DOMANDA (XIII, p. 108)
Politica della domanda. - Consiste in diversi tipi d'intervento diretti a modificare la d. aggregata di beni di consumo e d'investimento, in modo da evitare eccessi di d. (con conseguente inflazione, v. in questa App.) e insufficienze di d. (con conseguente disoccupazione, v. App. II, 1, p. 791).
Gli strumenti mediante cui si attua il controllo della d. sono costituiti essenzialmente dalla politica fiscale e dalla politica monetaria (nonché dalla politica dei redditi, v. in questa App., un aspetto della quale sono i controlli diretti, tra cui il controllo dei prezzi; v. prezzo, in questa App.).
Sebbene la distinzione tra questi due tipi d'intervento sia controversa, si può definire la politica fiscale come il complesso di misure che fanno riferimento a variazioni della spesa pubblica e/o del prelievo tributario, e la politica monetaria come il complesso di misure che riguardano la variazioni dell'offerta di moneta e credito bancario e la composizione del debito pubblico.
Sulla base di queste definizioni, è politica fiscale la variazione delle entrate e/o della spesa pubblica cui può anche corrispondere una modifica dell'ammontare assoluto del debito, ma non della sua composizione (per cui la possibile variazione dell'ammontare del debito non modifica le proporzioni delle obbligazioni pubbliche). È, invece, politica monetaria la variazione dell'offerta di moneta e della composizione del debito pubblico.
La p. della d., intesa nel senso anzidetto, è stata suggerita da J. M. Keynes nell'opera Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta (1936), la cui argomentazione di fondo è che il sistema dell'economia di mercato non avrebbe, in sé, caratteristiche tali da garantire, in assenza d'interventi correttivi esterni, la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Da ciò la necessità che le autorità governative intervengano, per adeguare la d. all'offerta, con azioni che, a seconda delle necessità, possono essere espansive o restrittive. A queste giustificazioni dell'intervento dello stato, fondate su considerazioni di periodo breve, si aggiungono, nell'opera keynesiana, ulteriori argomenti in favore della p. della d., che riguardano il periodo lungo: secondo Keynes, con lo sviluppo del reddito nazionale aumenta la propensione al risparmio della collettività, con il risultato che diventa sempre meno probabile il conseguimento dell'equilibrio tra d. e offerta globali. Poiché, d'altra parte, non vi è alcuna garanzia che gl'investimenti costituiscano una quota crescente di reddito nazionale, ne deriva la necessità di una continua espansione della d. pubblica, al fine di evitare la stagnazione economica (v. consumo; monetarismo, in questa App.).
Politica fiscale. - L'azione della politica fiscale può essere illustrata nel modo più semplice partendo dalla relazione di equilibrio tra d. aggregata (di beni di consumo, c e di beni d'investimento, I) e offerta aggregata (che costituisce il reddito nazionale lordo, Y) e sulla base dell'ipotesi (corrispondente alle condizioni dell'economia dei paesi occidentali negli anni in cui Keynes scriveva la Teoria generale) che il reddito nazionale di equilibrio, Y0, sia inferiore a quello di piena occupazione, Y*.
In questo caso, dato che la d. è insufficiente, le autorità governative devono stimolarla mediante un aumento della spesa o una riduzione d'imposte, in modo da consentire all'offerta di adeguarsi alle potenzialità del sistema economico, assorbendo i fattori produttivi disoccupati.
L'aumento della spesa pubblica, sia per acquisto di beni di consumo che per acquisto di beni d'investimento, dev'essere tale da riportare l'economia al livello di piena occupazione, tenendo conto degli effetti moltiplicativi che ne derivano. Rinviando all'apposita voce (v. moltiplicatore, App. III, 11, p. 149) per ulteriori approfondimenti, si può ricordare che ogni spesa autonoma dal reddito nazionale (sia spesa per investimenti privati o spesa per consumi e/o investimenti pubblici) dà luogo a flussi di spesa commisurati alla propensione marginale al consumo (c) [per es.: un incremento di spesa per beni e servizi per un valore di 1000 dà luogo ai seguenti flussi: 1000 + c1000) + c (c1000) + c(c21000) + ..., cioè: (1 + c + c2 + c3 + ...) 1000 e quindi: [1/(1 − c)] 1000]. Di conseguenza, un opportuno aumento della spesa pubblica, ΔG, potrà far aumentare il reddito nazionale fino a raggiungere il livello desiderato, dato il valore del moltiplicatore K = Y* − Y0/ΔG [=1/(1 = c)].
