DOMENICANI
L'Ordine religioso dei Frati Predicatori (Ordo Praedicatorum) fu fondato da s. Domenico di Guzman (ca. 1175-1221) e dal suo nome deriva la denominazione di D. con cui esso è comunemente conosciuto.Sfondo storico della nascita dei D. fu la Francia meridionale, percorsa in quegli anni dalle inquietudini degli albigesi, nome con cui vengono definiti gli aderenti al movimento eretico dei catari, i quali, in polemica con la Chiesa, predicavano un rinnovamento morale fondato sull'antitesi tra Bene e Male, spirito e materia, e su un esasperato ascetismo con il conseguente rifiuto del matrimonio, della procreazione, della proprietà privata. Ma, più ampiamente, l'orizzonte va allargato a tutta l'Europa del tempo, dove il diffondersi dell'eresia catara, nota localmente sotto varie denominazioni, e di altri fermenti religiosi ereticali minava la stessa Chiesa, indebolita peraltro nelle sue strutture gerarchiche da malcostume e corruzione.Domenico, proveniente dalla Spagna come accompagnatore del vescovo di Osma, Diego di Acebes, diretto verso la Danimarca in missione diplomatica, entrò in contatto con la travagliata situazione della Chiesa della Francia meridionale, ma anche con la realtà insidiosa dell'Europa settentrionale, in una presa d'atto della necessità di interventi mirati, di testimonianza diretta, per la saldezza nella fede delle popolazioni minate nella loro adesione alla Chiesa di Roma dai fermenti delle diverse eresie.L'incontro a Roma con papa Innocenzo III e il ritorno, nella primavera del 1206, nella Francia meridionale, dove già operavano in funzione antiereticale i Cistercensi, diedero le prime coordinate all'azione di Domenico e del vescovo Diego, che morì alla fine del 1207; la loro opera, comune prima e del solo Domenico poi, vide il nascere tra Prouille e Fanjeaux, a una trentina di chilometri da Carcassonne, di un movimento focalizzato sulla predicazione, la Sancta praedicatio.Fin dal 1206, a Prouille, una comunità femminile catara fu trasformata in un monastero di donne dedite alla vita evangelica, mentre a Tolosa, presso la chiesa di S. Romano, con l'appoggio del vescovo Folco si diedero le basi di un gruppo religioso le cui finalità - lotta contro l'eresia, rinnovamento della vita cristiana alla luce della parola del Vangelo - furono approvate nel 1215 dal delegato pontificio Pietro di Benevento. La scelta di aderire alla Regola di s. Agostino, integrata con le Consuetudini di Prémontré, con una proposta che, in questo modo, non avrebbe urtato la suscettibilità dell'episcopato, in genere diffidente davanti alla nascita di nuove esperienze di vita religiosa, fu alla base dell'assenso da parte del quarto concilio lateranense (novembre 1215); due bolle di Onorio III, del 1216 e del 1217, costituirono, se non una conferma della Regola dei Predicatori, la sostanziale approvazione della loro vita religiosa.La bolla papale dell'11 febbraio 1218 (Si personas religiosas), sollecitata dallo stesso Domenico presente a Roma, indicò la nuova compagine con il nome di Fratres Ordinis Praedicatorum, sciolta da ogni vincolo di vita canonicale e monastica e dedita solo alla predicazione itinerante in povertà, raccomandandone, o meglio esigendone, l'accoglienza da parte di tutti i vescovi.Nel frattempo la prima comunità si era allargata e si erano costituiti importanti nuclei di Frati Predicatori a Parigi e Bologna, sedi delle due più importanti università per lo studio della teologia e del diritto; a Bologna si svolse, nella primavera del 1220, il I Capitolo generale e, immediatamente nell'anno successivo, il II, nel quale si deliberò, tra l'altro, l'espansione dell'Ordine fino all'Ungheria, alla Polonia, alla Danimarca e all'Inghilterra. Sempre a Bologna, nell'agosto 1221, Domenico moriva nel convento di S. Nicolò delle Vigne e veniva sepolto nella stessa chiesa, poi trasformata in edificio memoriale del fondatore dell'Ordine.Molto discussa è la data di origine delle comunità femminili; i primi monasteri delle Domenicane sembrano essere quelli di Prouille, Tolosa, Madrid e Roma, probabilmente fondati dallo stesso s. Domenico.
La questione dei caratteri esterni di edifici abitativi e chiese fu subito posta all'attenzione di s. Domenico e dei primi D., costituendo parte importante sia delle deliberazioni già del I Capitolo generale di Bologna, e poi di molti di quelli successivi, sia delle testimonianze al processo di canonizzazione del fondatore, svoltosi nel 1233, dove l'accento venne posto anche sul suo amore per la povertà, evidente "etiam in edificiis et ecclesiis fratrum": "et volebat quod haberent viles domos et parvas" (Meersseman, 1946).Sebbene la prescrizione "Mediocres domos et humiles habeant fratres nostri, ita quod nec ipsi expensis graventur, nec alii seculares vel religiosi in nostris sumptuosis edificiis scandalizentur", promulgata appunto a Bologna nel 1220 (Meersseman, 1946; Sundt, 1987), sia evidentemente da inserire in un programma finalizzato all'intervento antiereticale e tenda dunque a evitare ogni possibile critica all'Ordine, chiaramente immediata nel caso di edifici non rispondenti a un austero programma di vita, il testo assume rilievo fondamentale proprio per la sua diretta incidenza sulla prassi architettonica.Le connessioni con la legislazione cistercense sono evidenti (Meersseman, 1946), così come l'influenza sulle prescrizioni in campo architettonico dei Francescani, che, a Narbona nel 1260, formularono norme pressoché sovrapponibili. Ma è soprattutto importante notare come appaia sforzo e impegno primario dei successivi Capitoli generali preservarne non solo il dettato, ma anche lo spirito riformatore, intervenendo con fermezza dove la raccomandazione risultasse disattesa; le norme successive divennero anzi ancora più dettagliate, con l'indicazione di rapporti e misure relative soprattutto all'altezza degli edifici, che andavano a colpire là dove le istanze ormai mature dell'architettura gotica potevano maggiormente incidere sulla progettualità dei nuovi edifici dell'Ordine.Si trattava anche di affrontare i problemi determinati da sedi sempre più affollate, soprattutto nei centri più importanti: a Parigi, dal convento creato nel 1217 da sette frati provenienti da Tolosa si passò dopo pochi anni, nel 1224, a una comunità di 120 membri, che sostituì con un nuovo più ampio edificio la prima cappella di Saint-Jacques, ottenuta al momento dell'arrivo a Parigi.Così, forse nel Capitolo parigino del 1228, e comunque prima del 1235, la norma del 1220 fu ribadita e precisata con importanti indicazioni architettoniche: "Mediocres domos et humiles habeant fratres nostri, ita quod murus domorum sine solario non excedat in altitudine mensuram duodecim pedum et cum solario viginti, ecclesia triginta. Et non fiat lapidibus testudinata nisi forte super chorum et sacristiam"; insieme veniva fissata per ogni convento la costituzione di un gruppo di tre frati "sine quorum consilio edificia non fiant" (Sundt, 1987).La cura affinché queste precise indicazioni fossero ovunque osservate si fece particolarmente attenta con il generalato di Umberto di Romans (1254-1263); ne è esempio il Capitolo generale del 1261, nel quale le forme del dormitorio del convento di Barcellona e quelle dei cori delle chiese dei conventi di Colonia e Limoges vennero aspramente criticate. Il Capitolo del 1263, svolto sotto la guida di Umberto di Romans, riprendeva in toto il testo promulgato dai precedenti Capitoli, aggiungendo importanti notazioni circa la decorazione degli edifici, dalla pittura alla scultura, "et aliis similibus que paupertatem nostram deformant" (Sundt, 1987).Per il periodo delle origini, se scarse sono le tracce murarie dei primi edifici, anche per la mancanza di specifiche ricerche archeologiche, le fonti consentono tuttavia di trarre alcune considerazioni. Anzitutto la persistenza e l'importanza per i D. dei modelli di vita monastica, anche nei contesti sociali del tutto diversi in cui si trovarono a operare: nelle prime sedi dell'Ordine, che sono in molti casi ubicate presso chiese preesistenti, preoccupazione preliminare dello stesso s. Domenico appare quella di costruire subito un chiostro, cioè l'elemento che era il punto di snodo della vita monastica nelle abbazie. Ciò avvenne nel Saint-Romain a Tolosa, a S. Nicola a Bologna, a Saint-Jacques a Parigi, a S. Sisto e S. Sabina a Roma (Meersseman, 1946).In alcuni casi, come a Bologna, dove la prima comunità si era stanziata nel 1218 presso la piccola chiesa di S. Maria in Mascarella, l'impossibilità di trovare intorno spazi di espansione portò a un pressoché immediato trasferimento nel 1219 alla chiesa di S. Nicola delle Vigne, dove si iniziò subito la costruzione del chiostro e del capitolo, strutture molto avanzate, se non addirittura già concluse, nel 1221, quando un atto risulta rogato "in claustro et capitulo ecclesiae beati Nicolai iuxta ipsam ecclesiam" (Meersseman, 1946).Nonostante l'importanza dei complessi conventuali dei D., il loro studio è ancora tutto da impostare; l'approccio al problema dell'architettura dell'Ordine è stato infatti limitato quasi esclusivamente alla documentazione delle chiese e ha lasciato decisamente inesplorato il rilevamento delle connesse strutture conventuali, che comunque appaiono nettamente derivate dall'articolazione degli spazi riservati alla vita monastica dei Cistercensi.I primi edifici vennero o distrutti o inglobati in strutture più tarde per fare posto a spazi più ampi, funzionali alla vita religiosa di comunità sempre più numerose; in alcuni casi le loro tracce sono ancora leggibili o sono state recuperate grazie a indagini archeologiche. È il caso, per es., della prima chiesa dei D. a Cracovia, città dove essi si stanziarono già nel 1222, edificio costituito da un semplice vano rettangolare, ora inglobato nella struttura del chiostro dell'attuale complesso conventuale e adibito a refettorio (Grzibkowski, 1983); analoga semplicissima struttura presentano l'edificio rilevato a Praga nel complesso della chiesa di S. Clemente (Humi, 1978) e corrispondente al primo insediamento in città dei D. provenienti da Cracovia (1226) e quello di Gdánsk, individuato durante lo scavo effettuato nel presbiterio della chiesa di S. Nicola (Zbierski, 1956-1957; Grzibkowski, 1983).In altri casi i D. si stanziarono in chiese preesistenti, poi inglobate in edifici più complessi, con trasformazioni che ogni volta si qualificarono come reinterpretazioni delle antiche strutture e conseguente invenzione di inedite articolazioni spaziali, spesso assurte a modello di nuovi edifici. Esemplare in questo senso è il caso del S. Domenico di Bologna, edificio che, per essere luogo della sepoltura di s. Domenico, si costituì - al pari del S.Francesco d'Assisi per l'Ordine francescano - come edificio memoriale di rappresentanza, mausoleo delle reliquie del fondatore (Wagner-Rieger, 1957-1958).L'edificio attuale deriva dalla simbiosi di due diversi spazi, uno corrispondente alle navate