CAMPAGNOLA, Domenico
Nacque nell'anno 1500, figlio "magistri Joannis theutonici cerdonis", come si deduce con tutta sicurezza da un più tardo, fondamentale documento che ci consegna anche gli estremi cronologici della sua morte (Colpi, p. 107). Controverso è, invece, dove il C. venisse al mondo, sebbene il predicato di "veneziano" o "da Venezia", che ne accompagna il nome presso alcune fonti e in qualche carta d'archivio, induce a fissarne il luogo di nascita nella capitale veneta. Si può, anzi, ritenere attendibile l'identificazione del personaggio con quel "Domenico Veneziano" che, secondo un testimone dell'autorità di Marcantonio Michiel, sarebbe stato "allevato da Iulio Campagnola" presente ed attivo, all'avvio del sec. XVI, tra le Lagune: nella prospettiva dell'adozione da parte di un esponente raffinato della cultura artistica veneta contemporanea, è consentito spiegare in termini convincenti la prima educazione del C., figlio di modesto artigiano, che esordisce, con sortita altrettanto precoce quanto coltivatissima, pubblicando e datando, in Venezia, tra 1517 e 1518, un gruppo di incisioni definito dallo Hind in tredici numeri sicuri e sei possibili; lo Châtelet vi ha aggiunto ultimamente due nuove prove (una incisione era recentemente sul mercato: The Burlington Magaz., CIX [1967], suppl., tav. 45).L'esame stilistico dei testi conforta l'ipotesi di un legame stretto con Giulio Campagnola ma dichiara, parimenti, l'incidenza dei forti influssi di Tiziano, del quale è pertanto ammissibile che l'adolescente Domenico abbia frequentato lo studio a condizioni privilegiate, sino a trovar accesso ai materiali grafici elaborati e custoditi dal maestro (non è, del resto, da escludere che si possa riconoscere in Domenico il "gargion" di Giulio, rammentato dal Michiel per una collaborazione a una miniatura con l'immagine di Cristo morto). Tuttavia, il C. già rivela un'autonoma capacità di muoversi entro un raggio d'informazioni anche più vasto, rivolgendo il proprio interesse, com'è stato ben osservato (Grossato), ai temi raffaelleschi proposti dai noti cartoni destinati a Bruxelles e certo già eseguiti entro il dicembre del 1516: è possibile che se ne possa riconoscere il mediatore in Agostino Veneziano.
Ignoriamo quando e per quali ragioni il C. si sia trovato a Padova: e possiamo solo constatare che, di sicuro, già nel 1528 si trovava nella città, dove trascorse, a eccezione di poche e brevi assenze, il resto della propria vita. Il Diario di Zuan Antonio da Corte, infatti, attesta che costui aveva commesso a un "maystro Domenego depentore del Domo" - ch'è senza dubbio il C. - l'esecuzione di una "palla" da esporre sopra il proprio sepolcro, e che il relativo "modello" risulta consegnato sin dal 19 genn. 1528; tuttavia, poi, quasi due anni appresso, il 13 sett. 1529, "quello tristo de maistro Domengo depentore" era ancora ben lungi dalla conclusione del lavoro, il cui destino è sconosciuto. Merita pure prender atto subito di un'ulteriore informazione del da Corte, il quale avverte che il "depentore" in questione "xe compare de maistro Guido Lizzaro", padre dello scultore Tiziano Minio e di quella Giulia che, in un atto del 17 nov. 1538, troveremo alla vigilia di contrarre matrimonio col pittore Gualtieri Dall'Arzere (Arch. di Stato di Padova, Notarile, Lauro Ivan, reg. 1265, p. 353) associato in comuni imprese di lavoro e almeno a partire dal 1536-1537 al Campagnola. E convien qui precisare, alla luce delle considerazioni esposte, che il rapporto di "consanguineità" tra il C. e Gualtieri affermato dallo Scardeone nel 1560, ancor vivendo il primo, e dagli storiografi successivi per lo più non considerato o mai inteso, può spiegarsi, in maniera ragionevole, ancorché nei termini di forzatura di una situazione oggettiva. Non è da escludere, dunque, che l'approdo del C. a Padova sia di parecchio precedente all'anno che lo vede così profondamente inserito, se dobbiam ritenere corretta l'ipotesi (Moschetti) di contemporaneità d'esecuzione tra una Resurrezione già nella distrutta chiesa di S. Agostino (poi nell'Accademia di Vienna; ora non reperibile) e accreditata a lui da una fonte del 1586 (in Moschetti), e l'altare che la sosteneva, datato 1526. Di recente, del