Dolore
Il dolore costituisce un’esperienza spiacevole, complessa e multidimensionale, determinata dall’interazione di fattori sensoriali, emotivi, motivazionali e sociali integrati a livello cognitivo. L’esperienza individuale che ne consegue dipende soprattutto da come il soggetto costruisce e interpreta gli eventi provenienti dall’ambiente esterno o dalla dimensione interna. A livello fisico, si definiscono dolorose le sensazioni provocate dall’azione di un agente che compromette l’integrità del corpo, oppure suscitate dallo stato di sofferenza anatomica o funzionale di un organo. Il dolore può presentarsi come sofferenza psichica e implicare stati emotivi, ansie, paure e ricordi di esperienze pregresse, che si riflettono negativamente sul piano somatico. Può essere provato infine, a livello simbolico, come dolore ‘mentale’, proiettato nel futuro, oltre che nel presente: in quest’ultimo caso è vissuto come elaborazione della sofferenza in funzione della crescita personale e culturale del soggetto.
1.
Lo stimolo doloroso sensoriale può essere costituito da un danno tessutale in atto o da uno stimolo potenzialmente dannoso, o perfino soltanto ritenuto tale: nei primi due casi, lo stimolo è definito nocicettivo perché l’informazione viene raccolta e inviata al sistema nervoso centrale da recettori sensoriali detti appunto nocicettori. Questi forniscono informazioni sulla natura dell’energia applicata (meccanica, termica, chimica), nonché sull’intensità, la durata e la localizzazione dello stimolo (v. oltre). Tale informazione è molto spesso utile per evitare che il danno si verifichi o si protragga, aumentando così le nostre probabilità di sopravvivenza, e sotto questo aspetto è simile all’informazione fornita dagli altri organi di senso. La funzione protettiva della sensibilità nocicettiva è chiaramente dimostrata in quelle rare condizioni di insensibilità congenita al dolore, in cui gli individui che ne sono affetti, privi delle strutture sensitive preposte alla recezione di stimoli nocicettivi, vanno incontro, senza rendersene conto, a lesioni interne ed esterne gravi e durature.
A seconda dell’origine, il dolore è classificato in somatico e viscerale. Il dolore somatico viene chiamato superficiale se origina dalla cute, mentre se proviene dai muscoli, dalle articolazioni, dalle ossa o dai tessuti connettivi viene definito profondo. Il dolore superficiale prodotto dalla puntura di un ago sulla cute dà luogo a una sensazione ben localizzabile ed è detto anche dolore iniziale, perché è seguito, dopo una pausa di qualche secondo, da una sensazione di carattere sordo, urente (cioè simile a quella prodotta dal fuoco o da corpi arroventati), di difficile localizzazione e che si attenua lentamente. Il dolore profondo è in genere sordo, difficilmente localizzabile e con tendenza a irradiarsi verso i tessuti circostanti. Il dolore viscerale infine è spesso di difficile definizione e localizzazione, perché avvertito in zone lontane da quelle di origine dello stimolo.
Il dolore viene indicato con termini specifici a seconda della sede: colica, dolore addominale; cefalea ed emicrania, mal di testa; nevralgia, dolore che interessa i nervi; lombaggine, dolore nella zona lombare in vicinanza dei reni; con il termine angina si indica un’infezione delle tonsille associata a mal di gola, mentre angina pectoris indica una malattia caratterizzata da insufficiente irrorazione del muscolo cardiaco, associata a dolore localizzato per lo più nella zona toracica sinistra e nella parte interna del braccio sinistro. In clinica è molto utile la classificazione del dolore in acuto, di breve durata e ben collegato all’intensità dello stimolo, e cronico, che a sua volta comprende varie forme di dolore, come quello persistente, che si protrae per giorni o mesi, e quello ricorrente, che compare a intervalli più o meno regolari. In genere, nella patologia umana il dolore cronico ha origine diversa da quello acuto, nel senso che non è dovuto al semplice prolungamento di esso. Il dolore acuto viene talvolta suddiviso, in base alla presenza o all’assenza di lesioni tessutali, in patologico e fisiologico.
Nella percezione del dolore giocano un ruolo fondamentale componenti di natura diversa: sensoriale, motoria, autonomica, emotiva, cognitiva ecc. La componente sensoriale o sensorio-discriminativa è quella determinata dall’informazione nocicettiva. La componente motoria è quella che dà luogo a risposte tendenti ad allontanare la parte lesa dallo stimolo e ha quindi un significato chiaramente protettivo; anche l’aumento della tensione dei muscoli relativi alle zone stimolate fa parte della componente motoria. La componente autonomica, cioè del sistema nervoso autonomo, comprende numerose modificazioni, come per es. quei riflessi dei vasi sanguigni, costrizione o dilatazione sia locali sia generali, che possono dare luogo a variazioni della pressione arteriosa, le alterazioni dei ritmi cardiaco e respiratorio, la nausea, il vomito o quegli stati di contrattura, gli spasmi, tipici della lesione di alcuni organi interni. Importante è anche la componente emotiva o affettiva, cioè gli aspetti di spiacevolezza prodotti dallo stimolo doloroso.