dell'antica S. Nicolò, chiesa che l'Ordine aveva ottenuto nel 1219, l'altro al nuovo tratto orientale di navate a volta con transetto e cappelle di coro, aggiunto, a partire dal 1221, per ampliare il vecchio edificio.La soluzione architettonica che ne derivò, generatasi di necessità nella fusione di due diverse strutture, fu assunta come modello per strutture successive, come avviene per es. nel caso del S. Giovanni in Canale di Piacenza, dove il singolare accostamento di coperture in volte a crociera e tetto a vista deriva proprio dal risultato occasionale determinatosi in S. Domenico (Wagner-Rieger, 1957-1958; Cadei, 1980).La costruzione della chiesa di Piacenza, città dove i D. si erano stanziati nel 1218, era iniziata in un luogo a ridosso della cinta urbana tra il secondo e il terzo decennio del secolo e si era conclusa intorno alla metà del secolo o poco dopo (Romanini, 1964; 1978; Segagni Malacart, 1984); l'edificio, strutturato in alzato a sala su tre navate, si caratterizza per un sistema di intercolumni differenziati, presentando, nelle prime campate orientali, intercolumni più ampi che configurano sulla navata centrale campate quadrate a sistema uniforme, mentre la sequenza dei pilastri occidentali determina campate rettangolari in senso trasversale coperte da capriate; sulle navate laterali si impostano invece campate rettangolari in senso longitudinale. La realizzazione delle coperture della parte orientale rivela una sperimentazione in atto sul tema della chiesa 'a sala', con volte a crociera a salita piatta su costoloni torici e con chiave ad altezza quasi coincidente con gli archi di inquadramento (Segagni Malacart, 1984).La chiesa piacentina, anche per la sua precocità, è stata individuata (Wagner-Rieger, 1957-1958) come uno degli edifici chiave per la lettura dell'architettura domenicana, formulandosi in esso una tipologia che, generatasi occasionalmente negli spazi del S. Domenico di Bologna, trovava peraltro rispondenza nelle delibere dei Capitoli dell'Ordine che prescrivevano appunto la presenza di soluzioni voltate solo sugli spazi dei cori, lasciando le più austere coperture a tetto sugli spazi laici dell'ascolto.Si determina così uno spazio di immediata leggibilità ed evidenza scenica che, nel contrasto tra lo spazio occidentale, qualificato visivamente come un atrio a capanna, e quello orientale coperto a volta, quasi baldacchino a risalto e inquadramento dell'altare, dà le coordinate fondamentali per la lettura di un'architettura basata su mezzi e valori gestuali di immediata leggibilità e intensità espressiva, che trasforma radicalmente gli spazi del culto - fino a questo momento dell'architettura medievale articolati, sia pure in modi diversi, essenzialmente come simbolici e allusivi a realtà trascendenti - proponendone una percezione 'drammatica', o meglio presentandoli come "sacre rappresentazioni in pietra" (Romanini, 1978).Per ottenere ciò l'architettura mendicante si avvale di un lessico che, pur attingendo ai più recenti vocabolari, in particolare a quello della lingua architettonica cistercense, dalla quale sono evidenti i prestiti, trasforma e piega i singoli sintagmi in un'accezione per la quale si è parlato di 'volgare', dell'abbandono della lingua colta, del passaggio dal trattato teologico al semplice racconto, "comprensibile perché svolto nella lingua parlata e capita dalla povera gente" (Romanini, 1978).Si tratta di un'architettura, e il caso di S. Giovanni in Canale è esemplare, che, se misurata sul metro della modularità e proporzionalità delle parti, portato a raffinato sistema costruttivo nell'ambito dell'architettura cistercense, dimostra di sbagliare addirittura i rapporti di misura negli intercolumni della navata centrale, contrapponendo le campate rettangolari della parte occidentale a quelle quadrate che precedono e si concludono nel coro, ma realizzando di fatto un sistema ottico di sipari scalati in cadenza che si fa 'drammaticamente' concitata nell'approssimarsi allo spazio conclusivo del coro, spazio della celebrazione dell'atto liturgico.Come modello si costituì anche la chiesa di S. Eustorgio a Milano, ancora un edificio inedito ottenuto per rielaborazione e reinterpretazione di una struttura precedente sottoposta a un intervento di restauro, funzionale alle esigenze dell'Ordine, che si qualifica intervento tra i più interessanti di tutta la storia architettonica domenicana.I D. si installarono a Milano tra il 1216 e il 1220 presso l'antica chiesa di S. Eustorgio, potendo usufruire delle strutture abitative che la affiancavano; a partire dal 1222, come riferisce Galvano Fiamma (Odetto, 1940; Meersseman, 1946), prese il via il ripristino dell'edificio, che, innestando volte a crociera impostate alla stessa altezza sulla navata e sulle navatelle, trasformò lo spazio romanico in quello di una chiesa 'a sala' (Romanini, 1964; Righetti Tosti-Croce, 1984); gli altri interventi riguardarono l'erezione di una nuova facciata e l'inserzione di un braccio di transetto verso S. Il restauro portò alla nascita di un edificio di straordinaria importanza, la chiesa 'a sala' mendicante, che, anche per l'intelligente sfruttamento del sistema uniforme proposto dalla precedente chiesa romanica, si costituì come uno dei momenti più innovativi dell'architettura duecentesca italiana, ricco di esiti per le nette influenze esercitate su una serie di altri edifici distribuiti dalla limitrofa area padano-veneta a un orizzonte più ampio, che si estende per l'Italia fino alla fiorentina S. Maria Novella (Cadei, 1980). A partire dal 1229 si diede il via anche alla costruzione del convento, con il dormitorio, diviso da setti di legno in cellette singole, il capitolo e il chiostro con al centro la fontana per le abluzioni.La descrizione di Galvano Fiamma dei lavori intrapresi dai D. a Milano prosegue con la costruzione nel 1239 di un altro elemento individuante l'architettura domenicana. Si trattava di una separazione tra coro e navate, realizzata tramite un muro trasversale, aperto da una porta e da due finestre attraverso le quali era possibile ai fedeli partecipare ai momenti salienti della celebrazione; al di sopra del muro era ricavato un pulpito. La precisa descrizione di Galvano Fiamma, che riferisce dell'esistenza anche di tre altari aggiunti in seguito a questa separazione oggi del tutto scomparsa, si attaglia perfettamente ai casi sopravvissuti di separazioni inserite in chiese dei D., ma anche dei Francescani, per lo più di area germanica, sovente sviluppate in forma di pontili di struttura spesso complessa, inseriti all'innesto delle allungate strutture del Langchor oppure estesi all'intero corpo delle navate. Per il mutare delle esigenze cultuali queste strutture vennero però spesso rimosse; tra i superstiti un esempio interessante è quello della chiesa dei D. di Erfurt, inserito intorno al 1410, ma forse sulla traccia di un' analoga precedente struttura, a 1/3 della chiesa, articolata in tre navate di quindici campate. Altri esempi sono a Weissenberg, dove il Lettner data ai primi del sec. 14°, a Francoforte e a Basilea, dove è testimoniato sia nella chiesa dei D. sia in quella delle Domenicane.L'idea di questo tipo di separazione può essere raffrontata con analoghe strutture, elaborate da altri ordini religiosi per dividere nettamente gli spazi delle loro chiese; il confronto più prossimo è con i jubés, inseriti dai Certosini (v.) a separare nettamente in due parti distinte lo spazio interno delle loro chiese monastiche, l'una riservata ai monaci, l'altra ai conversi. Nel caso delle chiese domenicane la funzione era però diversa: si determinava infatti uno spazio ambivalente, da una parte quello che potrebbe essere definito ancora monastico, riservato strettamente alla comunità religiosa, dall'altra quello riservato ai laici e alla predicazione, attività precipua dei Domenicani.Una separazione della chiesa tramite un alto muro aperto da finestre con grate è documentata in alcune chiese destinate a comunità domenicane femminili; un setto murario che divide lo spazio mononave in due unità nettamente distinte è ancora presente in due edifici eretti in Ungheria all'inizio degli anni cinquanta del sec. 13°, l'uno sull'isola di Buda, oggi chiamata Isola di Margherita, l'altro a Veszprém (Entz, 1972). Si tratta di una soluzione del problema di mantenere una netta divisione rispetto agli spazi laici della chiesa posto dalle comunità femminili; un esempio monumentale è quello costituito dalla chiesa napoletana di S. Chiara.Un'altra soluzione fu ottenuta inserendo, all'inizio dello spazio longitudinale, una tribuna rialzata, come nella chiesa tedesca delle Domenicane di Lambrecht bei Neustadt a.d. Haardt, dove questa struttura (Westempore) occupa le prime due campate a partire dall'ingresso; anche in questo caso può essere ricordato un parallelo nell'architettura angioina napoletana, quello della chiesa delle Clarisse di S. Maria Donnaregina.Da queste prime indicazioni è possibile ravvisare nella diversità di impianti ricordati l'assenza di un tipo di edificio definibile non solo come chiesa 'domenicana', ma anche come 'mendicante' - estendendo il discorso anche alle similari e spesso contigue vicende architettoniche degli altri ordini, Francescani, Serviti, Eremitani di s. Agostino, che sono di solito inglobati sotto questa definizione -, cioè in altre parole l'inesistenza di un sistema architettonico unitario e tale da rendersi immediatamente riconoscibile, come avveniva nel caso dell'architettura cistercense, dotato di caratteristiche assolutamente peculiari. Ciò è confermato da un'analisi estesa a tutto il panorama europeo; se in alcune aree geografiche sembrano individuabili in presenza percentualmente maggiore particolari tipologie, di fatto queste sono riconducibili solo al momentaneo prevalere di linguaggi architettonici locali, che determinavano il nascere di gruppi di edifici tra loro simili, ma non certamente peculiari dell'intera architettura dell'Ordine.