BELLI, Domenico
Figlio di Pierino e di Giulia Damiani, dei signori di Priocca, nacque il 21sett. 1548; il luogo non è conosciuto, ma potrebbe essere Asti, dove, il padre si era recato nel 1533 dalla natìa Alba, e patrizio di Asti il B. è detto nell'epigrafe eretta sulla sua tomba nel duomo di quella città.
Della sua vita familiare non si posseggono molte notizie; esse per altro sono tali da mostrare i legami suoi con il padre e con i fratelli. Al padre, nel 1565, Emanuele Filiberto duca di Savoia concesse un donativo di quattromila scudi per il lavoro svolto fino allora presso gli Asburgo e poi presso di lui, ma quel denaro, per un reddito di duecento scudi ogni anno, doveva andare non solo a Pierino ma anche ai suoi figli Domenico e Francesco. Questi stessi furono lasciati da Pierino eredi delle sue non scarse sostanze. Francesco, nel suo testamento del 1585, lasciò erede Domenico. E pure Domenico fu nominato erede nel 1585 da un figlio naturale di Pierino, Giovanni Amedeo, provveduto dal padre di un canonicato ad Asti e che poi, morto, Domenico, lasciò tutto il proprio ad Angela figlia naturale di lui. Né simili notizie valgono solo per l'ambito familiare; infatti oltre all'efficacia della parentela fra coloro che abbiamo appena ricordato, v'erano comuni elementi di favore verso la parte spagnola in Italia e verso la Spagna di Filippo II, verso i duchi di Savoia. E dalla condizione e dalla grandissima esperienza politica del padre Domenico dovette ricavare buoni frutti, se già nel 1575 era vicario di Chieri, e se già con Emanuele Filiberto divenne consigliere, di Stato: cominciando a svolgere e via via continuando un'operosità politica e diplomatica, perfezionata inoltre, sposando nel '76 Barbara Cacherano d'Osasco, attraverso la parentela così acquisita con il gran cancelliere Ottaviano padre di lei e uomo fra i maggiori del governo di Emanuele Filiberto.
L'originaria fedeltà alla parte spagnola si andò definendo, nel B., entro una concezione politica meno ampia della paterna, entro un ambito più direttamente sensibile all'azione accentratrice del principe, e questo tanto più quanto più presero a svolgersi dopo Emanuele Filiberto gli anni di Carlo Emanuele I. Rimase tuttavia pur sempre viva nel B. la libera intelligenza dell'uomo formatosi alla scuola del padre, ad una scuola cioè di politiche personalità, non mai preyalenti esecutrici di ordini ma ancor sempre ricercanti la collaborazione col principe, non la dipendenza, la sudditanza moralmente oppressiva. Almeno sino ad oggi, non si è trovato cenno di una legale sudditanza del B. al duca di Savoia, o magari al marchese di Monferrato al quale apparteneva la città di origine del Belli, Alba, ma sia stato suddito del primo o del secondo, il suo servizio fu sempre quello di un libero ed esperto operatore per l'azione di un governo.
Al vicariato di Chieri e al ruolo di consigliere di Emanuele Filiberto seguì per il B. il compito di consigliere di Carlo Emanuele I, alimentato da numerose ambascerie a Venezia dal 1579 al 1582 e poi in Spagna e a Roma dal 1587 al 1601 e da altri e importanti negozi e cui succedette infine, sino all'ottobre 1601, il gran cancellierato: quelli furono gli anni delle maggiori insistenze della politica sabauda verso Ginevra, verso il marchesato di Saluzzo sottratto ai Francesi nel 1588 ma rimasto precario bene fino al trattato di Lione del 1601, verso il Delfinato e la Provenza, ambiti per lunghi anni speculando sulle difficoltà eccezionali della vita politica francese nei decenni del maggior contrasto ispano-francese e franco-papale e dei sempre nuovi attriti ispano-papali.