La capacità di valutare il grado di spiacevolezza della sensazione dolorosa, cioè di confrontarlo con altri tipi di dolore provati in precedenza, o quella di attendersi un certo tipo di dolore per un certo stimolo, o addirittura di prevedere come sopporteremo o reagiremo a un certo tipo di stimolo costituiscono la componente cognitiva del dolore. Non solo: noi soffriamo di più o di meno, a parità di lesione, in base alla valutazione che diamo dell’importanza della lesione stessa per il nostro benessere futuro (probabilità di deficit permanenti, presenza di sangue, conseguenze estetiche della lesione). Nella valutazione del dolore influiscono anche fattori sociali, familiari, etnici, culturali e, soprattutto, le circostanze collegate allo stimolo doloroso e alle sue conseguenze. Per es., un soldato ferito in un’azione di guerra, per il quale la ferita significa il ritorno a casa e la possibilità di evitare ulteriori vicissitudini, vive un’esperienza dolorosa diversa da quella di un individuo che soffre una lesione identica nella vita civile, come nel caso di un incidente stradale. La conseguenza di tali processi cognitivi è che il dolore viene espresso con diversa intensità, non soltanto verbalmente, ma anche attraverso gesti, lamenti, richiesta di analgesici ecc.
Gli aspetti soggettivi rivestono un ruolo predominante nella valutazione del dolore, trattandosi di un’esperienza individuale. Tale concetto è talmente accolto nella medicina moderna che al paziente si richiede l’autovalutazione del dolore. Tra i vari metodi di valutazione, i più comuni sono quelli in cui si chiede al paziente di indicare quale degli aggettivi esprima meglio l’intensità (lieve, spiacevole, disturbante, intollerabile), oppure quelli che implicano l’uso della scala visuoanalogica, in cui al dolore viene attribuito un punteggio da 0 a 100.
Per valutare adeguatamente tutte le componenti del dolore si ricorre spesso a veri e propri questionari standardizzati, il più noto dei quali è il McGill pain questionnaire dello psicologo canadese R. Melzack. La misurazione del dolore prende il nome di algometria (o algesimetria), utile in condizioni sperimentali per valutare le proprietà degli stimoli. Gli stimoli più comunemente usati in questi casi sono quelli elettrici, ma possono essere impiegati anche stimoli termici, meccanici o chimici. Si indica così come ‘soglia del dolore’ l’intensità di stimolazione minima necessaria per provocare una sensazione dolorosa, e come ‘soglia di tolleranza’ al dolore l’intensità massima tollerata dal soggetto. In casi particolari si usa un dolore sperimentale di varia intensità che il paziente possa paragonare al dolore clinico, permettendo al medico di valutare la sua reattività agli stimoli dolorosi.
2.
Tutte le fibre nervose sensitive possiedono, nella terminazione periferica, una porzione specializzata alla trasduzione, cioè alla trasformazione di una energia specifica in segnale elettrico. Si indica con la locuzione energia specifica, o stimolo adeguato, quel tipo di energia per il quale il recettore risponde a stimoli di bassa intensità e dà risposte sempre maggiori al variare, anche di poco, dell’intensità dello stimolo. La risposta consiste in una variazione improvvisa, di brevissima durata, delle condizioni elettriche della fibra nervosa. Tale attività, denominata potenziale di azione, ha la proprietà di propagarsi immodificata a tutte le porzioni della fibra e, quindi, anche al sistema nervoso centrale, dove la fibra sensitiva va a terminare connettendosi con varie parti (soma, dendriti, assone) di uno o più neuroni. La terminazione centrale della fibra ha la proprietà specifica di liberare, quando raggiunta da un potenziale di azione, alcune sostanze, dette neuromediatori, che influenzano le proprietà elettriche dei neuroni con i quali sono in contatto. La parte terminale della fibra e la porzione di neurone con cui questa entra in contatto formano la sinapsi. Il potenziale di azione costituisce quindi il messaggio tramite il quale, a livello della sinapsi, un neurone riesce a comunicare con il successivo, producendo in esso o un’eccitazione (aumento della frequenza di potenziali di azione del neurone) o un’inibizione (effetto opposto). Se l’intensità dello stimolo specifico aumenta, la maggior parte dei recettori sensoriali, o sensori, risponde aumentando la frequenza dei potenziali di azione (codice di frequenza), che a loro volta produrranno una maggiore liberazione di mediatori da parte del terminale centrale, e quindi influenzeranno di più i neuroni sui quali vanno a terminare.