È tuttavia ben individuabile all'interno delle diverse icnografie e varianti nell'articolazione degli spazi la già ricordata tendenza a privilegiare visivamente e, in seguito, anche strutturalmente lo spazio del coro, inteso non solo come ambito dell'altare, ma in senso più ampio anche come spazio riservato ai frati e dunque più esteso per fare posto a comunità di numero sempre crescente.Si determina così la nascita del Langchor, una espansione dello spazio del coro, che si qualifica come un'aula articolata in più campate e diversa dallo spazio delle navate sia per caratteri architettonici, sia per la strutturazione delle sorgenti di luce, con pareti spesso quasi completamente sostituite da finestre molto allungate, sia spesso anche per l'altezza, talora superiore a quella della navata centrale.Due i tipi principali di Langchor; il primo, realizzato all'interno di un corpo longitudinale a tre navate, sostituisce una parete chiusa alle arcate orientali, in modo da isolare totalmente i due tratti finali delle navatelle, che assumono il carattere di cappelle parallele. La configurazione esterna dell'edificio rimane in questo caso inalterata; casi di Langchor interno sono quelli delle chiese domenicane di Esslingen (1250-1254, conclusa nel 1268), Ratisbona, dove il coro, iniziato nel 1246, fu consacrato nel 1254, mentre la costruzione del corpo longitudinale si scala tra il 1254 e il 1284, ed Erfurt (coro concluso nel 1279, corpo longitudinale terminato nel 1352). L'altro tipo, più ampiamente diffuso anche per la possibilità di innalzarlo in fase di ristrutturazione di edifici precedenti, è quello costituito da un vano a navata unica innestato, sia pure in modi diversi, alla parete orientale del vano destinato ai fedeli, che può essere sia mononave sia a tre navate. Si possono ricordare i casi della chiesa domenicana di Eichstätt (costruzione iniziata nel 1278), dove il Langchor, innestato sullo spazio mononave del corpo longitudinale, si conclude con una sfaccettata terminazione poligonale a 7/12, o i grandi Langchöre che prolungano gli impianti a tre navate della chiesa dei D. a Friesach, la più antica fondazione in area tedesca (1217), ma la cui chiesa fu iniziata a partire dal 1251 e conclusa dal coro intorno al 1300, o della chiesa del convento femminile di Klingental a Basilea, costruita tra il 1235 e il 1256, edificio 'a sala' separato dal coro, eretto tra il 1278 e il 1293, tramite un Lettner, esteso su tutto lo spazio trinave.Un sistema modulare su base quadrata, definito da un Langchor, scandito in tre campate, e un transetto, di uguale estensione, venne connesso, tra gli anni cinquanta e sessanta del sec. 13°, allo spazio mononave della chiesa domenicana di Breslavia, che risaliva al terzo decennio del secolo e la cui navata, scandita in tre campate rettangolari, ha lunghezza inferiore a quella del coro; ne derivò un impianto a croce centrato sullo spazio dell'incrocio. Anche in questo caso l'impianto, risultato occasionale di due diversi interventi costruttivi, si costituì come modello di altri edifici, in particolare della chiesa domenicana di Cieszyn, sempre in Polonia, datata intorno al 1300 (Grzibkowski, 1983). Un Langchor di due campate con abside poligonale trasforma invece in impianto longitudinale il blocco pressoché quadrato della chiesa domenicana polacca di Jihlava, databile intorno al terzo quarto del sec. 13°, dove anche il sistema di copertura con crociere alla stessa altezza accentua l'articolazione a spazio centrale proposta dalle navate. Nella distrutta chiesa di Toruń (dopo il 1265) e in quella di Chełmno (primo quarto del sec. 14°), l'impianto binave si conclude invece con un coro allungato innestato in prosecuzione dello spazio di una navata (Grzibkowski, 1983).Un altro coro monumentale fu quello inserito a conclusione della chiesa dei D. di Cracovia, intorno alla metà del sec. 13°, rialzato al di sopra di una cripta, altro elemento che serviva alla netta separazione del coro dallo spazio delle navate. Analoga soluzione fu realizzata a Breslavia e a Sandomierz, al di sotto del coro aggiunto a un corpo trinave che presenta la particolare caratteristica - documentata però anche nella distrutta chiesa di Saint-Jacques a Parigi, nella prima fase intorno al 1230, nella chiesa domenicana di Tolosa e nella chiesa dei Jacobins ad Agen (1249-1283), con impianto 'a sala' su due navate - di presentare il portale d'ingresso aperto a metà della navata laterale settentrionale (Grzibkowski, 1983).Nei Langchöre, così come negli spettacolari cori finestrati delle chiese italiane, vennero messe in atto sperimentazioni sulla luce e sul colore, grazie agli spazi delle ampie finestrature, che si arricchirono di vetrate. Ciò portò a un ancor più netto contrasto tra gli spogli spazi delle navate e le conclusioni sempre più elaborate, quasi dissolte nella loro percezione architettonica dalla luce e dal colore. Non si tratta però di fatto di un contrasto con subordinazione degli spazi della navata, ma piuttosto di uno scenografico procedere dallo spazio semplificato delle navate verso il grande spettacolo terminale; questo è l'elemento che guida l'architettura domenicana nella sperimentazione di diverse soluzioni architettoniche per ottenere l'immediata percezione 'emotiva' della scenografia realizzata intorno all'altare. Si è così esattamente potuta definire questa architettura come baricephala per eccellenza "e non solo nella ichnographia, ma e ancor più, nella ortographia e nella scaenographia" (Cadei, 1980).Come si è detto, la mancanza pressoché totale di un'archeologia dell'architettura mendicante e la scarsità di indagini monografiche pongono il problema della effettiva cronologia degli edifici domenicani pervenuti, le cui forme spesso molto mature si connettono talora a datazioni troppo precoci, rendendo di fatto problematico ogni tentativo di elaborazione di una storia interna dell'architettura dell'Ordine; la letteratura critica ha poi per lo più privilegiato panoramiche a carattere regionale o nazionale, fondate su distinzioni essenzialmente tipologiche. Ne deriva così un quadro complessivo costituito da tessere dai contorni talora per alcune zone ancora non del tutto definiti, ma che comunque rivela di fatto la massiccia presenza di diversi linguaggi architettonici, riferibili ai distinti contesti regionali, applicati a realizzare strutture tipologicamente diverse, anche se unificate tra loro da un filo sottile, ma saldamente tessuto.È tuttavia rilevabile una predilezione, sempre a livello regionale, per particolari tipologie architettoniche, testimoniata da una rilevanza numerica che peraltro non esclude la diffusione di tipi di edifici diversi. Da molte analisi di questo tipo si evidenzia però anche il ruolo svolto dall'architettura mendicante nel trasmettere alle singole culture regionali modelli assunti in altri specifici ambiti artistici; Branner (1965) individua in alcuni momenti dello stile di corte di Luigi IX la matrice dei cori delle chiese domenicane di Coblenza e Ratisbona, e ciò non solo per i tracciati degli ornati delle finestre, ma anche per la formulazione spaziale, indicando anche un confronto preciso in un monumento rayonnant, la chiesa di Montataire, eretta tra il 1243 e il 1244 nella valle dell'Oise presso Parigi, le cui forme testimoniano appunto l'esistenza di ben precisi modelli architettonici.Branner considera anche gli ordini mendicanti, a partire dal 1240, come i più importanti diffusori in tutta Europa dell'opus francigenum. A quella data infatti i nuovi ordini, insediatisi nelle varie città europee, si trovarono nella necessità di costruire propri edifici religiosi, sia per la manifesta ostilità del clero locale, che dapprima li aveva ospitati nelle proprie chiese e poi, davanti al loro successo, aveva reagito quasi ovunque ostacolandone l'attività, sia per il crescente numero di nuovi adepti.A quel momento datano alcuni degli edifici dei D. nei quali Branner individua le più pure derivazioni, o meglio contemporanee realizzazioni improntate dal Gotico parigino; la chiesa dei D. di Ratisbona è costruita infatti intorno al 1246, quasi contemporaneamente a quella dei D. di Coblenza, eretta dopo l'incendio del 1245 e dunque contemporanea alle parti più tarde della Sainte-Chapelle di Parigi.Non fu però solo l'area tedesca a essere interessata da queste aggiornate presenze di Gotico rayonnant; lo stesso accade anche nella chiesa dei D. di Barcellona, la Santa Caterina, iniziata intorno al 1243, dove le finestre dell'abside e il rosone di facciata appaiono in stretta connessione con le forme decorative del transetto meridionale di Notre-Dame a Parigi e, più a N, a Lovanio, dove l'abside della chiesa domenicana, eretta nel 1256, imita l'abside della Sainte-Chapelle. Alcuni particolari della scomparsa chiesa domenicana parigina di Saint-Jacques, testimoniati solo da disegni (Branner, 1965), ne provano peraltro la stretta pertinenza al 'Gotico di corte'; fu dunque la stessa chiesa parigina a costituirsi come modello per le chiese dell'Ordine, similarmente a quanto è stato possibile indicare per le particolari strutture architettoniche determinatesi negli interventi sulle chiese di S. Domenico a Bologna e di S. Eustorgio a Milano, assurte a modello di una serie di costruzioni. I modelli rayonnants applicati dai Mendicanti nei loro edifici furono poi trasferiti anche in altre costruzioni non pertinenti a questi ordini; D. e Francescani costituiscono così importanti referenti per la diffusione in Europa di particolari cadenze del Gotico parigino.Quanto alle singole aree geografiche la diffusione dei D. avvenne quasi ovunque entro la prima metà del 13° secolo.In Italia una panoramica sugli edifici dei D. consente di rilevarne, ancora una volta, la ricezione della cultura architettonica locale, sottilmente ma radicalmente modificata dall'innesto delle tematiche proprie dell'Ordine.Si tratta in molti casi di un cammino evolutivo all'interno del singolo edificio verso la maturazione completa delle proprie forme, spesso con innesti di nuove parti totalmente diverse rispetto a quello che era stato il progetto originale; è il caso, per es., della chiesa di S. Domenico a Siena, edificio quasi esemplare del tipo 'a capannone', o 'chiesa-granaio'.Sorta a partire dal 1225 in un luogo chiamato Campo Regio, ottenuto dai D. che si erano stanziati a Siena nel 1221, la costruzione procedette lentamente fino al 1300; a quella data l'edificio presentava un impianto a navata unica, conclusa da un'abside a terminazione rettilinea innestata alla conclusione dell'attuale corpo longitudinale; si trattava dunque di un tipo molto semplice di edificio, ben documentato nell'architettura degli ordini mendicanti tra Umbria e Toscana a partire dalla metà del sec. 13° (Krönig, 1971). Ma già pochi anni dopo si registra una serie di contributi ai D., come quello del 1310 "per fare la croce nela loro chiesa dala parte di sopra verso Fontebranda, sopra le colonne già ine fondate" (Teubner, 1992); dal 1307 aveva infatti preso il via l'ampliamento della chiesa con la costruzione di una struttura, realizzata sul pendio del colle, poi trasformata in chiesa inferiore, funzionale alla creazione di un grande transetto. Il cantiere di questa struttura inferiore terminò solo nel 1352, mentre i lavori per il nuovo transetto poterono partire solo nel 1380, concludendosi un secolo dopo, con la realizzazione di un'imponente struttura trasversale conclusa da un sistema di abside centrale a terminazione rettilinea affiancata da tre cappelle per lato, di dimensioni e aggetto esterno decrescente. Il protrarsi nel tempo di questo importante cantiere dimostra la necessità di attente analisi delle singole strutture, prima di arrivare a determinare tipologie architettoniche e conseguenti quadri generali.La seconda metà del Duecento e il primo Trecento costituiscono sicuramente il periodo di massimo sviluppo dell'architettura domenicana italiana e gli anni cinquanta-settanta