FARINI, Domenico Antonio
Nato a Russi (Ravenna) da Marco e Santa Troncossi il 25 febbr. 1777, era stato avviato alle discipline umanistiche e teologiche presso il seminario di Faenza, in quel tempo ricco di eccellenti maestri, dove aveva rivelato grande disposizione per gli studi. Quando i Francesi entrarono in Italia era sui vent'anni, e si entusiasmò subito per le nuove idee che si diffondevano al seguito di quelli che - date le condizioni politiche e sociali in cui versavano queste regioni - gli apparvero liberatori più che invasori. Lasciò quindi il seminario e, nel febbraio 1797, fu nominato, minutante presso la segreteria della commissione locale della nuova amministrazione centrale dell'Emilia. Due anni dopo, caduta la Cisalpina, fu perseguitato e arrestato, accusato assurdamente di ateismo sulla base di testimonianze prezzolate. Con il medesimo sistema ottenne il proscioglimento: "Buon per me - narra egli stesso nell'opuscolo Il criminalista del Rubicone - che quanto illegittimamente fui carcerato, altrettanto illegalmente fui pure dimesso, dietro lo sborso di poco danaro". Questa prima amara esperienza vale forse a spiegare il suo persistente interesse per i problemi di procedura penale.
Con il ritorno dei Francesi dopo Marengo il F. divenne capitano della guardia nazionale e poi segretario della medesima a Faenza, attuario presso una commissione militare a Forlì, poi cancelliere criminale ancora a Faenza e a Brisighella, dove conquistò larga stima - dice A. Metelli - "per la sua virtù e dottrina", "l'innocente sua vita", "la probità dell'animo e l'amor suo verso gli studi". Studi che veniva approfondendo particolarmente nel campo della giurisdizione criminale, fino a pubblicare nel 1806 a Forlì Il criminalista del Rubicone, un manuale lodato da D. Guicciardi e financo da G. Luosi, ministro della Giustizia del Regno Italico, il quale proprio in quegli anni aveva affidato a G. D. Romagnosi lo studio per la riforma del codice e delle procedure penali: ne conseguì nel 1807 la nomina del F. a cancelliere della corte di giustizia civile e criminale di Forlì, confermata l'anno dopo dal viceré. A quel tempo risalgono la traduzione degli Elementi della morale universale ossia Catechismo della natura di P.-H. d'Holbach che il F. pubblicò (Forlì 1808), pur senza condividere le concezioni rigidamente materialistiche del filosofo francese, nonché l'inizio di un'attività giornalistica che si protrarrà per un decennio, attraverso la fondazione e la direzione, insieme con T. Zoffili, del Redattore del Rubicone (più tardi Giornale del Rubicone).
Il periodico, come annunciava il manifestoprogramma del 20 nov. 1809 (riportato dal Rava), era destinato a "contenere gli atti di pubblica amministrazione, e notizie scientifico-letterarie di ogni genere", "articoli inediti, utili, nuovi, intelliggibili al maggior numero di persone, e specialmente concernenti lo stato presente, i difetti, i miglioramenti dell'Agricoltura locale, la statistica del rispettivo Paese, o interessanti in qualunque modo il [Dipartimento del] Rubicone", e uscì dal 1810 al 1817 (ma gli articoli del F. cessano con il 1814). A questo programma, che sarebbe piaciuto a C. Cattaneo, sono fedeli anche i due almanacchi (1811 e 1812), nei quali, oltre alle notizie statistiche, si danno dettagliate informazioni naturalistiche, fisiche, amministrative, economiche, industriali, sulla viabilità, l'idrografia, le nuove coltivazioni, le miniere: il tutto inquadrato "in un contesto più ampio e tale da fornire al lettore - come rileva A. Veggiani (in D. A. F., 1986) - una sorta di storia geologica e naturalistica dell'intero territorio".
A queste attività il F. accompagnava anche quella dell'insegnamento della fisica, della matematica e delle scienze naturali che andava approfondendo sotto la guida di C. Maioli, reputato botanico forlivese, del quale divenne collaboratore e amico e di cui pubblicherà più tardi la biografia (Forlì 1818).
Nel 1815 il F. si gettò anima e corpo nell'impresa di Gioacchino Murat (e non è un caso che il titolo di cavaliere delle Due Sicilie conferitogli da re Gioacchino sia il solo ricordato nell'epitaffio che egli stesso si era preparato), esaltato da quel proclama dato da Rimini che parlava della felice Italia, dell'indipendente Italia.
Caduta anche questa illusione e sopite le prime e peggiori burrasche della reazione, si ritirò di nuovo nel paese natio, riprendendo gli studi e gli esperimenti di agricoltura e scienze naturali, nonché l'attività di insegnante (della quale sarà ben presto destinatario principale il nipote Luigi Carlo, nato da suo fratello Stefano nel 1812). Sono di questo periodo L'insetto roditore del grano in erba in Romagna nell'anno MDCCCXVI (Forlì 1816) e altri lavori di pedagogia e didattica, agraria, linguistica, storia e biografia che egli avrebbe voluto pubblicare in un solo volume dal titolo Prose varie e che invece - viste le difficoltà di ottenere l'imprimatur - finiranno con l'apparire in tempi e luoghi diversi, salvo alcuni che poterono finalmente essere stampati insieme da M. Casali nel 1826.