Le fibre periferiche sono di due tipi, mieliniche e amieliniche, a seconda che siano o no rivestite da una membrana isolante detta appunto mielina. Nelle fibre mieliniche più grosse, che hanno maggiori velocità di conduzione e capacità di scaricare a frequenze elevate (fino a 1000 potenziali di azione al secondo), il terminale periferico, in cui ha sede la porzione specializzata alla trasduzione, è circondato da strutture di natura connettivale che, insieme alla fibra, danno luogo al recettore corpuscolato. Nelle fibre mieliniche più piccole e in quelle amieliniche, a lenta velocità di conduzione, i terminali periferici sono invece privi di strutture connettivali circostanti e vengono per questo indicati come terminazioni libere. Secondo la classificazione formulata dai premi Nobel J. Erlanger e H.S. Gasser, le fibre mieliniche appartengono al gruppo A, quelle amieliniche al gruppo C; le mieliniche piccole, che presentano perifericamente terminazioni libere, appartengono al gruppo Ad: alcune di esse e numerose fibre C sono preposte alla trasduzione e al trasferimento dell’informazione nocicettiva dalla periferia ai centri nervosi. I nocicettori sono appunto quelle fibre nervose che rispondono a stimoli di intensità tale da provocare dolore in un individuo sano.
A seconda dell’energia rispetto alla quale sono sensibili, i nocicettori si suddividono in meccanici (pressione, stiramento), termici (caldo, freddo), chimici (variazioni dell’acidità ambientale, ischemia, varie sostanze endogene ed esogene).
Tuttavia, la maggior parte dei nocicettori è polimodale, cioè sensibile a due o tre tipi di energia, purché molto intensa. Nella maggior parte dei tessuti, le terminazioni nocicettive sono localizzate nell’avventizia (membrana esterna) dei vasi sanguigni piccoli, vicino al lume vascolare, e negli spazi connettivali. Attualmente è possibile registrare l’attività di una singola fibra nervosa periferica in un uomo sveglio, non sottoposto ad anestesia e in grado di valutare l’intensità dello stimolo applicato. Grazie a queste tecniche è stato possibile dimostrare l’esistenza di una buona relazione tra la soglia di un nocicettore, ovvero l’intensità minima occorrente a eccitarlo, e l’intensità minima per produrre la sensazione di dolore; con l’aumentare dell’intensità dello stimolo, si assiste a un contemporaneo aumento della frequenza di scarica del nocicettore e della sensazione di dolore. Quindi i nocicettori, al pari di altri recettori, sono in grado di codificare esattamente la sede, l’intensità dello stimolo (almeno inizialmente) e, nel caso dei nocicettori unimodali, anche la sua natura.
Per la codificazione della durata, invece, la situazione è più complessa. Infatti il nocicettore è sensibile alle modificazioni del microambiente nel quale è situato: in genere lo stimolo nocivo, specie se applicato a lungo o ripetutamente, produce una lesione e un processo infiammatorio che persistono anche dopo la cessazione dello stimolo esterno. Nella zona colpita si assiste alla comparsa di numerose sostanze, dette algogene perché stimolano il nocicettore, le quali producono anche vasodilatazione ed edema e contribuiscono alla risposta infiammatoria. Esse provengono da tre fonti diverse:
a) dalle cellule danneggiate dallo stimolo;
b) dai substrati liberati dalla lesione o dai vasi;
c) dal nocicettore stesso.
Queste sostanze non hanno lo stesso effetto: per es. il potassio ione, che fuoriesce dalle cellule lese, la serotonina o l’istamina, che derivano rispettivamente dalle piastrine e dai mastociti, e la bradichinina, che proviene dalla frammentazione di grosse molecole proteiche plasmatiche, attivano direttamente il nocicettore, che in questa condizione si comporta anche come un sensore chimico o chemocettore. Altre sostanze, quali le prostaglandine e i leucotrieni rendono il nocicettore particolarmente sensibile alle sostanze algogene attivatrici sopra menzionate. È interessante ricordare che alcuni farmaci, come per es. l’aspirina, leniscono il dolore perché impediscono la formazione delle prostaglandine rendendo praticamente inefficaci le altre sostanze algogene. Infine, anche il nocicettore, tramite una diramazione collaterale della fibra nervosa, rilascia nella zona stimolata diversi neuropeptidi, il più noto dei quali è la sostanza P. Tali neuropeptidi si liberano praticamente soltanto quando c’è uno stimolo doloroso che, eccitando il nocicettore, produce il potenziale d’azione, il quale, propagandosi anche alla fibra collaterale contenente peptidi, libera tale sostanza. Il fenomeno, caratteristico e precipuo dei nocicettori polimodali C, assume varie denominazioni: infiammazione nervosa o neurogena, riflesso assonico, attivazione antidromica (nella direzione opposta). I peptidi liberati, inoltre, rendono il nocicettore stesso molto più sensibile alle altre sostanze algogene.