del sec. 13° ne furono uno dei periodi chiave; si sono già ricordati i cantieri di Bologna, Milano e Piacenza, ma a essi si deve aggiungere, tra gli altri, quello di S. Corona a Vicenza, edificio eretto tra il 1260 e il 1272, la cui dedicazione ricorda la reliquia della spina della corona di Cristo donata da Luigi IX di Francia al vescovo domenicano della città, il Beato Bartolomeo, e le cui forme originarie appaiono come un'eco immediata del S. Domenico di Bologna (Dellwing, 1970; Cadei, 1980).Nell'Italia centrale, tra Umbria e Toscana, appare invece accolto con maggior favore il tipo della chiesa 'a capannone', con una diffusione maggiore dunque di impianti mononave a tetto, spesso conclusi da terminazioni rettilinee di diretta derivazione cistercense (Orvieto, Città di Castello, Spoleto, Cortona) o da cori poligonali, di aggetto però limitato (Foligno).Gli ultimi due decenni del secolo presentano una cospicua serie di monumenti che nelle varie città italiane seguono essenzialmente le due principali tipologie indicate; da una parte impianti trinave, dall'altra il tipo 'a capannone'.A questa fase si riferisce l'erezione della S. Maria Novella di Firenze, iniziata a partire dal 1279, secondo la tradizione, da due D., fra' Sisto e fra' Ristoro, il cui nome è stato legato anche al cantiere della chiesa domenicana romana di S. Maria sopra Minerva, iniziata intorno al 1280, nonché alla ricostruzione del ponte alla Carraia a Firenze e ad alcune parti dei palazzi Vaticani. Nel cantiere fiorentino si succedono poi i nomi di altri architetti domenicani, tra i quali fra' Jacopo Talenti da Nipozzano, che avrebbe concluso il cantiere dell'edificio poco dopo la metà del Trecento. L'edificio che, nel suo sviluppo e orientamento fu condizionato dalla precedente chiesa di S. Maria inter vineas, sede a partire dal 1221 della comunità domenicana, fu strutturato su impianto trinave con terminazione rettilinea, coperto da un uniforme sistema di crociere, impostato ad altezza inferiore nelle navatelle laterali; una struttura dunque del tutto in linea con la tradizione locale, ma che rivela invece accenti di particolari novità proprio nell'articolazione del vano longitudinale. La larghezza degli intercolumni va infatti crescendo a partire dall'ingresso fino alla terza campata (da m.13,11 della prima a m.14,10 della terza), per poi progressivamente e sensibilmente diminuire fino alla sesta campata (da m. 12,85 della quarta a m.10,55 della sesta); si registra infine un incremento di lunghezza della campata del transetto (m.12,85) e un decrescere per quella del coro (m.11,35). Il sistema, soprattutto nel corpo longitudinale, appare calcolo di un sottile illusionismo teso a prolungare otticamente il dilatarsi in lunghezza dello spazio dell'edificio, creando ben due fughe prospettiche, una crescente e l'altra decrescente, imperniate sulla terza campata, cioè a metà della navata.Un impianto trinave con abside centrale emergente a profilo pentagonale caratterizzava anche l'impianto della chiesa romana di S. Maria sopra Minerva (Pasti, 1983); analoga struttura - tuttora ben riconoscibile nonostante gli interventi seriori - presentava la chiesa napoletana di S. Domenico, eretta tra il 1283 e il 1324, dove i caratteri particolari dell'architettura angioina meridionale appaiono ancora evidenti, soprattutto nelle navatelle e nelle forme esterne del coro poligonale e turriforme.Una netta accentuazione della lingua locale, pur all'interno di contesti architettonici in linea con le desinenze dell'architettura domenicana, è confermata anche dalla lettura degli edifici veneti più noti, in particolare i Ss. Giovanni e Paolo di Venezia e il S. Nicolò di Treviso.A Venezia i D., insediatisi intorno al secondo decennio del sec. 13°, ottennero nel 1234 dal doge Jacopo Tiepolo l'area per la fondazione della loro chiesa e del loro convento; una cospicua serie di lasciti testimonia del loro crescente favore nell'ambito cittadino. Nel 1246 iniziò la costruzione della basilica, che dovette procedere abbastanza rapidamente, risultando quasi conclusa nel 1268. Tuttavia, già nel 1333 si dava il via alla costruzione di un nuovo cantiere, sorto e cresciuto in dialettica continua con l'altra chiesa mendicante, quella dei Frari, ricostruita dai Francescani a partire dal 1330 (Iacobini, 1994).Impostata su una base modulare tanto stretta da ricordare ancora i cantieri cistercensi, la costruzione procedette impostando dapprima fino a una certa altezza lo châssis di tutto l'edificio e procedendo poi in alzato dal coro fino alla facciata; i lavori si conclusero forse intorno al 1417 con la copertura dell'ultima campata tangente alla facciata. L'interno si articola su tre navate, separate dagli ampi intercolumni determinati da slanciati pilastri e coperte da leggerissime volte realizzate in incannicciato rivestito da intonaco, secondo la tradizione lagunare (Dellwing, 1970).L'articolazione dell'abside della chiesa veneziana, alterata da rifacimenti successivi al 1440, anno di un crollo delle strutture del coro (Iacobini, 1994), rivela subito la sua derivazione dalle forme esterne della terminazione di S. Nicolò a Treviso, edificio che conserva intatto il più spettacolare caso di coro-luce veneto del primo Trecento. Qui le finestre salgono allungate a scavare la superficie muraria per trasformare il coro della chiesa trevigiana in una parete luminosa che, nella sapiente alternanza di superfici murarie, mai completamente dissolte, e luce colorata, realizza la più matura interpretazione in terra italiana della poetica spaziale mendicante.Si tratta di una interpretazione per via di derivazione della struttura del Langchor germanico (Cadei, 1980), documentato peraltro anche in alcune strutture altoatesine, come quella della chiesa dei D. di Bolzano, edificio trecentesco a navata unica separato da un pontile a cinque fornici dal profondo Langchor (Spada, Bassetti, 1989); attraverso appunto la via mendicante, questa tipologia nordica di cappella, le cui matrici, come si è visto, risalgono allo stile di corte di Luigi IX (Branner, 1965), arrivò in Italia, maturando in ambito veneto il potenziamento architettonico del coro-luce.Le indagini sull'architettura mendicante nell'area germanica hanno di fatto preferito operare una classificazione tipologica sulla base di piante e di sistemi di copertura; è stata determinata così una serie di tipi, adottati senza nessuna discriminante cronologica e geografica (Krautheimer, 1925; Binding, 1982).Il tipo più semplice è costituito dalla chiesa ad aula unica, coperta a tetto o a volta; di proporzioni spesso molto allungate e concluse da un'abside poligonale o da un coro quadrato, queste costruzioni presentavano spesso l'ambone al centro di uno dei due lati lunghi, trasformando così l'edificio in uno spazio ideale per la predicazione (Bozzoni, 1984). Spesso a esse venne connesso un Langchor, come nel caso del St. Peter di Eichstätt, costruito a partire dal 1278.Il secondo gruppo è quello delle chiese a impianto basilicale con copertura piana, tipo che appare particolarmente diffuso nella Germania meridionale (Landshut in Baviera, dell'ultimo quarto del sec.13°; Würzburg, con il corpo longitudinale iniziato nel 1274; Colmar in Alsazia, del 1283) e in Svizzera (Zurigo e Basilea); in Austria importante è il caso di Friesach, una delle prime costruzioni di questo tipo, iniziata intorno al 1250 e dotata nel 1265 di un Langchor che sostituì l'originaria terminazione triabsidata.Più diffuso è l'impianto basilicale coperto a volte, che rappresenta la continuazione di un tipo di edificio già ben presente nell'architettura romanica tedesca (Esslingen, iniziata tra il 1250-1255 e consacrata nel 1268; Ratisbona, con il coro consacrato nel 1277 e navate intorno al 1300; Erfurt, con le navate realizzate dopo il 1320). In Austria questa tipologia caratterizza la chiesa dei D. di Krems, il cui corpo longitudinale fu realizzato nella seconda metà del 13° secolo.La chiesa 'a sala', ulteriormente suddivisa nel tipo a due e in quello a tre navate, costituisce un'altra importante tipologia architettonica ampiamente documentata nell'area tedesca. Il tipo, a due navate simmetriche, spesso però generato dalla duplicazione in successivo intervento di uno spazio mononave, conobbe un particolare favore in Austria (chiesa domenicana femminile di Imbach, intorno al 1280). Questo impianto godeva di un importante precedente nella storia architettonica dell'Ordine; a due navate erano infatti la chiesa del convento parigino di Saint-Jacques e quella di Agen e sullo stesso schema è articolato l'edificio dei Jacobins di Tolosa. Il tipo a tre navate appare soprattutto nell'area della Germania settentrionale come uno dei più in auge fino alla fine del sec. 14°, derivando peraltro anch'esso da modelli già elaborati localmente, in particolare in Vestfalia, alla fine del sec. 12° (Bozzoni, 1984); uno dei primi casi è quello della chiesa domenicana di Neuruppin (1280-1290). Anche l'Austria conserva importanti esempi, uno dei quali è costituito dalla chiesa dei D. di Retz, costruita intorno al 1295 e articolata su navata centrale con campate quadrate e navate collaterali con larghe campate rettangolari.In regioni come la Prussia e la Slesia, dove in periodo gotico l'architettura assunse caratteri particolari, derivati dall'uso del laterizio (Backsteingotik), anche la chiesa 'a sala' mendicante fu interpretata con questo materiale, dando vita a edifici, le Backsteinhalle, ad accentuato sviluppo verticale; tra gli esempi legati ai D. la chiesa di Stralsunda, il cui coro fu consacrato nel 1287, mentre la navata venne completata nel 1317. Questo tipo di chiesa in laterizio si diffuse anche nella penisola scandinava, dove l'esempio più precoce è la Mariakyrkan di Sigtuna. Un altro tipo particolare di edificio ben rappresentato nell'architettura dei D. in area germanica è quello della Staffelkirche; si possono ricordare i casi di Wismar, del primo terzo del sec. 14°, di Aquisgrana, fino ad arrivare al caso ormai tardoquattrocentesco di Stoccarda.La Francia fu subito interessata da un elevato numero di fondazioni, ma il panorama architettonico non è oggi certamente rispondente alla situazione storica di quella che fu la culla dell'Ordine. Distruzioni e rifacimenti hanno causato la perdita di molti edifici costruiti tra i secc. 13° e 14°; il convento parigino di rue Saint-Jacques, eretto prima del 1250 e noto solo da una veduta di Garnerey, eseguita prima della Rivoluzione francese, e dal disegno ottocentesco di una trifora (Christ, 1947; Branner, 1965), presentava una struttura a due navate di ampiezza diversa, con il coro dei D. posto nella seconda metà della navata maggiore e terminazione rettilinea a E; forse poco per trarne conclusioni sul ruolo di prototipo per quello che è senz'altro l'edificio domenicano francese più noto, la chiesa dei Jacobins di Tolosa.Questo edificio era in costruzione già nel 1233 e gli studi (Lambert, 1946; Prin, 1974; Sundt, 