Meritano di essere ricordate, per la forma elegante non meno che per la nobiltà dei concetti, inedite operette agiografiche, rintracciate nell'Archivio della Chiesa dei servi di Russi (Orazione in onore dei beati sette fondatori dell'Ordine dei servi di Maria, 1825) o edificanti come l'elogio funebre dello zio materno don Vincenzo Troncossi (1830), che dà occasione di delineare un modello della figura dei sacerdote e della sua alta missione, confermando la perfetta ortodossia cattolica del F. le cui auctoritates sono, oltre al Vangelo, Agostino, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Isidoro; e fra le riflessioni pedagogiche il Discorso sulle scuole prime (Forlì 1824) e quello Sull'educazione delle fanciulle (che uscirà ancora a Forlì presso il Casali nel 1830), certamente scritto pensando all'unica figlia Clelia.
Il potere restaurato, che pure gli aveva permesso di esercitare in patria le funzioni di notaio, non poteva dimenticare uno dei più sottili fra i suoi avversari il quale, dal canto suo, non faceva nulla per mimetizzarsi. Intanto il F., già iscritto alla massoneria, era entrato anche nella carboneria: queste non erano cose che sfuggissero alla polizia che stava proprio in quel tempo affrontando direttamente il groviglio delle sette. L'ondata repressiva conseguente ai moti del 1821 costrinse il F. all'espatrio e al confino per un triennio, dopo di che egli poté rientrare a Russi ed esercitarvi - benché inquisito nel celebre processo Rivarola - le funzioni di notaio.
E poi la sua attività culturale era sì dedicata alla divulgazione scientifica (in quegli anni gli "venne volontà - narra egli stesso nelle Memorie autobiografiche - di tradurre alcuni punti della Storia Naturale di Buffon per l'edizione che si faceva in Piacenza da Del Maino"; ma l'impresa, dopo la pubblicazione di alcuni volumetti concernenti insetti, crostacei, conchiglie, vermi e vegetali, finirà con l'interrompersi per contrasti con l'editore e con gravi amarezze per l'autore), ma non perdeva occasione per fare incursione in altri più delicati settori. Ad esempio, fu stampato a Lugo nel 1822, anonimo in quanto offerto ad un quaresimalista a nome dell'intera comunità parrocchiale russiana ma notoriamente del F., il Volgarizzamento dei sermoni XXXVI e XXXVII di s. Agostino ai fratelli dell'eremo, e cioè Ad presbyteros de vita eorum e De non vendenda sacramenta (cfr. Patr. Lat., XL, 6, coll. 1298 e 1301, che sono non solo fra le più violente requisitorie contro i costumi del clero e la simonia ma anche da gran tempo riconosciuti apocrifi (cfr. ibid., XL, 6, coll. 1233 s.).
Qualche anno dopo, insieme con G. Gucci, il F. promosse la pubblicazione dei Commentari di Stefano Bonsignore, versi ed iscrizioni in onore di lui (Faenza 1827), cioè di un prelato cesarista che Napoleone in persona aveva voluto innalzare al patriarcato di Venezia (1811) dalla diocesi di Faenza, dove poi era stato retrocesso dopo un anno di sospensione: il p. T. Saporetti che aveva concesso l'imprimatur perdette l'ufficio di censore. Non è dunque senza motivi che il F. fu bandito da A. L. Rusconi, condannato da A. Rivarola, ammonito al tempo della terribile commissione inquirente presieduta da F. Invernizzi e istituita dopo l'attentato al predetto cardinal legato (23 luglio 1826), più volte precettato a fare esercizi spirituali in qualche convento; mentre in quel tempo doveva anche affrontare il dolore per la, perdita della moglie Rosa Baccarini, a lui carissima fin dai lontani anni faentini, e i disagi della crescente sordità.
Continuava tuttavia a studiare e a scrivere: lavori storiografici, come La Romagna dal 1796 al 1828, uscito postumo a cura di L. Rava (Roma 1899) e le Memorie autobiografiche, pubblicate a Russi solo nel 1985 a cura di L. Montanari, nonché saggi sul mondo contadino.
L'interesse del F. per la scienza agraria e l'economia agricola risaliva al già ricordato opuscolo del 1816 su L'insetto roditore del grano... ed era stato confermato dall'articolo, del 1825, Sui grandi vantaggi di una buona agricoltura. Sette anni dopo compaiono a Forlì, sempre per M. Casali, la dissertazione Sui patti che si stabiliscono coi coloni della Romagna e il Discorso sul codice agrario per la Romagna, sui quali si difende, con motivazioni di ordine economico ma anche di ordine etico, il sistema produttivo mezzadrile nei confronti dell'affitto (un istituto che dopo la conferenza dei Georgofili veniva sviluppandosi anche in Romagna), che rovina il contadino, gli toglie ogni certezza e, eliminando l'amore per la coltura agricola che sorregge il giusto patto di mezzadria, finisce col distruggere il frutto di decenni di laboriosità.