Bisogna notare che questo risultato, valido (con alcune limitazioni di cui si dirà in seguito) per le spese per beni e servizi, non si applica, invece, alle spese per trasferimenti, per le quali il valore del moltiplicatore è minore, in quanto pari soltanto a c/(1 − c), in quanto il trasferimento, di per sé, non costituisce un incremento di domanda; per es.: un incremento di spesa per trasferimenti per un valore di 1000 dà luogo ai seguenti flussi: c 1000 + c (c 1000) + c (c21000) + ..., cioè: (c + c2 + c3 + ...) 1000 e quindi: [c/(1 − c)] 1000.
Mediante le riduzioni d'imposte, la pubblica amministrazione incide sulla d. aggregata in modo indiretto, in quanto aumenta le risorse che i privati possono destinare alla spesa per beni e servizi. Anche in questo caso gli effetti sul reddito nazionale sono superiori all'impulso iniziale dato alla d., per il verificarsi del processo moltiplicativo. Tuttavia, l'effetto sul reddito nazionale della manovra del prelievo fiscale è minore di quello dovuto a una variazione di pari ammontare (e di segno opposto, ovviamente) della spesa pubblica. In questo caso, infatti, analogamente a quanto accade nell'ipotesi di spesa per trasferimenti, non vi è un effetto immediato sulla d., ma soltanto un effetto indiretto, dovuto alla variazione dei consumi dei privati in seguito all'aumento del loro reddito disponibile; per es.: una riduzione del gettito dell'imposta personale sul reddito per un ammontare di 1000 darà luogo ai seguenti flussi di spesa da parte dei privati: c 1000 + c (c 1000) + c (c21000) + ..., cioè: (c + c2 + c3 + ...) 1000 e quindi, anche in questo caso: [c/(1 − c)] 1000. Deriva da ciò che, a parità di ammontare, l'incremento di spesa pubblica, ΔG, darà luogo a un aumento di reddito nazionale maggiore della riduzione d'imposta, − ΔT, per cui, se si vuole conseguire con i due strumenti un'identica variazione del reddito nazionale l'ammontare assoluto della variazione tributaria dev'essere più elevato, in misura inversamente proporzionale all'entità della propensione marginale al consumo: ΔT = ΔG/c. (Si noti, tuttavia, che non si prende in considerazione, in questo tipo di valutazioni, la possibilità che questi due strumenti possano avere effetti diversi sugl'incentivi alla produzione e all'investimento).
Appare chiaro da quanto precede che l'uso degli strumenti fiscali per il controllo della d. è in contrasto con il tradizionale principio del pareggio annuo del bilancio. Infatti, se all'espansione della spesa si accompagnasse un aumento tributario di ammontare identico, ovvero alla riduzione d'imposta corrispondesse una diminuzione di spesa, l'effetto espansivo della politica fiscale sarebbe notevolmente ridotto. È bene chiarire, peraltro, che un effetto espansivo, pur se di entità più modesta, si avrebbe comunque, in quanto, proprio per le diverse ripercussioni che hanno sulla d. le variazioni della spesa per beni e servizi e quelle dei tributi, la loro differenza ha un valore positivo, pari all'entità dello stesso incremento di spesa. Infatti, nell'ipotesi di un incremento di spesa per un ammontare pari a 1000, finanziato con un corrispondente incremento d'imposta personale, la somma algebrica dei flussi di spesa sarebbe la seguente: [ (1 + c + c2 + c3 + ...) − (c + c2 + c3)] 1000 = 1000; un metodo diverso, ma altrettanto significativo, per mettere in evidenza questo effetto, è quello del ricorso alla somma algebrica dei moltiplicatori della spesa e dell'imposizione: [1/(1 − c)] 1000 − [c/(1 − c)] 1000 = 1000. Questo secondo metodo consente di comprendere più facilmente il motivo per cui si afferma che la politica fiscale con bilancio in pareggio dà luogo a un "moltiplicatore pari all'unità". È superfluo osservare che, qualora la variazione di spesa riguardi i trasferimenti, l'effetto sul reddito nazionale della politica fiscale con bilancio in pareggio non può che essere nullo.