1987) ne hanno individuato le varie fasi costruttive a partire dal primo impianto 'a sala' rettangolare, divisa in due navate disuguali da una fila di cinque pilastri e coperta a tetto; tra il 1249 e il 1252 si innestò a E una struttura complessa costituita da due campate prive di separazioni intermedie e un'abside poligonale con cappelle radiali. La terza fase di lavori, tra il 1275 e il 1292, corrispose alla trasformazione radicale della precedente struttura - di altezza modesta e coperta a tetto - in uno slanciato edificio voltato; la parete di chiusura del coro fu portata sul filo interno delle cappelle laterali, ridotte e coperte con volte a crociera. Ne risultò un'abside rialzata luminosissima e, grazie all'inserimento di due pilastri nella zona del coro, un interno con un movimento rotante attorno all'estremo dell'asse di allineamento dei pilastri, movimento esaltato anche dall'andamento delle volte, sottolineate dal grafismo e dalla raffinata cromia bitonale dei costoloni, allungati fino a terra in sottili rigature della parete. Diverso per il sistema di copertura che sostiene, e quasi visivamente isolato, appare l'ultimo pilastro orientale, l' 'albero della palma', così detto per la forma della volta, ad andamento stellare a undici punte a profilo triangolare innervate da linee bisettrici, che da esso si genera.Il primo impianto dei Jacobins di Tolosa costituì probabilmente il modello della chiesa domenicana di Agen (1249-1283), edificio interamente in cotto, salvo le colonne realizzate in pietra, e di quelle di Auch e Bayonne (Lambert, 1946), anche se in questo caso l'impianto a due navate appare piuttosto esito di un ampliamento di uno spazio originariamente mononave (Bozzoni, 1984).Nella Francia meridionale fu largamente diffuso anche il modello di chiesa mononave senza transetto, coperta da volta a crociera e con terminazione poligonale con o senza cappelle radiali, tipo che appare unificante di una vasta area territoriale che include la Catalogna; proprio nella Santa Caterina di Barcellona, edificio iniziato verso il 1243 e ricco di contatti con lo stile di corte (Branner, 1965), si è voluto identificare il punto di partenza di questa tipologia (Lavedan, 1935), echeggiata per es. nella chiesa dei D. di Gerona, della seconda metà del 13° secolo.La chiesa di Barcellona e l'annesso convento sono stati purtroppo distrutti da un incendio nel 1837, ma le loro strutture e i particolari decorativi sono noti da una serie di disegni realizzati proprio nel 1837 da Josep Casademunt i Torrents (Dalmases, José i Pitarch, 1985).Ben documentata in questa area è anche la chiesa a navata unica con copertura a tetto su archi-diaframma: in Linguadoca si può ricordare la chiesa di Fanjeaux, iniziata nel 1278, ma questa soluzione di copertura era presente anche nelle chiese dei D. di Manresa e Perpignano e, in Navarra, nella chiesa domenicana di Estella, della fine del 13° secolo.Lo schema trinave con copertura a capriate concluso da tre absidi poligonali voltate, adottato ancora tra il sec. 14° e il 15° nella chiesa dei D. di Santiago, è diffuso tra gli edifici mendicanti della Spagna settentrionale; un esempio è il San Domingo di Lugo, della prima metà del 14° secolo.Complesse e articolate sono le strutture della più importante chiesa domenicana del Portogallo - dove i D. arrivarono nel 1222, svolgendo un ruolo primario per la diffusione in quella regione dell'architettura gotica -, la chiesa di S. Maria de Victoria di Batalha (v.), eretta a partire dal 1388, insieme con le imponenti strutture del convento.Anche il panorama della Gran Bretagna dà un quadro sostanzialmente in linea con le indicazioni delle altre regioni europee e dunque tutt'altro che omogeneo nell'adozione dei vari tipi architettonici; a edifici molto semplici, come la chiesa dei D. di Brecon, uno dei più antichi conservati, fanno seguito edifici trinave sui quali si innesta lo spazio del coro, costituito da allungati vani rettangolari; un importante documento superstite è costituito dalla chiesa dei D. di Norwich, dove le navate e il coro sono nettamente divisi per l'interposizione di uno spazio trasversale sul quale si impostava una torre ottagonale, oggi scomparsa, e che, oltre a costituire una originale interpretazione dell'esigenza di separazione dei due spazi, si qualificava come elemento tipico dell'architettura mendicante inglese (Webb, 1956). L'idea della netta divisione dei due spazi e dell'inserzione di una torre fu condivisa anche dall'architettura irlandese, come dimostra il caso della chiesa dei D. di Athenry, fondata nel 1241, ma le cui fasi costruttive si protrassero fino all'inoltrato sec. 14° (Leask, 1958).L'espansione dell'Ordine verso Oriente portò i D. nella penisola balcanica, in Grecia e nelle principali isole del Mediterraneo. Documentati già nel 1220 nell'impero latino di Costantinopoli (Kitsiki Panagopulos, 1979) - nella capitale il loro convento si sviluppò fino al 1261, quando la città venne riconquistata dai Bizantini -, i D. lasciarono le loro testimonianze architettoniche più rilevanti soprattutto tra la Grecia e l'isola di Creta. Nei primi anni del suo potere, Guglielmo II di Villehardouin (1246-1278), a capo del principato franco d'Acaia, favorì l'insediamento dei D. ad Andravida (v.), capitale del regno; rimangono solo rovine della chiesa di Santa Sofia, a tre navate con terminazione ad abside rettilinea, affiancata da due cappelle, tutte voltate, che appare di netta matrice cistercense (Kitsiki Panagopulos, 1979). Lo studio delle parti superstiti ha consentito di ipotizzare una copertura a tetto sulla navata, in linea dunque con i sistemi duecenteschi dell'architettura domenicana.Sull'isola di Creta le rovine delle chiese di S. Pietro a Candia (prima metà del sec. 13°) e di S. Nicola a Canea (inizi sec. 14°) ripropongono schemi e tecniche costruttive occidentali ben consolidate; la prima è un allungato spazio mononave per il quale si è proposta una conclusione con un coro allungato a terminazione rettilinea, affiancato da due cappelle absidate (Kitsiki Panagopulos, 1979); la seconda presenta un impianto mononave con transetto sporgente e coro di tre cappelle quadrate affiancate, coperte da crociera sulla principale e volta a botte acuta sulle due laterali.
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L'impatto della storia e del pensiero domenicani sullo sviluppo della scultura medievale è particolarmente evidente nell'evoluzione dei monumenti funebri. Oltre ad ampliare il repertorio formale e iconografico, infatti, i monumenti di ambito domenicano, come tombe e pale d'altare con rilievi a carattere narrativo, mostrano una decisa e caratterizzante preferenza per immagini vivaci e atte a coinvolgere il devoto. La legislazione domenicana - come del resto generalmente quelle degli altri Ordini mendicanti - proibiva i monumenti funebri sontuosi, ma l'eccezione fatta per la tomba del fondatore contribuì al superamento degli ostacoli che avevano impedito in Italia lo sviluppo dell'arte funeraria.L'arca di s. Domenico, progettata da Nicola Pisano intorno al 1264, fu probabilmente la prima tomba monumentale in Italia dopo l'età tardoantica realizzata senza il ricorso a elementi di spoglio. Situata nella chiesa di S. Domenico a Bologna, più volte spostata, alterata e ampliata, la tomba del fondatore dell'Ordine era in origine costituita da un sarcofago libero istoriato sostenuto da telamoni e cariatidi: una forma e una struttura senza precedenti nella storia dell'arte sepolcrale (Pope-Hennessy, 1951). Inusuale è anche il sarcofago, ornato sui quattro lati da un ampio ciclo di rilievi illustranti la vita del santo e non i tradizionali temi biblici o simbolici, così come le figure angolari, poste diagonalmente, che spingono l'osservatore a girare intorno al monumento, e le otto figure di sostegno raffiguranti frati, arcangeli e virtù. Tali elementi, che non derivano dalla precedente scultura funeraria, ma piuttosto da altri generi di arredo liturgico e da monumenti antichi, sono qui fusi in modo nuovo e geniale. Particolarmente significativo è il riferimento della tomba alla forma del pulpito, evidente nella cassa rettangolare scolpita e innalzata su sostegni, elemento che potrebbe costituire un'allusione alla missione fondamentale dell'Ordine domenicano, l'insegnamento e la predicazione. Tale missione, su cui aveva insistito Domenico, era stata approvata da Innocenzo III e confermata dal suo successore Onorio III nel 1216, tutti eventi posti in evidenza nella decorazione dell'arca.Nella collocazione originaria, davanti al muro divisorio tra coro dei monaci e coro dei laici, il lato dell'arca rivolto verso i chierici presentava le scene relative alla fondazione e allo sviluppo dell'Ordine, che rivestivano interesse soprattutto per i frati. Il lato opposto, rivolto ai laici, mostrava invece i fatti miracolosi su cui si basava la promozione del culto: la risurrezione di Napoleone Orsini, testimonianza dei poteri taumaturgici del santo, e, nel riquadro adiacente, il rogo dei libri eretici, che affermava l'ortodossia della teologia di Domenico e la sua approvazione divina. L'arca di s. Domenico quindi, al pari della predicazione domenicana, non era rivolta soltanto all'élite laica di Bologna e alla gerarchia ecclesiastica, ma anche ai semplici fedeli ed era parte di un programma agiografico che i D. avevano sviluppato in competizione con i Francescani.Il sepolcro del fondatore ebbe una notevole influenza sulle tombe dei glossatori, realizzate, a partire dal 1268, a Bologna e collocate nella chiesa francescana e in quella domenicana, nonché nei rispettivi chiostri e piazze. Tra queste il monumento a Rolandino de' Passaggeri, eretto nel 1300 ca., con i suoi riferimenti all'attività terrena del personaggio, si ricollega al tipo con rilievi di carattere biografico che era divenuto una prerogativa delle arche dei santi (Grandi, 1990).Un ulteriore sviluppo della tipologia dei monumenti funebri si ebbe a Viterbo nella chiesa domenicana di S. Maria in Gradi, dove, con il sepolcro di Clemente IV (m. nel 1268) - attualmente, dopo una lunga serie di traversie che ne hanno in parte alterato l'originaria struttura, collocato in S. Francesco alla Rocca (D'Achille, 1990) -, prese avvio la diffusione in Italia del nuovo tipo di monumento funebre a baldacchino e con figura giacente, che trovò la sua massima espressione nelle realizzazioni di Arnolfo di Cambio (v.), prima fra tutte il sepolcro del cardinale Guglielmo De Braye in S. Domenico a Orvieto (Romanini, 1983a; 1983b; 1990).La tomba che più strettamente dipende da quella di S. Domenico è l'arca di s. Pietro Martire nella chiesa domenicana di S. Eustorgio a Milano, firmata nel 1339 da Giovanni di Balduccio. Concepita in forma et materia simile al modello bolognese, essa ha un sarcofago istoriato con scene della vita del santo, sostenuto da otto colonne rettangolari alle quali sono addossate cariatidi che rappresentano le virtù. Gli angoli