In generale, si dice che le sostanze algogene sensibilizzano il nocicettore, poiché ne abbassano la soglia di risposta – è sufficiente cioè uno stimolo meno intenso per attivarlo – e ne prolungano e accentuano l’attività. Questo spiega perché alcuni analgesici locali, come per es. la novocaina, bloccando la conduzione elettrica nelle fibre periferiche nocicettive della zona in cui sono iniettati, aboliscono non soltanto la sensazione di dolore, ma anche la secrezione dei neuropeptidi, e quindi, diminuendo l’efficacia delle sostanze algogene, riducono anche l’edema e la vasodilatazione.
Dal punto di vista soggettivo, la sensibilizzazione dei nocicettori ha come corrispettivo l’iperalgesia, cioè un abbassamento della soglia del dolore nella zona lesa: è esperienza comune che è sufficiente un semplice sfregamento a provocare dolore in una zona che ha subito un trauma o una lesione recente. L’infiammazione e le sostanze algogene liberate attivano anche alcuni nocicettori chimici, i quali a loro volta diventano sensibili anche a stimoli meccanici e termici. Questa sensibilizzazione supplementare aumenta il numero dei nocicettori che inviano messaggi ai centri. In conclusione, nella zona in cui uno stimolo nocivo ha agito per un tempo prolungato si creano le condizioni perché i centri ricevano un maggior numero di potenziali di azione dal maggior numero di nocicettori presenti nella zona stessa. Dal punto di vista soggettivo, si assiste spesso anche all’iperalgesia secondaria, cioè all’abbassamento della soglia del dolore nelle aree circostanti alla lesione: questo fenomeno è particolarmente importante perché in queste zone i nocicettori non sono sensibilizzati e l’abbassamento della soglia al dolore dipende da fattori che agiscono a livello del sistema nervoso centrale (v. oltre).
La maggior parte degli studi sperimentali condotti sull’uomo e sull’animale ha avuto per oggetto il dolore cutaneo, tuttavia le nozioni in nostro possesso ci consentono di ritenere che i meccanismi che agiscono nel dolore profondo siano abbastanza simili a quelli che agiscono nel dolore viscerale. Per es., il dolore viscerale si accompagna in quasi tutti i casi a infiammazione, e quindi alla presenza di sostanze algogene e di irritanti chimici. I visceri possiedono una minore densità di innervazione dei tessuti somatici e in essi quasi tutte le afferenze sensoriali sono costituite da fibre Ad e C, che peraltro non sono necessariamente dolorifiche. Nel dolore viscerale la componente motoria può essere costituita da uno spasmo, cioè da una contrattura prolungata della muscolatura viscerale, durante la quale si instaura anche ischemia, con conseguente eccitazione dei nocicettori chimici.
Anche i nervi periferici possono subire lesioni. A seguito di una compressione, come nel caso di una protuberanza ossea neoformata in condizioni di artrosi, il nervo va incontro a processi infiammatori che facilitano l’insorgenza dei potenziali di azione nella sede della lesione, invece che nell’estrema periferia della fibra. In questi casi si assiste al fenomeno del dolore proiettato, in cui il paziente ritiene che il dolore sia localizzato nelle terminazioni delle fibre, dove normalmente hanno luogo la trasduzione e la generazione dell’evento elettrico. È il caso della compressione, a livello spinale, delle radici del nervo sciatico: il dolore viene riferito alla parte posteriore della coscia e della gamba dove le fibre vanno a terminare. Infine va detto che il tessuto nervoso non è innervato: solo le meningi, le membrane che avvolgono il cervello, possiedono terminazioni nervose, per cui, in caso di infiammazione (meningite) o di grosse compressioni, si può avere forte dolore. Nel comune mal di testa il dolore non proviene dal cervello, ma è dovuto alle modificazioni (sostanze algogene) che si verificano attorno ai vasi extracranici, riccamente innervati da terminazioni nocicettive.
Nel sistema nervoso centrale, le informazioni sensitive entrano nel midollo spinale dalle radici posteriori dei nervi spinali e nel tronco encefalico dai nervi cranici. Il midollo spinale in sezione trasversa appare formato da due componenti: la sostanza grigia, situata all’interno e costituita da neuroni, fibre terminali e relative sinapsi, e quella bianca, all’esterno, che contiene unicamente fibre nervose, sia ascendenti sia discendenti.
