BECCAFUMI, Domenico (Mecherino, Mecarino)
Nacque nel 1486 presso Siena, forse nel podere lavorato da suo padre Iacomo di Pace, alle Cortine, vicino al Castello di Montaperto.
Derivò il cognome, in seguito, da quello del proprietario della terra Lorenzo Beccafumi il quale, a detta del Vasari, vedendo le doti artistiche del fanciullo, lo prese in casa e lo fece studiare. Tale precocità non è riscontrabile, data la totale mancanza di dipinti o documenti riferibili con sicurezza agli inizi dell'attività del Beccafumi.
Dall'esame delle prime opere pervenuteci risulta chiaramente che la formazione artistica del B. dovette svolgersi nell'ambito della cultura fiorentina, assai più vitale, nel primo decennio del Cinquecento, di quanto non fosse quella senese. A Firenze infatti, oltre alla misura compositiva ideale prospettata dal classicismo di fra' Bartolomeo e dell'Albertinelli, il B. poté risentire di quei nuovi fermenti della fantasia che, già visibili ad esempio nelle ultime opere di Filippino Lippi, erano destinati a svilupparsi a spese del classicismo aprendo la strada alle "maniere" di carattere più individuale. Della massima importanza fu senza dubbio il soggiorno che, secondo il racconto vasariano, il senese fece a Roma fra il 1510 e il 1512 allo scopo di vedere gli affreschi di Michelangelo e di Raffaello e di studiare le antichità. Se la stanza della Segnatura e ancor più la volta della Sistina costituirono inevitabilmente un potente incentivo alla formazione della maniera del B., gli affreschi con cui il concittadino Baldassarre Peruzzi andava adornando le mura di ville e palazzi dovettero offrirgli un esempio formale più accessibile e intelligibile di quelle supreme creazioni. I resti della decorazione interna del castello di Ostia, il fregio di una stanza e la volta della sala di Galatea alla Farnesina rappresentano infatti, nel modellato, nei tipi delle figure e nel trattamento della luce, reso più fluido dalla tecnica stessa dell'affresco, ciò che vi è di più affine allo stile delle prime opere del B., il quale dipinse anch'egli a Roma la facciata di una casa in Borgo, oggi perduta, con le armi di Giulio II. Similmente perduta, se non per un disegno preparatorio al British Museum, è la decorazione che, di ritorno a Siena, l'artista eseguì intorno al 1513 sulla facciata del palazzo Borghesi alla Postierla, decorazione monocroma con finte statue e bassorilievi in evidente rapporto con i precedenti esempi peruzzeschi. Del 1513-14 sono anche le prime opere documentate che ci sono pervenute: il trittico con la Trinità fra due coppie di santi della Pinacoteca di Siena, già sull'altare della cappella del Manto nello Spedale, cappella che, ridotta oggi a vestibolo, conserva ancora un lunettone affrescato con l'Incontro di Gioacchitto e Anna e i fregi decorativi della volta.
I volumi dilatati sull'esempio dei recenti gigantismi michelangioleschi, l'accentuazione espressiva dei volti e gli stacchi violenti di luce e di colore palesano in queste opere uno stile già ben definito, la prima sicura affermazione cioè della "maniera" in Toscana. Né stupisce tale preminenza cronologica quando si pensi che il ventiseienne B. era di circa dieci anni più anziano del Rosso e del Pontormo e che fu fra i pochissimi che videro ancora fresche la volta della Sistina e la stanza della Segnatura.
Prende inizio così una lunga e assai prolifica carriera artistica che, svolgendosi quasi interamente a Siena in anni agitati da guerre e continue discordie civili, sviluppa con libertà sempre maggiore i principi di luce e di colore che ne costituiscono l'aspetto fondamentale. Fra le opere databili stilisticamente prima del 1518, anno in cui sono documentati gli affreschi dell'Oratorio di S. Bernardino a Siena, troviamo due pale d'altare: S. Caterina che riceve le Stigmate (1514 circa) con una predella di tre scomparti nella Pinacoteca di Siena e S. Paolo in trono (1515 circa) nel Museo dell'Opera del duomo a Siena. Vanno inoltre ricordati il tondo con Sacra Famiglia (1514-15 circa) nella Pinacoteca di Monaco di Baviera e il pannello con Deucalione e Pirra (1514 circa) nel Museo Horne a Firenze.
Il maggiore impegno da parte del B. nel movimentare le composizioni, che appare nei due affreschi dell'Oratorio di S. Bernardino (Sposalizio e Transito della Vergine), si ritrova nei quattro esagoni del pavimento del duomo di Siena con le Storie di Elia e di Acabbo (tre dei quali, cominciati nel 1519, furono compiuti nel 1521) e nella Natività della chiesa di S. Martino a Siena (1522-23 circa). L'ultimo esagono del pavimento con l'Incontro di Elia e Acabbo venne terminato nell'anno 1524.