e i lati del sarcofago, del coperchio e del tabernacolo di coronamento sono arricchiti dalle raffigurazioni dei Dottori della Chiesa, di santi e dei cori angelici. Sul coperchio trapezoidale sono scolpiti rilievi con santi e benefattori, tra cui i sovrani di Cipro, il cardinale domenicano Matteo Orsini, Azzone Visconti, signore di Milano, e l'arcivescovo domenicano Giovanni Visconti, zio di Azzone. Al di sopra del tabernacolo che racchiude la Madonna con il Bambino e i ss. Domenico e Pietro Martire si trova una figura di Cristo. Questa tomba, con le tre virtù teologali sostenenti il sarcofago con rilievi della vita del santo, riprende dunque il tema della vita basata sulla virtù, a cui si aggiunge una insolita rappresentazione del paradiso, che comprende, oltre all'immagine della Vergine con il Bambino, anche la gerarchia celeste e il Redentore. Il significato dell'insieme sembrerebbe andare oltre l'allusione al regno celeste comune nelle tombe, costituendo un'asserzione della dottrina della visione beatifica, rifiutata da papa Giovanni XXII ma riaffermata, dopo un intenso dibattito, dal successore Benedetto XII nella sua costituzione ex cathedra Benedictus Deus del gennaio 1336 (Moskowitz, 1991).Benché profondamente impegnati nella difesa dell'ortodossia della dottrina e nella lotta all'eresia, i D. vollero sempre che il loro messaggio fosse accessibile anche ai semplici fedeli. Ciò può in parte spiegare la preferenza per una narrazione commovente e popolare, che rendesse possibile alla gente comune partecipare alla vita e ai miracoli del santo. Tale processo è evidente, sempre a S. Eustorgio, anche in altri due arredi scultorei: l'ancona dei Magi, che reca la data 1347, e l'altare della Passione, iniziato nel 1395 (La basilica di Sant'Eustorgio, 1984). Nella prima opera le tre scene con i Magi, vividamente ritratti nei loro vivaci costumi, e il loro seguito, con cavalli riccamente bardati, cani e cammelli, potrebbero essere una trascrizione quasi letterale della descrizione fatta da Galvano Fiamma (Annales Mediolanenses, CVIII; RIS, XVI, 1730, coll. 710-712) della processione dei Magi svoltasi a Milano nel 1336, che ebbe il suo momento culminante proprio nella chiesa di S. Eustorgio, dove la Vergine e il Bambino nella mangiatoia attendevano i re adoranti (Meyer, 1893).La rappresentazione escatologica attestata nel monumento de Braye, in quello di Benedetto XI nel S. Domenico di Perugia e nell'arca di s. Pietro Martire si ritrova ancora, in ambito domenicano, nella tomba dell'arcivescovo Simone Saltarelli (m. nel 1342) di Andrea e Nino Pisano in S. Caterina a Pisa, dove la sequenza delle immagini ha inizio nel livello del sarcofago con la vita del vescovo, prosegue con la figura del giacente fiancheggiata da angeli reggicortina e quindi nel livello successivo con i due santi intercessori (s. Domenico e s. Pietro Martire), a lato di angeli che trasportano l'anima del defunto. Nel tabernacolo di coronamento compare infine la Vergine con il Bambino fiancheggiata da angeli. I rilievi di carattere biografico, come quelli che illustrano la vita di santi, fanno riferimento agli episodi di carattere religioso e politico che sono alla base della salvezza celeste e a cui si allude nell'ultimo registro.È evidente che a partire dalla fine degli anni sessanta del sec. 13° i D. dovettero non solo accettare, ma addirittura incoraggiare le sepolture all'interno dei loro conventi e delle loro chiese. La promessa da parte dei religiosi di assumersi la cura dell'anima del defunto tramite preghiere giornaliere o settimanali fu il fattore di maggior peso nella popolarità dei conventi mendicanti come luoghi di sepoltura. Gli scultori vennero stimolati a rispondere a queste esigenze ampliando il repertorio di motivi e di strutture; i frati e gli accoliti dipinti o scolpiti sulle tombe monumentali vanno intesi come testimonianza visiva del fatto che il convento adempiva agli obblighi derivanti dalle donazioni ricevute.
Bibl.: F. Cristofori, Le tombe dei papi in Viterbo e le chiese di S. Maria in Gradi, di S. Francesco e di S. Lorenzo. Memorie e documenti sulla storia medioevale viterbese, Siena 1887; A.G. Meyer, Lombardische Denkmäler des vierzehnten Jahrhunderts. Giovanni di Balduccio da Pisa und die Campionesi. Ein Beitrag zur Geschichte der oberitalienischen Plastik, Stuttgart 1893; D. Sansoni, Il sepolcro dell'arcivescovo Ruggieri nella chiesa di Santa Maria in Gradi a Viterbo, Roma [1926]; J. Pope-Hennessy, Giovanni di Balduccio's Arca of St. Dominic. A Hypothesis, BurlM 93, 1951, pp. 347-351; G. Ladner, Die Papstbildnisse des Altertums und des Mittelalters (Monumenti di antichità cristiana, s. II, 4), II, Città del Vaticano 1970; R. Grandi, I monumenti dei dottori e la scultura a Bologna (1267-1348), Bologna 1982, p. 107ss.; A.M. Romanini, Arnolfo e gli "Arnolfo" apocrifi, in Roma anno 1300, "Atti della IV Settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma 'La Sapienza', Roma 1980", a cura di A.M. Romanini, Roma 1983a, pp. 27-72; id., Nuove ipotesi su Arnolfo di Cambio, AM 1, 1983b, pp. 157-202; La basilica di Sant'Eustorgio in Milano, a cura di G.A. Dell'Acqua, Milano 1984; I. Herklotz, ''Sepulcra'' e ''Monumenta'' del Medioevo. Studi sull'arte sepolcrale in Italia, Roma 1985 (19902); P.C. Claussen, Magistri Doctissimi Romani. Die römischen Marmorkünstler des Mittelalters (Corpus Cosmatorum I) (Forschungen zur Kunstgeschichte und christlichen Archäologie, 14), Stuttgart 1987; Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, "Akten des Kongresses ''Scultura e monumento sepolcrale del Tardo medioevo a Roma e in Italia'', Roma 1985", a cura di J. Garms, A.M. Romanini, Wien 1990; A.M. Romanini, Ipotesi ricostruttive per i monumenti sepolcrali di Arnolfo di Cambio. Nuovi dati sui monumenti De Braye e Annibaldi e sul sacello di Bonifacio VIII, ivi, pp. 107-128; A.M. D'Achille, Il monumento funebre di Clemente IV in S. Francesco a Viterbo, ivi, pp. 129-142; R. Grandi, Dottori, scultori, pittori: ancora sui monumenti bolognesi, ivi, pp. 353-363; A. Moskowitz, Giovanni di Balduccio's Arca di San Pietro Martire: Form and Function, Arte lombarda, n.s., 1991, 96-97, pp. 7-18; A.M. Romanini, I colori di San Pietro, in Festschrift für Hermann Fillitz zum 70. Geburtstag, Aachener Kunstblätter 60, 1994; A. Moskovitz, Nicola Pisano's Arca di San Domenico and its Legacy (in corso di stampa).A. Moskowitz
Durante i primi decenni di vita dell'Ordine domenicano e fino agli anni quaranta del Duecento le norme dei Capitoli generali di Parigi (1228, 1239, 1246), Bologna (1240, 1252), Colonia (1245), in questo di derivazione cistercense, furono fortemente 'aniconiche' e drasticamente ostili al lusso delle decorazioni, degli arredi e dei libri sacri (Acta Capitulorum Generalium, 1898). Tuttavia, dopo il generalato di Giordano di Sassonia (ca. 1185-1237), negli anni del breve generalato di Raymond de Peñafort (1239-1240) si nota già qualche cambiamento; nel 1239 il Capitolo generale di Parigi introdusse infatti un'eccezione: "Statuimus ut ornamenta aurea et argentea preter calices fratres nostri non habeant, nec pannos sericos, nec lapides preciosos, nec campanas ad horas nisi unam. Item statuimus ne de cetero in nostris conventibus habeantur ymagines nisi picte nec fenestre vitree nisi albe cum cruce nec littere auree in libris nostris" (Acta Capitulorum Generalium, 1898, p. 11); l'anno successivo, a Bologna, la disposizione venne leggermente modificata: "non habeamus ymagines sculptas" (Acta Capitulorum Generalium, 1898, p. 13; Cannon, 1980). Mentre si moltiplicavano le punizioni per quei priori che avessero ospitato nelle chiese dell'Ordine sepolcri e monumenti funebri - nel 1246, in Inghilterra, si ordinò addirittura di rimuovere tutti i monumenti funebri dalle chiese dei Predicatori (Hinnebusch, 1951); identica disposizione si ebbe nel Capitolo generale di Parigi (1246), ribadita a Londra nel 1250 e a Metz nel 1251 -, le ymagines picte avevano quindi già cittadinanza fra i Domenicani. Nel Capitolo provinciale di Roma del 1247 (Acta Capitulorum Provincialium, 1941) e poi nel Capitolo generale di Buda del 1254 e in quello di Parigi del 1256 si ordinava di celebrare le feste di s. Domenico e di s. Pietro Martire e di dipingerne le immagini in locis congruentibus delle chiese dell'Ordine.In anni molto precoci, immagini di frati domenicani sono presenti in manoscritti di committenza privata o addirittura laica, a provare la rapida popolarità dei D. (Miscellanea di Alexander Neckam, del 1240 ca., Cambridge, Univ. Lib., Gg. G. 42; Guillaume Peyraut, Summa de vitiis, del 1240-1255, Londra, BL, Harley 3244); lo stesso s. Domenico appare nel manoscritto inglese di Eton (College Lib., 96, c. 23v.). Ma anche gli stessi conventi, bisognosi di libri liturgici, dovevano possederne e commissionarne molti: non erano necessariamente contrassegnati da un'iconografia specificamente domenicana (per es. la Bibbia del 1235 ca., Oxford, Bodl. Lib., lat. bibl. e.7, proveniente quasi certamente dal convento domenicano di Oxford; Morgan, 1982, pp. 114-116), tuttavia qua e là, in essi, figure di frati domenicani intrecciati alle iniziali miniate mostrano il radicarsi di questa abitudine di 'siglare' i libri: così nella Bibbia dell'Arsenale del 1250 ca. (Parigi, Ars., 5211), dove il frate predicatore nella prima iniziale prova che il manoscritto fu prodotto per l'importante convento domenicano di S. Giovanni d'Acri (Buchthal, 1957; Folda, 1976), o in altri esempi di provenienza non nota (Apocalisse, ca. 1255-1260, Cambridge, Trinity College, R.16.2; Londra, BL, Add. Ms 52778; Bibbia, Oxford, All Souls College, 2, in cui compare s. Girolamo in abito domenicano). L'introduzione nel calendario liturgico delle feste di s. Domenico e di s. Pietro Martire offrì l'occasione per illustrare i libri religiosi con figure e scene dedicate a questi santi (lezionario tedesco, del 1267-1276 ca., proveniente da Heilig Kreuz di Ratisbona, Oxford, Keble College Lib., 49; The Medieval Manuscripts, 1979). A quest'epoca, intorno al 1260, l'Ordine si era già posto o si andava ponendo il problema di svolgere una politica 'pubblica' delle immagini, il cui valore, anche in funzione ortodossa e antiereticale, doveva essere ben evidente da tempo, se è vero che Pietro Martire, nel 1244, raccomandava ai laici di mettere immagini sacre all'esterno delle proprie case e di venerarle cantando laudi (Del Migliore, 1684, p. 391; Cannon, 1980).Si cominciò, come era ovvio, dalle raffigurazioni dei due santi più carismatici: il fondatore s. Domenico e s. Pietro Martire, rappresentante dell'aspetto emblematico della lotta all'eresia - che i D. stessi intendevano e avrebbero conservato per lunghissimo tempo come loro caratteristica peculiare - e che, diversamente dal fondatore, era anche un martire. Questa 'coppia' domenicana si opponeva anche, a evidenza, a quella francescana costituita da s. Francesco e da s. Antonio da Padova.Al santo fondatore vennero dedicate