La conoscenza della fisionomia politica e diplomatica del B. richiede particolarmente l'osservazione dell'opera ducale e di quella di altri consiglieri come il Provana signore di Leynì, e non solo l'osservazione dei suoi caratteri; è completa, per altro, solo quando si avverta che anche il B. non mancò di influire sul principe e che agì in correlazione con altri consiglieri. Carlo Emanuele I si mosse sempre con varie gravi difficoltà politiche, finanziarie e militari in un'Europa dominata da forze ben maggiori della sua, e in particolare, nella massima parte del tempo in cui ebbe l'aiuto del B., egli dovette fare i conti tutt'altro che facili con i temporeggiamenti, i dilazionamenti, gli aiuti pro-messi e non dati, dati e poi tolti, di Filippo II e dei governatori di Milano che realizzavano nell'Italia del nord i disegni del re. Il B. incontrò frequentemente le medesime difficoltà dei suoi predecessori in Spagna, quali il Pallavicino, mar chese di Ceva, o degli altri che si alternarono con lui dopo il 1587, quali il signore di Leynì e il conte della Motta; come loro dovette spendere infinite energie e lunghi mesi ogni volta presso i maggiori ministri di Filippo II e presso il re per riuscire, quasi sempre, a ben poco di ciò che egli stesso e gli altri consiglieri ducali di parte spagnola, e Carlo Emanuele I, avrebbero voluto.
Già nella sua prima ambasceria in Spagna, corninciarono le sue esperienze in tal senso. Giunto a Madrid l'11 maggio 1587, non diversamente da quel che il Pallavicino aveva avvertito l'anno precedente anch'egli dovette constatare che sul governo spagnolo urgevano compiti assai pesanti, contrastanti, e che per essi i propositi espansionistici di Carlo Emanuele I non potevano essere che secondari; proprio in quel tempo riusciva alla diplomazia spagnola di proteggere meglio il possesso milanese rafforzando l'accordo con i Cantoni svizzeri cattolici, togliendo così in buona misura al re francese l'aiuto militare che gli veniva di là e indebolendo ancora la condizione ginevrina che Enrico III intendeva pur sempre sostenere; ma nei Paesi Bassi la lotta antispagnola ferveva più che mai, le imprese marinare del Drake e l'esecuzione di Maria Stuart rinverdivano ulteriormente la minaccia contro la vita medesima dello Stato spagnolo; e questo perciò non aveva campo davvero per prestare, orecchio benevolo - uomini, armi, denaro - al duca sabaudo, fosse egli, pure genero del re, né al B. suo ambasciatore; gli orientamenti anti-francesi cattolici controriformistici di Carlo Emanuele I, del B., degli altri come lui nella corte piemontese dello Stato sabaudo, non bastavano.
Le prime settimane, fra il maggio e il giugno, i ripetuti incontri con l'Idiaquez segretario e con Cristobal de Mora consigliere di Stato, un incontro con lo stesso Filippo II, ebbero solo risultati negativi. Ma il B. insisté, Carlo Emanuele I riteneva propizio il momento per assalire i Ginevrini ed occupare la città così importante per le fortune politiche ed economiche del suo Stato, la città èhe si era sottratta ad ogni influenza sabauda fin dal 1526. "Per niun modo non deve Vostra Altezza star lungamente suspesa", osservò l'ambasciatore al duca il 10 giugno (Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Lettere ministri, Spagna, mazzo 4). E del tutto vano il suo lavoro non riuscì, perché infine il re si indusse ad assicurare che avrebbe dato a Carlo Emanuele I gli aiuti già promessi, e non dati, nel 1586.Ma quegli aiuti avrebbe procurato solo nel novembre, prima gli era impossibile. Ed alle soglie dell'inverno, il B. e tutti a Torino sapevano benissimo, non era certo conveniente mettersi nell'impresa ginevrina. Il B. avvertì chiaramente il veleno dell'argomento spagnolo, e come Filippo II e i suoi consiglieri temessero anche allora nell'avventuroso duca sabaudo un uomo, che del loro appoggio avrebbe cercato di servirsi per disegni più vasti della sola occupazione di Ginevra. "... Sia perché in effetto Sua Maestà si trovi talmente occupata in altro che non voglia impegnarsi in tante parti in uno istesso tempo, o sia per il dubio grande che ha, il quale difficilmente si può levare se bene non lo dicono apertamente, che Vostra Altezza in somma non pensi al tratto se non poiché gli servi di occasione di venire alle arme con pensieri forsi più lontani - cosa al mio parere che in alcun modo non la vogliono intendere -; basta che non vedo come si possi sperare di guadagnare più oltre con Sua Maestà, et per mio credere più move questa seconda causa che la prima..." (a Carlo Emanuele I, da Madrid, 3luglio 1587, ibid.).Non rimanendogli perciò a quel punto altro da fare il B., verso la fine del luglio, ritornò a Torino. Non l'avrebbe più lasciato la convinzione che nella difficile e complessa politica spagnola v'erano ragioni precise per porre ostacoli alla intraprendenza di Carlo Emanuele I; né egli ignorava che anche a Roma Sisto V, nel 1587, pensava con Filippo innanzitutto ai Paesi Bassi e a combattere gli Inglesi, e concordava con il re spagnolo nei confronti del duca sabaudo; simili interessi durarono anche dopo il fallimento dell'attacco all'Inghilterra. Proprio le lunghe fatiche diplomatiche - e non solo quelle in Spagna - documentarono largamente il B. sulla valutazione, che doveva farsi, dell'effettivo rapporto in cui il suo principe e l'intero Stato sabaudo erano tenuti dagli interessi della monarchia spagnola.