La decorazione a graffito e a commesso di marmi diversi, con la quale si completò il pavimento del duomo fin sotto all'altare maggiore, fu un'attività che impegnò a intervalli il B. per tutta la vita, guadagnandogli già da allora una meritata celebrità. Oltre a fornire i disegni, è assai probabile che egli accudisse personalmente al lavoro di spolvero sul marmo e sorvegliasse la commessura dei frammenti di marmi diversamente colorati con i quali sono ottenuti i sorprendenti effetti che rispecchiano le progressive conquiste del pittore nel campo della luce.
Dopo gli esagoni citati, le opere del B. nel pavimento furono compiute, secondo i documenti, nell'ordine seguente: il fregio con Mosè che fa scaturire l'acqua dalla roccia (1524); il grande rettangolo nel quale si svolgono vari episodi riguardanti Mosè con le tavole della legge (1531); di questa e della composizione precedente esistono nella Pinacoteca di Siena i disegni originali su cartone; il fregio con il Pellegrinaggio del popolo ebreo e le figure (1544)che circondano il riquadro con il Sacrificio di Abramo (1546).
Del tutto convincente appare l'ipotesi di un secondo viaggio del pittore a Roma, intorno al 1519 avanzata per primo dal Voss, che rintraccia nella diretta visione delle Logge raffaellesche appena terminate la fonte del sintetico e lampeggiante impiego della luce che distingue le opere del B. nella prima metà del terzo decennio. L'esempio più notevole di questo indirizzo sono gli affreschi di una volta del palazzo Bindi Sergardi a Siena (1523-25 circa) in cui sono narrati episodi desunti dalla storia greco-romana e dal mito. Effetti di ancora più sorprendente libertà fantastica si ritrovano nella contemporanea prima versione del S. Michele e gli angeli ribelli nella Pinacoteca di Siena che rappresenta, in un'opera di grandi dimensioni, il tentativo più approfondito da parte del B. di liberarsi dagli schemi della tradizione. Ma l'intensità della fantasia, che si esprime nelle torsioni dei nudi e nei bagliori luminosi che pervadono la scena, resta legata sostanzialmente all'usato impianto compositivo delle masse bilanciate in simmetria ai lati di un asse centrale.
Alla mancata realizzazione di questo dipinto si potrà far risalire uno dei motivi del nuovo orientamento stilistico che comincia con la seconda versione del S. Michele (1528 circa) nella chiesa del Carmine e nello Sposalizio di S. Caterina e santi (doc. 1528) della coll. Chigi-Saracini a Siena. Non è improbabile che a determinare questo mutamento, basato essenzialmente su una concezione quasi scultorea dei volumi in rapporto allo spazio e alla luce, sia stata rilevante la influenza di Michelangelo presente a Firenze in quel decennio.
Nel 1529, in previsione di un soggiorno di Carlo V nella città, la Signoria di Siena incaricò il B. di affrescare la volta della sala del Concistoro nel palazzo pubblico. L'esecuzione di questo ciclo di affreschi, nei quali sono rappresentati esempi di virtù civiche e patriottiche tratti dalla storia antica, subì un'interruzione, e fu completata solo nel 1535, quando finalmente avvenne il rimandato ingresso dell'imperatore in Siena. La decorazione della volta del Concistoro, le cui figure furono in gran parte ridipinte nel 1813 da F. Mazzuoli, si distingue per la sapiente resa illusionistica dello spazio e per le audaci prospettive che restano, sotto tale aspetto, uno degli esempi più validi di quel tempo. In un momento fra il 1533e il 1535 dovette avvenire il soggiorno, ricordato dal Vasari, del B. a Genova per affrescare due storie, oggi perdute, nel palazzo di Andrea Doria. Tale datazione, contraria a quella generalmente indicata dalla critica verso la fine dello stesso decennio, viene suffragata sia da una attenta lettura dei brani vasariani relativi ai vari maestri che operarono nel palazzo genovese, sia dalla assenza del nome del B. nei documenti senesi di quegli anni, sia infine dallaprovenienza genovese di due Madonne (Roma, coll. Doria-Pamphili; Firenze, Museo Horne) stilisticamente legate alle opere del maestro di quel momento.
Prendendo inizio con la pala di Cristo al Limbo della Pinacoteca di Siena (1535-36 circa) vediamo accentuarsi nel B. l'artificio formale e svilupparsi quegli elementi stilistici già presenti negli affreschi della sala del Concistoro, per cui la materia pittorica si fa più ferma e le figure ingigantite e chiuse nei contorni assumono rilievo sempre maggiore. Le opere eseguite per il duomo di Pisa (Adorazione del vitello d'oro, doc. 1537; Il castigo del fuoco celeste, doc. 1537-38; Quattro Evangelisti, doc. 1538-39), la Madonna e santi dell'Oratorio di S. Bernardino (doc. 1537), la Incoronazione della Vergine della chiesa di S. Spirito e i ridipinti affreschi rappresentanti due gruppi di Apostoli e angioli dell'abside del duomo di Siena (1539-40 circa) costituiscono i momenti più rappresentativi dell'indirizzo stilistico suddetto, analogo a quello che, determinato dalla crescente influenza di Michelangelo sulla contemporanea pittura fiorentina e romana, dette origine alla seconda fase della "maniera".