pale d'altare, ma le stesse tipologie si ritrovano, ferme appunto le prescrizioni dei Capitoli generali, nel caso di s. Pietro Martire. Questi, canonizzato nel 1253, ricevette raffigurazioni molto precoci per quanto riguarda la scena del martirio, che diventò emblematica (per es. il Lezionario di Oxford, Keble College, 49, c. 301; e il c.d. Salterio Grandisson, realizzato entro il 1276, Londra, BL, Add. Ms 21926, c. 14); forse intorno al 1292 risalgono una perduta scena di predicazione e la scena del martirio nella cappella di S. Pietro Martire nella chiesa dei Jacobins a Tolosa (Les peintures murales, 1958, p. 30); è già vicino al 1300 l'affresco della chiesa de la Sangre di Liria presso Valencia (Gudiol, Ricart, 1955, fig. 17). S. Pietro Martire è frequentemente associato al fondatore, ma è anche, da solo, protagonista di pale d'altare, tra cui quella proveniente da Sigena (Aragona), con scritte in provenzale, del 1300 ca. (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya), in cui compaiono il santo al centro, incoronato da due angeli, e otto storie della sua vita derivate dal testo della Legenda aurea (Pietro bambino a scuola, vestizione, guarigione di un malato, predica agli eretici, Pietro dirige la tortura degli eretici, gli eretici pagano gli assassini di Pietro, uccisione di Pietro, l'ultima storia è illeggibile). A Firenze, in S. Maria Novella il santo era rappresentato in una tavola perduta, presumibilmente precoce (Krüger, 1992); in tempi leggermente più tardi venne raffigurato solo, nella tavola di S. Stefano a Firenze, attribuita al Maestro del Trittico Horne (Offner, 1956, pp. 106-107), con il libro e la palma del martirio, e anche nella tavola attribuita al Maestro di Fossa (Spoleto, S. Domenico); nella predella del polittico di S. Maria Novella di Bernardo Daddi (1338) è raffigurato mentre predica nella piazza di S. Maria Novella e ferma un cavallo imbizzarrito (Parigi, Mus. des Arts Décoratifs) e nella tavola di Firenze (Mus. del Bigallo) mentre fonda - altro atto emblematico - la Confraternita della Vergine (Antal, 1947).La politica di immagini dei grandi conventi domenicani dovette essere molto ampia; sia in tempi precoci sia nel Trecento non si limitò alla raffigurazione di santi dell'Ordine, ma investì altri temi e ambiti iconografici. Ovvio l'uso dei crocifissi dipinti: Giunta Pisano ne dipinse uno per la chiesa domenicana di Bologna, verosimilmente alla data della consacrazione (1250); poco più tardi il convento di S. Sisto a Roma ne commissionò uno in cui ai piedi di Cristo è assiepata una piccola folla di frati e suore bianchi e neri (Garrison, 1949, n. 488; Gardner, in corso di stampa); Cimabue ne dipinse uno per S. Domenico di Arezzo; nel 1288, i D. di S. Eustorgio di Milano ne fecero realizzare uno, di grandi dimensioni, da un artista probabilmente veneziano o di area veneta (Matalon, 1984, p. 126); verso la fine del secolo si colloca la grande croce giottesca di S. Maria Novella.Aspetto ancora più caratteristico dei D. è la devozione alla Vergine (Cannon, 1980; 1982; Hamburger, 1989), elemento comune e persistente anche nelle loro imprese artistiche; in proposito è stato opportunamente ricordato (Gardner, 1979b) il passo del 1286 di un sermone del frate domenicano Nicola da Milano: "quaestio de ymagine Virginis in cuius honore hic sumus congregati [...] ista ymago est tota e totaliter Dei" (Meersseman, 1948). La Maestà di Guido da Siena, del 1270-1280 ca. (Siena, Palazzo Pubblico), fu probabilmente fatta per l'altare maggiore di S. Domenico e forse sostituita, entro l'anno del Capitolo generale del 1306 (Cannon, 1980), dal polittico di Duccio (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 28), a sua volta poi copiato per altre chiese dell'Ordine. Per la chiesa di S. Caterina a Pisa, Deodato di Orlando dipinse, nel 1301, un polittico in cui, accanto alla Vergine con il Bambino, compaiono s. Giacomo Maggiore, s. Domenico, s. Pietro e s. Paolo; meno di vent'anni dopo Simone Martini eseguì un nuovo polittico (Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo) ancora per l'altare maggiore della stessa chiesa, in cui introdusse alcune fondamentali novità iconografiche, tra le quali la raffigurazione di Tommaso d'Aquino, non ancora ufficialmente canonizzato, nella predella. Contemporaneamente o poco dopo quest'ultimo apparvero altri due polittici per grandi chiese domenicane, ancora di Simone Martini per il S. Domenico a Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo) e di Ugolino per S. Maria Novella a Firenze, e in seguito un altro discreto numero di polittici ducceschi o martiniani, sostanzialmente copie di questi prototipi (Cannon, 1980; 1982).Né la produzione di immagini si limitò alla realizzazione di pale d'altare: la figuratività fu sempre una questione assai considerata dai D., probabilmente anche in rapporto alla funzione delle immagini per la memoria e la meditazione (Bolzoni, 1988; Carruthers, 1990), specie dopo gli anni ottanta del Duecento, con il definitivo inurbamento dell'Ordine. Anche per questo si è voluto individuare l'influsso dei D. nella concezione di complessi figurativi non ideati per chiese o conventi dell'Ordine: così l'apparato scultoreo del duomo di Friburgo in Brisgovia (Moriz-Eichborn, 1899), così quello della facciata del duomo di Orvieto (Taylor, 1980-1981), così l''invenzione' della Bible moralisée, attribuita da Mackenzie (1965) al primo cardinale domenicano, Ugo di San Caro, così forse anche l'uso estensivo dell'iconografia del trono di Salomone o della Vergine come sedes sapientiae, derivata dal Mariae thronus del domenicano Alberto Magno, fortunatissima, non soltanto in ambito domenicano, tra il sec. 13° e il 14°, specialmente nell'Europa Centrale.Tra la fine del sec. 13° e gli inizi del 14° è palese la necessità di decorare interi spazi di chiese, spesso da poco costruite ex novo o radicalmente trasformate e ampliate. Si sa pochissimo delle eventuali originarie decorazioni della chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma, mentre era affrescata la chiesa di S. Maria in Gradi a Viterbo (Romano, 1992, p. 235); verosimilmente imperniata su temi mariani era la decorazione ad affresco, nel primo Trecento, della chiesa del convento di S. Sisto Vecchio a Roma, legato al culto dell'icona Tempuli (Romano, 1992, pp. 133-137). Il tema mariano ricorre frequentemente anche in contesti geografici molto diversi, per es. a Erfurt, dove è raffigurata, nell'abside, la Morte della Vergine. Con buona probabilità, anche la perduta decorazione della cappella absidale dei Jacobins di Tolosa, dedicata alla Vergine, rispettava lo stesso tema, con il possibile concorso di vetrate dipinte (Vicaire, 1974, p. 239).La chiesa domenicana di Costanza era fittamente affrescata sulle pareti delle navate, del coro e della controfacciata con centodue storie di martiri, in parte ancora esistenti (ca. 1320), sui 'tramezzi' tra coro e navate (Crocifissione con la Vergine, S. Giovanni, un pontefice, tre vescovi, S. Domenico e S. Francesco) e anche nelle cappelle adiacenti al coro, una delle quali era la cappella di Enrico Suso (Becksmann, 1979; Hamburger, 1989). Le vetrate arricchivano e integravano - come nella basilica francescana di Assisi - i programmi dipinti: consistenti testimonianze di questa cultura pittorico-vetraria rimangono soprattutto in Germania. È forse precocissimo, entro il 1260, un ciclo tipologico che comprende storie vetero e neotestamentarie e storie di s. Domenico nella chiesa domenicana di Strasburgo, ora al duomo (Beyer, 1956). Intorno al 1280 venne realizzato un ciclo biblico nel coro della chiesa domenicana di Colonia, committente forse anche lo stesso Alberto Magno (Rode, 1974), e, verso la fine del secolo, venne eseguito un ciclo vetrario biblico-cristologico-tipologico nel coro di Bad Wimpfen am Berg nel Baden-Württemberg (ora a Erbach-Odenwald, Gräfliche Sammlungen im Schloss Erbach; Wentzel, 1958). Le diocesi di Strasburgo, Costanza e Basilea sono ricchissime di queste imprese vetrarie: agli anni compresi tra il 1290 e il 1331 (data in cui, per ragioni politiche, i D. vennero cacciati dalla zona) risalgono i cicli nelle chiese domenicane di Friburgo, Costanza, Colmar e Strasburgo (Becksmann, 1967). La ricostruzione dei cicli non è facile, a causa delle lacune e dei mutamenti nella disposizione dei vetri delle finestre: nella zona del coro sembrano prevalere i cicli cristologici (Strasburgo, Costanza) ed è frequente la presenza della Vergine affiancata da apostoli o santi, compresi quelli dell'Ordine (Friburgo, Colmar); a Strasburgo, e forse anche a Colmar, ricorre l'iconografia del trono di Salomone, che fa parte di quel versante enciclopedico-didascalico molto vicino ai D. (Michna, 1961; Mackenzie, 1965) e da loro frequentemente utilizzato (Romano, 1976).Altro luogo-chiave erano le sale capitolari, dove si svolgeva una buona parte della vita comunitaria e 'sociale' dei frati. Già nel 1281 quella del convento domenicano di Londra aveva soffitto e pareti dipinti (Hinnebusch, 1951). A S. Domenico di Pistoia nella sala capitolare appare, come di norma non solo tra i D., una Crocifissione a fresco, con s. Agostino e s. Domenico. I parenti del frate Tommaso de Sciortis fecero affrescare la sala capitolare del grande convento di S. Caterina a Pisa probabilmente nel primo Trecento (Chronica antiqua conventus, 1848, p. 484); affrescate con Storie di s. Caterina, s. Pietro Martire, s. Domenico e s.Tommaso erano anche le pareti adiacenti del chiostro; un caso analogo è il S. Francesco a Siena, dove Ambrogio Lorenzetti dipinse sia le pareti del chiostro sia la sala capitolare. È da notare la frequentissima associazione di s. Caterina d'Alessandria al culto domenicano, a Pisa maggiormente giustificata dalla originaria dedicazione della chiesa, ma in generale spiegata dalla fisionomia 'colta' della santa che disputa con i filosofi (Boskovits, 1990, p. 141).Un importante convento dei D. dell'Italia settentrionale era quello di Bolzano, che nel quarto decennio del Trecento ricevette imprese decorative piuttosto vaste, sia nella chiesa sia nella sala capitolare e nel chiostro: nella sala capitolare c'erano tondi con l'indicazione delle province dell'Ordine, una Crocifissione, un martirio di s. Caterina d'Alessandria, figure di santi divise da colonne tortili e, negli angoli, santi domenicani sotto tabernacoli (Rasmo, 1980; Gibbs, 1981). Da notare che sulla parete esterna della sala capitolare affacciante sul chiostro comparivano altri soggetti domenicani (S. Tommaso d'Aquino, S. Blasio, D. che venerano s. Pietro Martire).La decorazione meglio conservata e complessa è forse quella di S. Nicolò a Treviso, risultato di una sorta di stratificazione. Del programma più antico sopravvive qualche frammento sottostante al ciclo trecentesco: una fascia a pannelli di finto marmo e un'altra a fregi, sovrastata da una fascia a quadrilobi in cui compaiono delle iscrizioni, purtroppo difficilmente leggibili. Contemporaneamente, o poco più tardi, il soffitto a travature di legno ebbe una serie di figurazioni, tra cui il Volto di Cristo, angeli, santi e i ss. Francesco e Domenico; la Crocifissione della parete di fondo si colloca a fine secolo o al pontificato di Benedetto XI (Gibbs, 1989; Boskovits, 1990); infine, nel 1352, il ciclo di Tomaso Barisini (Gardner, 1979b; Gibbs, 1989; Russo, 1992). Qui, al di sopra di una doppia fascia di clipei contenenti i nomi delle regiones dell'Europa, e quelli delle province italiane dell'Ordine, compare una straordinaria parata di 'uomini illustri' dell'Ordine (pontefici, cardinali, vescovi, frati), ciascuno seduto in uno scranno e intento a leggere o meditare, in una rappresentazione del lavoro o dell'attività intellettuale che appare sostanzialmente emancipata dalla finalizzazione dello studio alla predicazione, sostenuta per es. nel De vita regulari di Umberto di Romans (1200 ca.