Le fibre periferiche possono andare a formare alcuni fasci ascendenti (per es. i cordoni posteriori situati nella sostanza bianca dorsale) o prendere contatto sinaptico con i neuroni della sostanza grigia. Questi ultimi si dispongono a lamine: le prime sei costituiscono il corno posteriore; delle altre, la settima va a formare la zona intermedia, l’ottava e la nona formano il corno anteriore. I neuroni della lamina II, coni dendriti e le connessioni con i neuroni della I, formano la sostanza gelatinosa di Rolando. Le informazioni nocicettive provenienti dalla periferia e trasportate dalle fibre Ad e C prendono contatto sinaptico prevalentemente con le cellule delle lamine I, detta anche lamina marginalis, e V, spesso dopo aver viaggiato tra le fibre ascendenti o discendenti del tratto di Lissauer. I neuroni delle lamine I e V inviano il loro assone nella porzione controlaterale del midollo spinale, dove vanno a formare la via spinotalamica, un tratto complesso costituito con il contributo di assoni provenienti anche da altre lamine. Alcuni neuroni della lamina I, tramite il tratto di Lissauer, si mettono in contatto con neuroni situati al di sopra e al di sotto di essi. Gli stessi neuroni ricevono influenze potenti da parte di interneuroni spinali, sia eccitatori sia inibitori, a loro volta controllati non solo da informazioni provenienti da strutture periferiche ma anche da sistemi discendenti che hanno origine a vari livelli sopraspinali.
Dal midollo spinale l’informazione nocicettiva elaborata e integrata si porta ai centri superiori tramite il sistema spinotalamico, che si articola in due componenti principali, il fascio spinotalamico ventrale e quello laterale. Il fascio spinotalamico ventrale, polisinaptico, si connette con varie stazioni della formazione reticolare bulbomesencefalica e termina nei nuclei intralaminari del talamo, da dove l’informazione viene trasmessa alla corteccia in maniera diffusa. Dalla formazione reticolare originano anche sistemi ascendenti che si portano all’ipotalamo, al setto e a tutte le strutture che costituiscono il lobo limbico. Il fascio spinotalamico laterale, monosinaptico, è responsabile di una trasmissione nocicettiva codificata e precisa, che termina nei nuclei ventrobasali del talamo, i quali a loro volta proiettano nella corteccia somatosensoriale controlaterale. È importante ricordare che mentre l’informazione dolorifica cutanea viene trasportata ai centri sopraspinali in canali separati e segregati, quella originantesi dai tessuti profondi, e soprattutto dai visceri, non possiede una via separata, nel senso che non esistono neuroni del sistema nervoso centrale deputati esclusivamente al trasporto di questi segnali; ciò costituisce uno dei motivi per cui tale informazione viene percepita in maniera imprecisa e talvolta distorta. È quello che si verifica in numerose circostanze patologiche, nelle quali una lesione viscerale è percepita superficialmente, oppure in zone lontane superficiali o profonde. L’informazione che origina dalla faccia tramite il nervo trigemino, anziché articolarsi nel midollo spinale, trova strutture e neuroni analoghi nel tronco encefalico, da dove viene poi proiettata al talamo e, di lì, alla corteccia.
Le nozioni sui sistemi ascendenti sono acquisite da oltre mezzo secolo; molto dopo è stata appurata l’importanza di sistemi discendenti inibitori. È interessante ricordare che a tutte le stazioni in cui originano vie inibitorie sul sistema nocicettivo arriva l’informazione periferica nocicettiva; ciò ha una logica operativa: i sistemi antidolorifici sono messi in azione soprattutto quando il dolore è presente. I principali sistemi inibitori, a seconda dei mediatori liberati, vengono definiti oppiati e aminergici. I sistemi oppiati (il termine deriva dal fatto che la loro azione analgesica e le loro proprietà di legame nei siti sinaptici sono simili a quelle dei derivati dell’oppio come, per es., la morfina) liberano diversi mediatori peptidici, i più noti dei quali sono le encefaline, le b-endorfine e la dinorfina: le encefaline sono rilasciate soprattutto da interneuroni localizzati a vari livelli dei centri assiali (lamina II del midollo spinale, sostanza grigia periacquedottale mesencefalica, sostanza reticolare bulbare), mentre le b-endorfine sono sintetizzate dai neuroni del nucleo arcuato dell’ipotalamo e da quelli del nucleo del tratto solitario. Gli assoni dei neuroni b-endorfinergici terminano in varie stazioni encefaliche, soprattutto nella sostanza grigia periacquedottale. I neuroni aminergici hanno sede troncoencefalica e inviano al midollo spinale assoni che decorrono nel funicolo dorsolaterale e terminano a livello dei neuroni di origine del fascio spinotalamico, dove liberano rispettivamente serotonina e noradrenalina. Nella parte rostroventrale bulbare (nucleo del rafe magno) origina la via serotoninergica, nella parte dorsolaterale del ponte originano neuroni noradrenergici.