In particolare alimentò quella documentazione la serie di sforzi che il B. compì dal 1589 per ottenere il consenso e l'appoggio militare spagnolo non più solo per Ginevra ma anche perché riuscissero i tentativi sabaudi di penetrare nel Delfinato e nella Provenza. Ma anche in seguito, la constatazione della renitenza spagnola a sostenere Carlo Emanuele I dovette ricorrere, nel B., di continuo; anche nei momenti in cui sembrava migliore la disposizione spagnola il B. doveva però avvertire "sempre ci fanno la gionta di queste benedete necessità et molti affari in che Sua Maestà si trova, il che mi fa dubbitare di manco bona deliberatione di quello che liaveressimo bisogno..." (a Carlo Emanuele, I, da Madrid, 14 marzo 1593: ibid., mazzo 6). E insomma, solo vedendo sempre l'opera del B. nelle generali difficoltà di uno Stato minore, com'era il sabaudo, si valutano realmente i caratteri di tale opera, e si apprezzano le notevoli qualità di chi la svolse in così impari gioco.
Successi diversi il B. ebbe solo quando, nel 1593 e più nel 1598 a Roma, trattò con quel grande ricercatore di pace in Europa che era Clemente VIII; ma allora a volte anche il duca sabaudo, e più normalmente i Piemontesi che maggiormente l'avevano sostenuto nelle sue lotte antiginevrine e anti-francesi, declinando il secolo e le fortune spagnole e risollevandosi dicontro le francesi intorno a Enrico IV, andavano inclinando sempre più verso la ricerca della pace. E poiché già quando più cercava l'aiuto spagnolo il B. era stato aperto fautore dell'azione sabauda sul marchesato di Saluzzo - altrettanto importava al governo di Spagna che al sabaudo il "chiudersi il passo del tutto a Francesi di turbare la Italia" (il B. a Carlo Emanuele I, novembre 1588, ibid., mazzo 4) -, l'orientamento di pace gli permise di trattar per Saluzzo anche al di fuori della relazione con Spagna, trovandosi così, in questo, vicino agli uomini della parte politica savoiarda anti-spagnoli convinti. E perciò egli poté essere presente a Parigi tra il 1599 e il 1600 con Carlo Emanuele I e con il Lucinge, il Roncas, lo Chabod, il Génève-Lullin, nei mesi in cui da parte sabauda si fece l'ultimo sforzo per conservare pacificamente il marchesato.
Vero è che già in precedenza egli dubitava che ciò fosse possibile, e aveva ritenuto preferibile non si facesse quel viaggio (v. la sua lettera a Carlo Emanuele I, da Asti, 14 apr. 1599, in Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Lettere di particolari, B., mazzo 37); e che poi, fallito quello sforzo sabaudo, insieme, per le assai alte richieste francesi e per la costante duperie del duca, questi inviò il B. a Madrid perché gli procurasse le armi spagnole e gli rendesse dunque possibile tenere il marchesato, occorrendo, con la forza; e che il B. da Madrid chiaramente ebbe a dire al suo principe della "mala intentione del re di Francia et dei disegni suoi". Ma è anche vero che lo stesso B. insistette ugualmente, presso Carlo Emanuele I, perché non si fidasse degli Spagnoli disposti da sempre a promettere ma non poi a fare, e ricordò esser meglio non lasciar cadere ogni trattativa con Enrico IV, rinunciare a qualche terra in cambio del marchesato e "godere il restante in bona pace" attraverso i buoni uffici di Clemente VIII (26 apr. 1600, in Manfroni, doc. n. 14). "Una honorata e sicura pace, essendo trattata col mezzo et auttorità del papa" era insomma divenuta sempre più per lui la meta da perseguire (a Carlo Emanuele I, da Torino, 13 dic. 1600, in Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Lettere di particolari, B., mazzo 37); egli va dunque considerato per la sua parte in una storia del trattato di Lione, quando finalmente il congiunto lavoro del cardinale Aldobrandini, nipote del papa, e del Lucinge e dell'Arconato, plenipotenziari sabaudi, condusse alla pace Carlo Emanuele I e il re di Francia: il duca tenne Saluzzo ed Enrico IV ebbe la Bresse, il Bugey, il Valromey, Gex. In un innegabile svolgimento del suo orientamento politico il B., fedele servitore di Carlo Emanuele I, andò, per altro, via via ponendosi fra quanti cercavano di contenere, più che sostenere, la sempre, molto dinamica azione ducale, di contenerla entro termini che anche la parte politica piemontese allora preferiva e che già da gran tempo, e sia pure con qualche diversa incidenza, erano ricercati dagli uomini della parte politica savoiarda.