-1277): "Notandum est autem quod studium non est finis Ordinis, sed summa necessarium et ordinatum ad praedicationem, et praedicatio ad animarum salutem", (Kaeppeli, 1975, p. 28).La Toscana appare luogo privilegiato per lo sviluppo straordinario dei centri di cultura domenicana in questa regione. Lo studium generale di S. Maria Novella e lo studium artis di S. Caterina a Pisa furono tali luoghi di elaborazione di cultura da superare di molto i confini dell'Ordine stesso e da diventare centri di intellettualità, anche mediante il sistema dell'insegnamento nelle scuole, che si estendeva ai laici e che comprendeva in vastissima misura la conoscenza dei classici accanto ai testi religiosi (Taurisano, 1931; Davis, 1965; Elm, 1976). Se proprio tra Pisa e Firenze nacquero alcune opere che sono tra le più teoricamente fondanti di tutta la produzione domenicana colta, questa svolta non maturò senza la confluenza di vari elementi. L'Ordine infatti era evidentemente alla ricerca di un sistema di identificazione ideologica, in qualche modo ancora non sufficientemente messo a punto: la figura e la leggenda di s. Domenico, infatti, non erano risultate veramente efficaci dal punto di vista figurativo e neanche con il pur popolarissimo Pietro Martire sembrava esser stato superato il gap nei riguardi dei Francescani, il cui sistema di immagini e il cui fondatore erano certamente più precoci e più efficaci.L'identificazione avvenne tramite la figura di s. Tommaso d'Aquino. Morto a Fossanova nel 1274, canonizzato con grandi pressioni angioine solo nel 1323 (Vauchez, 1978), la sua importanza travalica i confini di un interesse locale, divenendo il simbolo dei due temi portanti dell'attività e dell'ideologia dell'Ordine: la dottrina - e quella tomistica assurse a dottrina ufficiale della Chiesa e non solo dell'Ordine - e la lotta agli eretici, che costituì il filo ininterrotto della ragion d'essere dell'Ordine e il nesso con l'attività del fondatore s. Domenico e con quella di s. Pietro Martire.La tradizione vuole che di Tommaso d'Aquino esistesse un ritratto 'autentico' a S. Maria in Gradi a Viterbo (1268) e che di esso fossero state fatte varie copie, per es. per il convento viterbese dei Carmelitani e per la stessa abbazia di Montecassino (Lechner, 1974), ma tutto questo è perduto. La prima raffigurazione di Tommaso si riteneva fosse quella della tavola, del 1300 ca., di Kansas City (Rockhill Nelson Gall.; Bologna, 1969, p. 106; Leone De Castris, 1986, p. 158); per Polzer (1993, pp. 61, 69) essa è però soltanto un falso moderno. È quindi solo intorno al 1320 che Tommaso appare nel polittico di Simone in S. Caterina a Pisa, ma ancora in luogo marginale, cioè nella predella. Una interessante notizia (Künstle, 1926, p. 559) riferisce di un 'trionfo' di Tommaso che sarebbe esistito a Fossanova, cioè nel luogo dove morì, e che sarebbe databile al 1323 ca., all'epoca cioè della sua canonizzazione. Non si può sapere come fosse questo 'trionfo', ma non molti anni dopo (cronologia e autore sono ancora discussi; Polzer, 1993), venne dipinta, ancora per il convento di S. Caterina di Pisa, una tavola usualmente definita 'trionfo', che è la composizione più dotta e pensata tra tutte quelle finora viste. L'immagine del recente santo come sintetizzatore ed emanatore di cultura, destinatario e legittimo erede dell'ispirazione divina (il Vecchio e Nuovo Testamento) e della cultura classica (Aristotele e Platone), in gerarchica superiorità sul reclino Averroè, costituisce uno straordinario risultato di elaborazione dottrinale e figurativa, che contrappone iconograficamente il nuovo santo al francescano s. Ludovico di Tolosa (Cannon, 1982; Gardner, 1988).La figura di s. Tommaso come maestro di dottrina torna anche in contesti meno ambiziosamente intellettuali: nella tavola attribuita al Maestro del Biadaiolo (New York, Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.; Offner, Steinweg, 1987), dove l'Aquinate in cattedra ha Averroè sdraiato in atto di sottomissione, ma anche, tra l'uditorio, s. Ludovico di Tolosa; nella miniatura del corale H di Firenze, del 1330-1340 ca. (Mus. di S. Maria Novella; Offner, Steinweg, 1987), o, fuori dalla Toscana, nella tomba dell'abate Gallo in S. Andrea a Vercelli, del 1360-1370 ca. (Passoni, 1986). Ma l'immagine del maestro di cultura poteva adattarsi anche ad altri personaggi prestigiosi dell'Ordine (Bartolomeo da San Concordio, Ammaestramenti degli Antichi, Firenze, Bibl. Naz., II.II, 319, c. 3r; Offner, Steinweg, 1987): l'ossequio alla cultura arrivò, nello pseudo-Seneca, degli inizi del sec. 14° (Parigi, BN, lat. 11855; Avril, Gousset, 1984), a raffigurare lo stesso Seneca in trono, come maestro, con un libro aperto, mentre ai suoi lati due frati domenicani lo omaggiano con un gesto delle mani.Intorno alla metà del secolo era tuttavia il convento fiorentino di S. Maria Novella che si poneva ormai come il centro maggiore di elaborazione del pensiero e di propaganda. Lì venne prodotta la curiosa tavola con tutti i santi e i beati domenicani (a eccezione di Alberto Magno) in ranghi ordinati attorno a Cristo e alla Vergine: la tavola è meno aridamente didascalica di quanto possa apparire. Tra la metà degli anni cinquanta e il 1368 vennero poi realizzati due complessi figurativi di altissima portata ideologica. Il primo è la cappella Strozzi, cappella funeraria della famiglia fiorentina, ma meno 'privata' di quanto si creda e in realtà conosciuta come 'cappella di s. Tommaso' (Arthur, 1983). Gli affreschi di Nardo di Cione alle pareti (Giudizio universale, Paradiso, Inferno) provvedono un elaborato sfondo escatologico - completato nella volta da una iterata figura di s. Tommaso affiancato da coppie di virtù - alla pala d'altare, opera di Andrea Orcagna, che la firma nel 1357. Straordinariamente complessa, frutto di varie stratificazioni di significato e dei corrispondenti schemi figurativi, questa pala elabora lo schema della Traditio legis insieme a quello - frequente nei codici bolognesi di diritto - della divisione dei poteri; le figure dei santi forniscono un'altra serie di riferimenti anche localmente fiorentini, mentre la figura di Tommaso assume un ruolo centrale, sostituendo Paolo al fianco di Pietro, e forse al tempo stesso essendo un ritratto del committente, Tommaso di Rossello Strozzi (Paoletti, 1989; Kreytenberg, 1992). Sulla strada già segnata dalla pala Strozzi, infine, il complesso d'affreschi del Cappellone degli Spagnoli, la sala capitolare di S. Maria Novella, sembra essere la sintesi, il punto d'arrivo, di tutti i temi fin qui visti: la dottrina tomista come unica dottrina ufficiale della Chiesa, il pensiero politico tomista come corretta 'fotografia' della gerarchia dell'universo e, in essa, l'attività di predicatori, confessori e ortodossi difensori della fede dell'Ordine domenicano, simboleggiato dai suoi tre santi maggiori, sono i temi portanti del più esteso ciclo d'affreschi domenicano mai realizzato (Romano, 1976; Gardner, 1979a).Il tema del 'trionfo' di s. Tommaso, che nel Cappellone degli Spagnoli è usato per dare una visione onnicomprensiva del concetto domenicano di dottrina, ritorna anche altre volte, variato e adattato: specialmente nel S. Eustorgio a Milano (Matalon, 1984), dove la sfumatura rigorosamente ortodossa e antiereticale del 'trionfo' fiorentino sembra molto ammorbidita e s. Tommaso in trono, circondato da evangelisti e virtù, insegna a un uditorio misto, dove chierici e frati di tutti gli ordini si mescolano a laici e a pensatori arabi, tutti ugualmente occupati ad ascoltare, meditare, scrivere sotto l'insegnamento del maestro. Discutibile appare l'opinione di Blume (in Blume, Hansen, 1992), che vuole riportare a un prototipo agostiniano l'invenzione dei 'trionfi' domenicani: in mancanza di prove sicure, è certo che questo tipo di iconografia appare, nella varietà delle soluzioni escogitate, il tentativo più esteso e organico di 'propaganda' tomista nel corso del 14° secolo.La penetrazione dell'influenza domenicana non si limita a questi episodi di élite culturale. Grande attenzione è stata di recente prestata (Hamburger, 1989) al caso di Enrico Suso, il mistico domenicano che visse nel convento di Costanza, dotato di una particolare sensibilità non solo per la generale efficacia delle immagini ai fini della meditazione ed elevazione dell'anima, ma per l'uso delle stesse immagini per un compito speciale, la cura monialium, l'assistenza spirituale data ai conventi femminili. L'attenzione nei confronti della spiritualità femminile sembra sviluppare il versante devozionale della religiosità domenicana; ma in ogni caso evidenzia una tendenza mistica, individuale, solitaria, della religiosità, che non per nulla si riconosce nei temi della vita eremitica, da quelli rappresentati nella Tebaide del Camposanto di Pisa, dettati, sembra, dal domenicano Domenico Cavalca (Callmann, 1975; Frugoni, 1988), agli altri, analoghi, che Enrico Suso aveva fatto affrescare nella propria cappella della chiesa di Costanza (Hamburger, 1989). La questione della religiosità femminile, dirompente nel corso del Trecento, è problema di prim'ordine in campo domenicano, che annovera tra le proprie file Caterina da Siena; e anche in campo figurativo l'Ordine conta alcuni episodi significativi, tra i quali quello riguardante Tommaso Caffarini, seguace e cultore di Caterina da Siena. Egli, fondatore a Venezia del monastero femminile del Corpus Christi, fu anche il committente della pala d'altare dipinta da Andrea di Bartolo tra il 1394 e il 1398 (Freuler, 1987), in cui Caterina da Siena è raffigurata insieme ad altre quattro sante domenicane - Margherita da Città di Castello, Giovanna da Firenze, Vanna da Orvieto, Daniela da Orvieto -, ognuna raffigurata in preghiera o in estasi, o nell'atto di ricevere le stimmate, rappresentazione femminile di gruppo, nel segno di una religiosità accesa ed estatica, elemento comune alla maggior parte delle sante, beate e 'recluse' del Tardo Medioevo italiano.
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