3.
L’eccitazione, da parte dei nocicettori periferici, dei corrispondenti neuroni del sistema nervoso centrale scatena in questi ultimi due meccanismi di modulazione di natura opposta: uno eccitatorio, che tende ad aumentare e a prolungare l’attività nervosa; l’altro inibitorio. Dall’interazione dei due meccanismi e dalla potenza dei fattori che li controllano dipende, l’esperienza individuale del dolore.
I fattori di amplificazione rientrano nella categoria della sensibilizzazione. In risposta a stimoli nocicettivi ripetuti, i neuroni del corno posteriore diventano sempre più facilmente eccitabili, fino a rispondere anche a stimoli normalmente innocui e provenienti da aree vicine alla lesione ma funzionalmente intatte. L’aumento della frequenza di scarica e la diminuzione della soglia di dolore si verificano grazie a diversi fattori relativi alla liberazione di mediatori eccitatori che agiscono a tempi sia brevissimi (millisecondi), come il glutamato, sia più lenti (secondi), come la sostanza P, ma anche agli effetti che questi producono indirettamente facilitando l’ingresso di calcio nel neurone. Il calcio intracellulare, infatti, se diventa molto abbondante per uno stimolo che si prolunga per ore o giorni, può modificare alcuni sistemi genetici nel neurone, rendendolo supereccitabile a lungo, anche per sempre. In una catena di neuroni tra loro collegati, se a un certo livello l’attività aumenta, l’effetto si ripercuote in quelli successivi.
Tali modificazioni, una volta iniziate, persistono anche se si abolisce la causa scatenante, cioè lo stimolo nocicettivo periferico, e hanno tutti i caratteri della memoria. Conseguenza importante di ciò è che il dolore può essere percepito anche dopo la cessazione dello stimolo periferico. In certe condizioni patologiche, i neuroni centrali nocicettivi spinali e talamici possono scaricare ad alta frequenza anche quando la periferia è permanentemente abolita, come nel caso di sezioni dei nervi o delle vie. Si parla allora di dolore da deafferentazione o di anestesia dolorosa, perché il paziente sente il dolore in un’area dove non ha alcuna sensibilità, nemmeno al dolore provocato. Il rischio di anestesia dolorosa ha scoraggiato l’applicazione di terapie neurolesive (sezione dei nervi periferici, delle radici, posteriori, delle vie spinotalamiche) in casi intrattabili di dolore. Una situazione estrema è rappresentata dal dolore dell’arto fantasma, in cui il dolore viene percepito in una parte precisa di un arto amputato.
Dal punto di vista terapeutico è quindi importante impedire che si formi la traccia mnemonica, intervenendo immediatamente a vari livelli, oppure addirittura prima che questo si verifichi, come nel caso di operazioni chirurgiche in cui la lesione è obbligatoria e prevedibile. In questo caso, si agisce a livello periferico: a) con analgesici locali, che impediscono la trasmissione sinaptica dell’informazione nocicettiva e bloccano la liberazione di sostanza P (infiammazione neurogena); b) con analgesici antinfiammatori come l’aspirina, che, impedendo l’azione delle prostaglandine, riducono gli effetti delle sostanze algogene e, quindi, impediscono la sensibilizzazione del nocicettore.
La somministrazione contemporanea anche di analgesici centrali, quali la morfina, fa sì che quella parte di informazione nocicettiva che riesce ad arrivare ai centri venga bloccata prima che sia in grado di modificare l’eccitabilità dei neuroni spinotalamici.
Importanti sono anche i già ricordati meccanismi di controllo inibitorio, che sono in grado di ridurre l’arrivo dell’informazione nocicettiva ai centri. Quando il dolore è presente, anche stimoli periferici innocui, quali i massaggi nelle zone circostanti la lesione, l’agopuntura, il freddo, la stimolazione elettrica transcutanea, possono attivare i processi di controllo inibitorio sia oppiati sia aminergici. Sperimentalmente si può ottenere analgesia, cioè abolizione selettiva dell’informazione dolorifica con conservazione di quella innocua, stimolando sia elettricamente sia chimicamente (impianto o iniezione di mediatori o di farmaci) varie strutture cerebrali, come la sostanza grigia periacquedottale mesencefalica e il nucleo del rafe magno, dove appunto sono situati i neuroni aminergici e le terminazioni di quelli oppiati. Tali effetti sono stati ottenuti in varie specie animali e anche nell’uomo. Ciò che è più importante ricordare, però, è che questi meccanismi di controllo sono messi in atto in svariate condizioni naturali in cui sono presenti aspetti emotivi, quali ansia, paura, agonismo. Responsabile dei meccanismi di adattamento all’ambiente e di controllo dell’informazione che si esplicano tramite le strutture troncoencefaliche è infatti il lobo limbico, una struttura cerebrale che gioca un ruolo decisivo nelle emozioni.