Va riconosciuto tuttavia che in queste opere di grandi dimensioni i tratti di incipiente accademia non infirmano la forza espressiva della luce e gli accesi accostamenti del colore. L'ammirata pala con la Nascita della Vergine della Pinacoteca di Siena, eseguita agli inizi del quinto decennio, sta a dimostrare, nella sapiente composizione ambientata in una stanza illuminata dall'alto con effetti di luce in certo senso anticipatori di future soluzioni, con quanta vitalità il B. riuscisse ad esprimere le inquiete immagini della sua fantasia. Tale libertà fantastica compiutamente espressa fino ad allora solo nei quadri di piccole dimensioni, nelle predelle, nei disegni e nelle incisioni, caratterizza tutte le ultime creazioni del pittore. Non decadenza, come spesso èstato suggerito, ma potente tentativo di sciogliere la compattezza dei volumi in vibrazioni di luce è l'aspetto che distingue l'estrema attività del maestro senese, come appare evidente in opere quali la Sacra Famiglia della National Gallery di Washington e, in particolare, gli otto Angeli reggicandelabro di bronzo nel duomo di Siena (doc. 1548-51) che, eseguiti interamente dal B., ne costituiscono l'ultima fatica.
Alla sua morte, avvenuta nel 1551, scompare anche l'ultimo degno rappresentante di una tradizione pittorica che per tre secoli aveva saputo esprimere con estrema coerenza di linguaggio e spesso con alti risultati il particolare spirito della città di Siena.
Il B. fu anche incisore di notevole levatura. La critica ha più volte fino ai giorni nostri inspiegabilmente negato la diretta esecuzione delle stampe da parte del senese nonostante l'esplicita asserzione del Vasari, testimonianza che l'amicizia tra i due artisti rende attendibile.
Fra le stampe del B. pervenuteci, la serie di dieci piccole xilografie, che anticipano sorprendentemente certe nervose soluzioni adottate dal Parmigianino, rappresentano con allegorie alchimistiche non troppo chiare la Ricerca e lo sfruttamento dei metalli (Passavant, VI, p. 151; una è firmata "Mecarinus de Senis inventor s[culpsit]"). Questa serie è con tutta probabilità la prima ad essere stata eseguita dall'artista. Essa sembra infatti potersi datare verso la prima metà del terzo decennio del secolo mostrando affinità di stile con opere di quel momento. A stimolare questo inizio di attività incisoria fu forse la conoscenza diretta di Ugo da Carpi durante il presunto viaggio a Roma del 1519. Ancora due stampe possono venire datate nel terzo decennio del secolo, rispettivamente in rapporto stilistico con il fregio di Mosè che fa scaturire l'acqua (1524) nel pavimento del duomo di Siena e con la pala della coll. Chigi-Saracini (1528); esse sono: l'incisione a bulino firmata "Micarino Fec(it)" con Due nudi in un paesaggio (Passavant, VI, p. 150), incisione che fu anche stampata con l'inclusione di un legno, creando il primo esempio di un uso frequente nel B., e il chiaroscuro a due legni rappresentante i Quattro Dottori della Chiesa (Bartsch, XII, IV, n. 35).
Le risentite muscolature di derivazione michelangiolesca, che formano una componente dello stile del B. a partire dal 1530circa, appaiono evidenti in due incisioni le quali, eseguite con tutta probabilità verso la metà del quarto decennio, mostrano l'uso abbinato del rame e del legno: l'Apostolo in una nicchia (Bartsch, XII, IV, n. 216)e le Tre figure virili stese in un paesaggio (Siena, Pinacoteca, n. 136). Si giunge così al gruppo più interessante di chiaroscuri che coincide verosimilmente con l'ultimo decennio dell'attività dell'artista e che comprende unicamente sette raffigurazioni di giganteschi vecchi drappeggiati, certo intesi per quella serie di apostoli, evangelisti o profeti che fu il tema dominante della sua vecchiaia (Bartsch, XII, IV, nn. 13, 14, 15, 18, 22, 23e XII, X, n. 12). Uno solo di questi chiaroscuri presenta ancora la già notata sovrapposizione del legno alla tavola di rame. In esso tuttavia si vede l'ossatura tracciata dal bulino farsi più leggera, fino a sparire quasi, nelle parti riservate alla luce, per lasciare il campo ai vigorosi solchi del legno. Va ricordato qui che l'uso di stampare carte con più legni, introdotto da Ugo da Carpi, fu sviluppato con estrema perizia dal B. e da Antonio da Trento. A differenza di quest'ultimo tuttavia, che riproduceva opere di altri artisti, il maestro senese si serve di questo procedimento come mezzo di espressione personalissimo atto in modo particolare a rendere gli ultimi sviluppi della propria disgregante concezione luministica.
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