A proposito del principio del pareggio, bisogna accennare al fatto che negli ultimi anni, soprattutto ad opera degli economisti americani, ha avuto un certo successo la proposta d'introdurre la regola secondo cui il bilancio pubblico dovrebbe essere strutturato in modo tale che, se il reddito nazionale fosse al livello di piena occupazione, le entrate e le spese dovrebbero essere uguali. Secondo i sostenitori di questo principio, la sua applicazione dovrebbe impedire politiche fiscali eccessivamente espansive o eccessivamente restrittive. Sono numerose, tuttavia, le perplessità suscitate da questa regola, anche per le difficoltà pratiche connesse con la sua attuazione, tra le quali vi è quella del conseguimento di una stima attendibile del reddito di piena occupazione.
Qualora si ritenga di attuare una politica della d. che prescinda dal principio del pareggio effettivo, bisogna decidere se far variare la spesa pubblica o le imposte e, inoltre, se tali variazioni debbano riguardare soltanto alcuni elementi o il livello complessivo delle entrate e delle spese. E chiaro che, in concreto, la politica potrà consistere in variazioni sia delle entrate che delle spese, ma in questa sede interessa valutare separatamente gli effetti di questi due strumenti, che hanno proprie peculiarità (anche in relazione ai metodi di finanziamento della spesa pubblica).
L'uso dello strumento della spesa pubblica è stato suggerito soprattutto nelle prime formulazioni della politica fiscale. Gli studi più recenti, tuttavia, concordano nel ritenere che questo strumento sia consigliabile soltanto in caso di depressioni molto gravi, ma non nei casi di normali oscillazioni dell'economia. Se si considera, infatti, la spesa per servizi pubblici, appare evidente come la sua variazione possa essere giustificata soltanto sulla base di considerazioni di efficienza e non delle esigenze di breve periodo proprie della politica di stabilizzazione, che richiedono l'uso di strumenti flessibili, tra i quali non rientra certamente la spesa per servizi pubblici, in quanto non è pensabile che, venuta meno la situazione congiunturale che l'aveva giustificata, una spesa di questo genere possa cessare (mentre è altrettanto impensabile che un servizio pubblico venga reso inattivo a motivo dell'andamento ciclico dell'economia). In linea di massima, non sembra lontana dal vero l'asserzione che l'espansione della spesa per servizi pubblici abbia carattere irreversibile. Considerazioni analoghe dovrebbero valere anche per la spesa per trasferimenti. Quest'ultimo motivo non è valido, invece, per la spesa per opere pubbliche, la quale, peraltro, implica procedure che la rendono uno strumento difficilmente manovrabile. Sotto questo profilo, tuttavia, si è pensato che si potrebbero selezionare una serie di "progetti marginali", da eseguire in caso di necessità di sostegno della domanda. È chiaro, però, che questo metodo potrebbe funzionare, nei limiti di cui si è detto, soltanto per l'espansione della d., ma non per la sua contrazione, non essendo tecnicamente possibile, almeno nella maggior parte dei casi, arrestare l'esecuzione di un progetto di opere pubbliche già iniziato (sul problema dei ritardi temporali propri della politica discrezionale, v. oltre).
In linea di massima, non vi sono problemi così gravi per quanto riguarda l'uso delle variazioni tributarie ai fini del controllo della d. (nell'ipotesi, ovviamente, che il sistema tributario sia adeguato alla politica di stabilizzazione). Anche in questo caso si pone, peraltro, il problema del contrasto con gli altri obiettivi della politica governativa, e particolarmente con quello dell'equità nella distribuzione dei redditi. Si deve scegliere, infatti, tra la modifica di particolari aspetti del sistema tributario (singole imposte, anche per alcune aliquote) e la variazione del complesso dei tributi. Nel primo caso si muterebbe la struttura del sistema tributario, che rimarrebbe, invece, sostanzialmente invariata nel secondo caso. È evidente che questo secondo metodo, sebbene più difficile da applicare, è quello che presenta maggiori probabilità di non interferire con gli altri obiettivi perseguiti. Ciò non esclude, peraltro, che ove le difficoltà economiche siano attribuibili a uno specifico settore, non si debba intervenire con variazioni tributarie per quanto possibile selettive.