Nei pazienti in preda a dolore cronico si assiste spesso a cambiamenti vistosi dell’attività fisica e dell’atteggiamento verso la vita, fino alla comparsa di una vera e propria depressione. Le risposte non sono comunque univoche: alcuni pazienti reagiscono al dolore cronico ignorandolo, altri abbandonandosi a esso con fatalismo, altri ancora impegnandosi a fugarlo con ogni mezzo disponibile. Le prospettive di efficacia terapeutica sono molto diverse per queste categorie di malati, e solo i pazienti che reagiscono attivamente e si impegnano hanno buone probabilità di migliorare la propria situazione. Le possibilità di miglioramento riguardano due aspetti differenti: l’intensità del dolore e la sofferenza. Nel primo caso, il paziente riesce a mettere in atto un meccanismo capace di ridurre o abolire il dolore, mentre nel secondo impara a sopportarlo, evitando che questo lo allontani dai suoi interessi e gli impedisca di mantenere normali rapporti sociali. È interessante rilevare che, pur essendo noti i meccanismi neurofisiologici del controllo e le tecniche per renderli operativi, non è assolutamente chiaro come ciò possa avvenire.
La conseguenza più importante delle conoscenze in nostro possesso è che, comunque, risulta possibile allenare un paziente a usare varie tecniche di distrazione mentale (training autogeno, ipnosi ecc.) che tolgono al dolore la componente emotiva. L’efficacia di tali tecniche dipende da molti fattori: anzitutto dall’impegno e dalla fiducia del malato nel medico e nel trattamento. A sua volta, l’atteggiamento del malato dipende dal carattere, dalla personalità, dall’educazione e dagli esempi ricevuti nell’infanzia, da esperienze più o meno riuscite di controllo del dolore pregresse o in atto. È chiaro che la terapia del dolore cronico presuppone spesso l’assistenza di un gruppo di specialisti che aggrediscano il problema a più livelli e usino contestualmente mezzi chimici (farmaci), fisici (massaggi, agopuntura, freddo ecc.) e psicologici. A proposito di questi ultimi, è un dato acquisito che anche gli atteggiamenti meno espliciti del personale sanitario o dei parenti possono influenzare l’esperienza di dolore del malato e giustificare sia la disperazione di un individuo che si sente abbandonato, ingannato, in preda a un male inguaribile, sia la serenità di colui che percepisce le attenzioni e l’affetto di un ambiente solidale.
Ciò che unifica l’insieme molto vario e differenziato di esperienze soggettive cui ci si riferisce con il termine dolore è il fatto di essere tutte sgradevoli e afflittive, distribuite lungo una scala che va da un minimo, che può consistere in un semplice turbamento della serenità, a un massimo, che può raggiungere l’insopportabilità.
Del dolore è innanzitutto possibile distinguere una dimensione fisica, risultato della rottura di una barriera protettiva, esterna o interna, in un’area circoscritta del corpo: è un segnale di allarme che avverte che si è verificata un’offesa all’integrità fisica o funzionale dell’organismo. Questo tipo di dolore rappresenta un’esperienza comune all’uomo e all’animale (già nei Rettili e forse anche nei vegetali), che è percepita direttamente senza la mediazione di ricordi, della parola, di rappresentazioni; essa appartiene cioè all’ambito della ‘presentazione di organo’, definita Darstellung da S. Freud, e si trasmette attraverso vie nervose che sono proprie del midollo spinale, dalla periferia sensoriale al talamo ottico. La teoria di P.D. MacLean (1978) permette di attribuire questa esperienza al ‘cervello rettiliano’ (base del protoencefalo, tronco e ipotalamo).
Il dolore può poi presentarsi come sofferenza psichica, arricchita da rappresentazioni (Vorstellung), che implicano ricordi, ansietà, paure, rapporti con persone o contenuti mentali fonti di trauma e come tali verbalizzabili, rientrando così nell’ambito della ‘presentazione di parole’. Oltre che all’uomo, questo tipo di dolore è accessibile, seppure in parte, anche ai Mammiferi superiori; ha una dimensione motivazionale-affettiva e si pone in funzione delle esperienze del passato. Anche in questo caso le vie nervose sono specifiche e salgono fino alla formazione reticolare del tronco cerebrale e del sistema limbico. Con riferimento alla tripartizione cerebrale di MacLean, questo tipo di dolore è riferibile al ‘cervello protomammiferiano’ (amigdale, setto, fornice).
