e in seguito con l’ampliamento delle bande di oscillazione fissate per le valute rimaste nel sistema (per es. l’Italia svalutò la lira del 30% circa rispetto al marco tedesco). All’inizio del 1995 si ebbero inoltre ulteriori svalutazioni della peseta spagnola e dello scudo portoghese. Pur modificato in questa forma, il Sistema Monetario Europeo rimase comunque operante sino alla fine del 1998. Nel 1999 gli è subentrata l’Unione Monetaria Europea che ha portato all’istituzione del Sistema europeo di banche centrali, composto dalla Banca centrale europea e dalle preesistenti banche centrali nazionali, responsabile della politica monetaria, e all’introduzione di una moneta unica in sostituzione delle valute nazionali. Nel 1985 e nel 1987 gli Accordi del Plaza e del Louvre fra i paesi più industrializzati, pilotati dall’allora segretario del Tesoro americano, James Baker, ebbero come obiettivo la stabilizzazione (e di fatto, inizialmente, la svalutazione) del dollaro statunitense nei confronti delle monete degli altri due grandi blocchi, quello del marco tedesco-SME e quello dello yen giapponese. Tali accordi stabilivano delle ‘fasce obiettivo’ (target zones) fissate dai vari paesi, che indicavano entro quali limiti le fluttuazioni delle loro monete erano accettabili, autorizzando ‘interventi’ per stabilizzare le monete intorno a tali tassi (con una conseguente sterilizzazione degli impatti monetari) e consentendo, qualora si fossero resi necessari, aggiustamenti dei tassi centrali in base ai fondamentali economici. L’attività di controllo era esercitata da parte dei paesi appartenenti al gruppo dei G3 (Stati Uniti con il Canada, Unione Europea e Giappone). Nel 1995 fu stipulato un accordo per frenare lo slittamento del dollaro nei confronti dello yen. Dopo una fase iniziale di ampi controlli multilaterali, le turbolenze finanziarie del 1997 e del 1998 spazzarono via anche gli ultimi residui della parità fissa col dollaro, allorché fu costretta ad abbandonarla anche la maggior parte dei paesi dell’Est asiatico e dell’America Latina.
Grave conseguenza delle eccessive oscillazioni dei cambi, oltre ai pericoli protezionistici, è il problema del debito estero di numerosi paesi in via di sviluppo, che incrina la stabilità del sistema bancario internazionale e rallenta lo sviluppo economico mondiale per effetto delle politiche restrittive che i paesi indebitati sono costretti a seguire. Nonostante le politiche di stabilizzazione dei paesi indebitati, in genere concordate con il Fondo Monetario Internazionale, e i piani di ristrutturazione del debito, il problema è rimasto tuttora irrisolto.