Un'ulteriore distinzione tra gli effetti della manovra della spesa pubblica e quelli dell'entrata è costituita dalla diversa composizione della d. che si ha con questi due strumenti d'intervento. Infatti, le variazioni della spesa pubblica sono correlate positivamente col saggio d'interesse, con ulteriori effetti sugl'investimenti privati. Per es., l'aumento della spesa pubblica, sollecitando un incremento della d. di moneta da parte dei privati, può determinare un aumento del saggio d'interesse, e ciò provoca, a parità di circostanze, una riduzione degl'investimenti privati. Le variazioni tributarie, d'altra parte, modificano prevalentemente la spesa privata in beni di consumo.
Politica monetaria. - Consiste nella modifica della liquidità dell'economia, sia mediante il controllo dell'offerta di moneta, sia mediante la manovra del debito pubblico.
Per quanto riguarda il primo tipo d'interventi, si può rilevare che esso consiste in un controllo non solo quantitativo (da attuarsi con i tre strumenti di cui si farà menzione), ma anche qualitativo (mediante la selezione del credito). Il secondo tipo d'interventi, d'altra parte, è il frutto di una visione che intende estendere il controllo monetario non soltanto al sistema bancario, ma all'intero complesso degl'intermediari finanziari, al fine d'influire sulla liquidità complessiva del sistema economico. A questo scopo si ritiene opportuna una politica che, influendo sulla composizione del debito pubblico, modifichi la struttura dei tassi d'interesse e, quindi, la liquidità del sistema.
Il controllo in senso quantitativo dell'offerta di moneta si può attuare essenzialmente mediante le operazioni di mercato aperto, le variazioni del tasso di sconto e la modifica della quota delle riserve bancarie.
Le operazioni di mercato aperto consistono in acquisti (o vendite) di obbligazioni pubbliche da parte della banca centrale, al fine di espandere (o restringere) l'offerta di "base monetaria" detenuta dalle banche, ossia delle attività finanziarie che il sistema bancario è obbligato per legge a detenere in proporzione ai depositi. Mediante le variazioni del tasso di sconto, le autorità monetarie influiscono sui saggi d'interesse, in quanto modificano il prezzo al quale il sistema bancario può indebitarsi con la banca centrale per ottenere base monetaria. Infine, la modifica della quota delle riserve bancarie obbligatorie consente di variare, sia in senso espansivo (quando il tasso viene diminuito), sia in senso restrittivo (se il tasso è aumentato), l'entità della base monetaria detenuta dalle banche e, quindi, la loro possibilità di erogare credito.
Tutti e tre questi strumenti, influendo sull'entità della base monetaria, hanno una notevole incidenza sulla liquidità del sistema. Non v'è, tuttavia, conoscenza attendibile della loro efficacia relativa. Si deve, poi, rilevare che la base monetaria è anche influenzata dal saldo della bilancia dei pagamenti (che, se positivo, la fa aumentare e, se negativo, la fa diminuire), nonché dal saldo del bilancio pubblico (stato ed enti minori) che, se negativo, implica la creazione di base monetaria al fine di soddisfare le esigenze di spesa del settore pubblico.
Il controllo in senso qualitativo dell'offerta monetaria viene attuato attraverso le disposizioni delle autorità monetarie alle aziende di credito e riguarda sia l'erogazione di credito per settori produttivi che l'erogazione territoriale.