Il dolore può infine essere vissuto come ‘patema’ o dolore mentale, a livello simbolico, estensivo al passato e al futuro oltre che al presente. Si esperisce in una dimensione cognitivo-valutativa e dipende dall’evoluzione personale e culturale del soggetto che la vive. Secondo la teoria di MacLean è da attribuire all’attivazione di aree encefaliche corticali, soprattutto frontali, da parte di messaggi sensoriali e affettivi, con partecipazione delle strutture reticolari e limbiche. È un’esperienza esclusiva dell’Homo sapiens sapiens, la quale, per il fatto di implicare conoscenza, ricordi ed emozioni, si presenta come dimensione dell’esistenza piuttosto che della sopravvivenza, come accade invece per gli altri due tipi di dolore. La teoria di MacLean porta all’attribuzione di essa alla neocorteccia, specialmente quella frontale.
Sulla base di questa tripartizione, si può dire che il soggetto umano è suscettibile di patimenti al primo livello (quello fisico), trasferisce sempre questa esperienza al secondo livello (quello della sofferenza psichica), e può anche tradurla al terzo (quello del dolore mentale); la differenza consiste nel fatto che la sofferenza rinchiude, è ‘mito-poietica’, mentre il dolore mentale apre agli altri e ha capacità ‘simbolo-poietica’.
Questa varia articolazione e le reciproche interferenze tra i diversi livelli fanno sì che si possa non provare dolore per ferite somatiche anche gravissime, provarne intensamente per stimoli algogeni trascurabili, soltanto immaginati o previsti, ricavare dolore o piacere da una stessa esperienza, trasformare una sofferenza fisica, anche atroce, in testimonianza di amore altruistico. A tale riguardo l’evoluzione fisiologica, sottesa dall’opera pedagogica o da quella correttiva della terapia di profondità o analitica, ha per fine di facilitare il processo per cui si apprende a trasformare una sofferenza, conchiusa nel circuito corpo-mente-corpo, in dolore mentale, creativo di simboli e promotivo del benessere individuale e collettivo. Secondo questa impostazione, infatti, il dolore umano può essere vissuto sia come sofferenza, esperienza riduttiva che tende al mero restauro e, come tale, è imparentata con i processi patologici della nevrosi e della psicosi, sia come dolore mentale, il quale non esaurisce la sua funzione nel restauro, ma tende anche alla crescita.
In quanto disciplina interessata ai problemi della evoluzione normale e patologica, la psicoanalisi ha messo a fuoco tre processi che, in fasi successive, mettono in moto queste possibilità alternative. Il primo di questi processi riguarda il dolore che il feto e il bambino piccolissimo provano, quando a essi manca sistematicamente la soddisfazione delle esigenze fondamentali di sazietà, di accoglimento, di tranquillità. È un dolore biologico e psicologico al contempo, che produce l’invidia, descritta da M. Klein (1957) come il sentimento distruttivo che mira all’attacco di chi ha e di chi è buono.
L’invidia è una tipica sofferenza che rimane nel corto circuito corpo-mente-corpo e non fa crescere. Se il piccolo, al posto di questa sistematica frustrazione, trova invece sufficiente gratificazione, ogni sua residua e inevitabile insoddisfazione dà luogo a un dolore mentale. In questo caso, il soggetto avverte la mancanza della gratificazione attesa e la reazione rabbiosa cui essa dà luogo, ma invece che all’invidia si apre alla colpa per la rabbia provata, alla depressione promotiva e al desiderio della riparazione: questo è stato descritto dalla Klein come il passaggio dalla posizione schizoparanoidea a quella depressiva. Il secondo processo è legato all’esperienza di perdita che il soggetto prova quando giunge a percepire di essere separato dalla madre e di non poter far nulla al riguardo. Anche in questo caso, se la perdita è reale, intensa, sistematica, si manifesta una sofferenza, nella forma di depressione involutiva o malinconia; se invece è limitata, in intensità e frequenza, quello che si mette in moto è il dolore mentale del cordoglio, del lutto, limitato nel tempo, aperto alla sublimazione e, come tale, ricreatore di vita: ciò è stato descritto dalla Klein come causa di gratitudine. Infine, il bambino prova per tempo la propria inferiorità nella competizione con i rivali, gli adulti e, fra di essi, in primo luogo con il padre (o la madre, se si tratta di una bambina). In questo caso, la sofferenza che si rivela possibile in chiave negativa e mitopoietica è la gelosia; all’opposto, il dolore mentale dell’inferiorità stimola all’emulazione, al superamento perfettivo del competitore, all’identificazione di crescita con lui: è ciò che Freud (1923) ha chiamato il superamento del complesso di Edipo.
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