La conoscenza larga ed esperta che il B. ebbe di uomini e di cose gli veniva, oltre che dall'opera sua medesima di politico e di diplomatico, anche dal suo essere ben radicato in un mondo sociale che era già stato del padre: a questo egli succedette nel possesso di Grinzane e della contea di Bonvicino; la sua unica figlia, Giulia, sposò Amedeo Dalpozzo conte di Ponderano e di Reano. Per tutto ciò, quando egli giunse al cancellierato, culminarono in quella funzione tutte le maggiori fortune della sua famiglia lungo il XVI secolo. La morte, prematura, lo colpì nell'ottobre 1601.
Con le testimonianze della sua vita sarebbero rimaste le testimonianze dell'amicizia per lui di uomini quali il giureconsulto savoiardo Antoine Favre, che gli dedicò il XVII e il XVIII dei suoi venti libri Coniecturarum iuris civilis (Coloniae Allobrogum 1630, p. 673), o quali Francesco Panigarola vescovo di Asti (v. in Lettere di monsignor Panigarola vescovo d'Asti, a cura di A. Panigarola, Milano 1629, pp. 164 [1592] e 278 [1594]), e di altri ancora, a significare anch'esse i caratteri di un'esistenza omogenea di interessi morali e politici, molto impegnata e tuttavia sempre libera.
Bibl.: Manca uno studio organico sul Belli. Le maggiori notizie su di lui si ricavano dai seguenti: G. Vernazza di Freney, Vita di Pietrino Belli di Alba signore di Grinzane, e di Bonvicino, consiglier di Stato di Emanuel Filiberto, Torino 1783, pp. 7 s., 45 s.; G. Galli Della Loggia, Cariche del Piemonte..., Torino 1798, I, pp. 52-54; F. Rondolino, Pietrino Bello. Sua vita e suoi scritti. Nuove ricerche, in Miscell. di st. ital., XXVIII (1890), pp. 548, 560, 563-564; C. Manfroni, Carlo Emanuele I e il trattato di Lione..., in Carlo Emanuele I duca di Savoia, Torino 1891, pp. 101 s., 106, e docc. nn. 14 e 18 k e m; I. Raulich, Storia di Carlo Emanuele I duca di Savoia con documenti degli archivi italiani e stranieri, I - II, Milano 1896-1902, passim; A.Manno, Il patriziato subalpino, II, Firenze 1906, p. 229; G. Chialvo, Nuove ricerche intorno a Pierino Belli, in Boll. storico-bibl. subalpino, XII(1907), pp. 297, 313 ss.; R. Bergadani, Carlo Emanuele I (1562-1630), Torino 1932, p. 74; L. Cramer, La Seigneurie de Genève et la Maison de Savoie de 1559 à 1593, III, Genève 1950, pp. 48, 105-114; H. Grandjean-P.-F. Geisendorf-B. Gagnebin e altri, L'escalade de Genève, 1602. Histoire et tradition, Genève 1952, pp. 39, 56 s., 203 e Index; A.Dufour, La guerre de 1589-1593, Genève 1958, pp. 17, 104, 226; A.Pascal, Il marchesato di Saluzzo e la riforma protestante durante il periodo della dominazione francese, 1548-1588, Firenze 1960, pp. 439, 500, 509, 510, 514, 554. Pure utile, sebbene con alcuni errori, C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, II, Torino 1881, p. 199.