La politica del debito pubblico, dal punto di vista strettamente monetario, consiste nel mutamento di composizione di un ammontare nominale di debito costante. La necessità di tale politica è dovuta al fatto che, poiché i diversi titoli hanno differenti scadenze, le autorità monetarie devono provvedere alla sostituzione dei titoli giunti a maturazione con altre emissioni. È chiaro che, a seconda della maggiore o minore liquidità dei nuovi titoli del debito, saranno diverse le ripercussioni di questa politica sul mercato monetario. Lo studio degli effetti della politica monetaria sulla d. - sebbene molto complesso - si basa su alcune considerazioni piuttosto semplici. Si parte dall'ipotesi che gl'investimenti dei privati dipendano dalla liquidità del sistema. Ne deriva che, quanto più ampie sono le risorse monetarie disponibili, tanto maggiori sono gl'investimenti e, quindi, per attuare una politica espansiva bisogna aumentare l'offerta di moneta. Se, invece, si vuole attuare un'azione restrittiva, l'offerta di moneta dev'essere diminuita.
Principali tendenze del pensiero contemporaneo. - Il dibattito scientifico degli ultimi quarant'anni, pur avendo avuto un comune punto di riferimento, costituito dalla Teoria generale di J. M. Keynes, si è sviluppato in direzioni diverse, e spesso divergenti, per cui appare arduo sintetizzare, a metà degli anni Settanta, il pensiero degli studiosi sulla politica della domanda.
Per grandi linee, sembra si possa affermare che due sono stati i principali argomenti di controversia, in parte almeno sovrapposti, sì da renderne alquanto difficile la comprensione.
In primo luogo, un problema che è stato lungamente discusso riguarda la priorità da assegnare, nella p. della d., agli strumenti fiscali e a quelli monetari. Sembra indubbio che la teoria keynesiana sia legittimamente apparsa, sia per il modo, sia per il tempo in cui era stata presentata, come una rivalutazione della politica fiscale rispetto a quella monetaria. Tuttavia, il successivo lavoro di sistemazione della teoria keynesiana nell'àmbito della cosiddetta "sintesi neo-classica" ha tolto rilevanza teorica alla controversia tra sostenitori della politica monetaria e sostenitori della politica fiscale, in quanto ha dimostrato che vi è un'ampia gamma di possibili situazioni nelle quali, a seconda delle ipotesi fatte, può essere più efficace l'uno o l'altro strumento d'intervento. Pertanto, lo stesso "caso keynesiano", inquadrato nella più generale sintesi neo-classica, rappresenta un caso-limite, quello in cui la politica monetaria è inoperante e l'unica politica efficace è costituita dalla politica fiscale (ipotesi della cosiddetta "trappola della liquidità"). Tale dibattito ha avuto, invece, una sua rilevanza dal punto di vista empirico, per accertare le condizioni in cui le diverse politiche operano e, quindi, la loro possibilità di successo.
Un secondo tipo di argomenti riguarda un problema a nostro avviso del tutto diverso, ma che è stato spesso discusso assieme al primo, in quanto è stato oggetto di controversia da parte degli stessi studiosi che avevano dibattuto il primo. Questo problema è quello se il controllo della d. debba essere discrezionale o debba, invece, essere basato su meccanismi d'intervento automatici. Alla base della controversia vi è, oltre la maggiore o minore preoccupazione nei riguardi d'interventi arbitrari nell'economia, anche la considerazione della difficoltà di valutare i tempi entro cui hanno luogo gli effetti della politica fiscale e quelli della politica monetaria. Si segnalano, a questo proposito, tre diversi tipi di ritardo connessi con la politica (fiscale o monetaria) di tipo discrezionale: nel riconoscimento delle condizioni che richiedono l'intervento (recognition lag); nella decisione sulle misure da prendere (decision lag); negli effetti di tali misure sull'economia (effect lag). Dal momento che la previsione di questi ritardi è molto difficile, alcuni studiosi, soprattutto della "Scuola di Chicago" (v. monetarismo, in questa App., anche per il primo problema qui accennato) hanno sostenuto l'opportunità di fare ricorso a meccanismi di tipo automatico, tra cui, dal punto di vista monetario, la regola di far variare la quantità di moneta in proporzione alla variazione annua del reddito nazionale nominale e, dal punto di vista fiscale, il ricorso a una serie di regolamentazioni (denominate, nel complesso, "costituzione fiscale"), dirette a eliminare qualsiasi incertezza circa possibili futuri interventi pubblici.
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