Un'ultima comparsa sulla scena politica il F. fece con la rivoluzione del 1831 quando, sedente a Bologna il governo provvisorio delle Province Unite, fu chiamato alla direzione della polizia dai forlivesi che ricordavano la dottrina e l'equilibrio di colui che era stato, nel lontano 1807, cancelliere della loro corte di giustizia: e a Forlì egli fu testimone, diffondendone clandestinamente una cronaca (come narra egli stesso nell'autobiografia), della strage operata dalle milizie del col. V. Barbieri, al seguito del card. G. A. Albani, nel gennaio 1832.
Rivelatrice del clima persecutorio che assediava il F. è - più che le provocazioni e gli insulti di qualche facinoroso, che pur vi furono - la vicenda della sua biblioteca privata, di circa quattromila volumi, che egli tentò invano di donare alla sua patria. Il Consiglio comunale di Russi aveva accettato il dono benché a lieve maggioranza; lo stesso mons. L. Medici Spada, vicelegato, aveva espresso parere favorevole, ma poi qualcuno, forse lo stesso capo della magistratura cittadina "per una delle solite sue malignità - come ipotizza il medesimo F. nelle sue Memorie autobiografiche - scrisse all'E.mo Rivarola in Roma affinché immediatamente desse ordine che il progetto non fosse accettato".
Un importante traguardo per il proprio paese il F. riuscì però a realizzare nonostante le difficoltà reali o pretestuose che fossero: un don Francesco Maccabelli, che era stato maestro suo e di altri brillanti ingegni (per esempio Vincenzo Monti e Dionigi Strocchi) nel seminario di Faenza, lasciò erede universale la sorella Giovanna con la preghiera di usare quei beni per un'opera di pubblica utilità. Essa chiese consiglio al F. che le suggerì un testamento a favore della congregazione di Carità con l'obbligo tassativo di fondare un ospedale; alla morte di lei (1830) l'iniziativa fu in cima ai pensieri del F. che, oltre a scrivere Memorie sullo spedale da istituirsi in Russi per la pia disposizione di Giovanna Maccabelli (Forlì 1834), riuscì a convincere molte persone, nella sua qualità di notaio, ad aiutare con lasciti la progettata istituzione, ottenne a condizioni di favore dalla Comunità di Faenza, che ne era proprietaria, l'antica rocca del castello, promosse il progetto per adattarla e ampliarla al nuovo uso seguendo i lavori e controllandone la gestione finanziaria fino al proprio allontanamento, voluto nell'estate del 1834 con tanta determinazione da indurre l'autorità a contestare financo la legittimità del testamento da cui tutta l'impresa, oltre alla posizione preminente del F., si basava.
A Russi, il 31 dic. 1834, a notte, il F. veniva pugnalato a morte sulla soglia di casa.
L'omicidio, di indubbia marca sanfedista, maturato cioè fra i più violenti di coloro che lo stesso arcivescovo di Ravenna C. Falconien Mellini aveva definito, in una lettera del 27 febbr. 1837 al prolegato L. Vannicelli Casoni, "que' disgraziati che stimo piuttosto nemici che amici del Governo", fu ritenuto opera di Romualdo Fantini (complice tale Battista Baroni), che per questo fu a sua volta assassinato cinque anni dopo dal carbonaro Biagio Turtura. Il Fantini era uomo di fiducia di mons. Pellegrino Farini, un intellettuale esponente della scuola classica romagnola, rettore di istituti di istruzione superiore, nel quale si volle riconoscere il mandante: di questo avviso sembra essere stato Luigi Carlo Farini e fu certamente il pronipote Plinio Farini. L'ipotesi è naturalmente tutt'altro che provata; e lo stesso Epaminonda Farini, acceso anticlericale, pare non l'accettasse. Probabilmente il delitto non ebbe un mandante vero e proprio e fu piuttosto il frutto dell'odio collettivo contro i liberali, dell'intolleranza che imperversò in queste regioni fino al pontificato di Pio IX.
Fonti e Bibl.: L. C. Farini, Commentario sulla vita di D. A. F. da Russi, Parigi 1844 (ristampato a cura di D. Berardi, in Il Risorgimento e L. C. Farini, I [1959], 4, pp. 371-418); A. Metelli, Storia di Brisighella e della Val d'Amone, Faenza1892, III, p. 170; L. Rava, Il maestro di un dittatore: D. A. F., Roma 1899; P. Farini, Sicari e mandanti nell'assassinio di D. A. F., in Il Risorgimento italiano, V (1912), pp. 505-529; P. Zama, L. C. Farini, Faenza 1961, passim e particolarm. le pp. 17-72; D. Berardi, Sui volgarizzamenti da s. Agostino di D. A. F., in Studi romagnoli, XVII (1966), pp. 23-28; D. A. F., Giornata di studi, 28 apr. 1985, Russi 1986; D. Berardi, La biblioteca di D. A. F., in Romagna arte e storia, X (1990), 29, pp. 63-70.