resto, con ragionamento persuasivo (Colpi), son stati decisamente rivendicati al C. gli affreschi con i Due putti reggenti lo stemma di Padova nel palazzo della Ragione e l'Incontro di Gioacchino ed Anna nella scuola del Carmine; la proposta datazione intorno al 1520, in assenza di referenze archivistiche, regge all'esame del dato di stile: troviamo qui infatti la particolare versione del tizianismo dichiarata dalle incisioni, quantunque con qualche sorprendente residuo giorgionesco nel paesaggio; e d'altra parte una certa accentuazione enfatica dei costrutti par registrare i presentimenti di un'attenzione a fatti squisitamente locali e, in ispecie, a Girolamo Del Santo. In quel 1528, che vedeva la commissione del da Corte, si situa il fregio (oggi illeggibile) dipinto sulla facciata della cosiddetta "casa dello speziale" e nello stesso anno il C. affrontava l'esecuzione delle macchine ad affresco rappresentanti il Trionfo della Croce e della Fede su una facciata del tramezzo della chiesa di S. Maria in Vanzo: a dispetto di qualche sofferenza patita dalla pittura in occasione del trasporto e della collocazione sulla facciata interna del tempio (1942), il discorso figurativo impostato nella scuola del Carmine trova accrescimenti e sigilla una dimensione formale inconfondibile caratterizzata da un'aspirazione alla grandiosità dilatata degli impianti e da chiavi aspre di segno e colore. Il tizianismo iniziale si prova scontato da un intento magniloquente che sembra teso a perseguire e ad assumere nuovi nutrimenti; lo dimostrano i brani pervenutici del soffitto in legno della scuola di S. Maria del Parto, conservati in parte nelle gallerie dell'Accademia di Venezia (tavole con Profeti e altri frammenti) e in parte nella chiesa di S. Maria in Pieve a CastelfrancoVeneto (due pannelli con Madonna e il Bambino e un Santo. Per tutte le vicende del soffitto e una descrizione particolareggiata dei pannelli rimasti, cfr. Moschini Marconi, 1962, II, pp. 101-103). Tali brani infatti preludono, alla scadenza del 1531, al di là di una persistenza di attenzioni a Girolamo del Santo, eventualmente rafforzata dal completamento (forse del 1530) del Miracolo della mula nella scuola antoniana di cui il C. sarebbe stato officiato (Grossato), ad una apertura al Pordenone. Infatti il C., durante un breve ritorno a Venezia nel 1532, collaborò con il maestro friulano alla decorazione del lato sud-est del chiostro di S. Stefano. L'esperienza compiuta lascia un segno profondo nel vocabolario e nella sintassi del pittore e - illeggibile l'affresco per il Monte di Pietà di Padova, documentato al 1534, ampiamente restaurato nel sec. XVII - ha risonanza nelle "conversazioni", accolte dalla maggior parte degli studiosi: S. Famiglia con il Battista della Pinacoteca com. di Bologna e Madonna con i ss. Giorgio e Caterina d'Alessandria della coll. Johnson di Filadelfia, che rappresentano forse le prime cose a noi giunte della scarsa attività del C. in quanto pittore da cavalletto, e potrebbero collocarsi intorno al 1533-1535. Vi si riconoscono, in effetti, accanto a forti stimoli pordenoneschi, evidenti nel trattamento della materia e nel costruir le figure, i segni dell'aggiornamento ad un Tiziano più maturo di quello assunto agli esordi, sovrattutto nella ricerca dei tagli compositivi: alle pale d'Ancona e dei Frari, per esempio. Del resto, nel 1533, "Domenego deto frezelin depentore" - il C. cioè gratificato qui di appellativo che richiama il nome della moglie Margherita figlia del "quondam ser Ioannis Frigerini Furnarij de Monacho" (Colpi, p. 107), aveva ricevuto l'incarico di "conzar et refare quele depenture ala pala in Capitolo de sora", nella scuola del Santo: e si tratta dell'affresco con i SS. Antonio e Francesco, un angelo e putti, dispiegato intorno alla nicchia della Madonna policroma del Briosco, che prelude al Miracolo dell'annegata eseguito nella stessa scuola, con un piglio che manifesta in pienezza i nuovi arricchimenti e l'aggiornamento, probabilmente intorno al 1537: il 9 agosto del 1536, proprio Tiziano faceva una breve apparizione nell'oratorio di S. Rocco, dove gli studiosi tendono a riconoscere che, nel corso della campagna decorativa avviata per l'appunto nel 1536, il C. abbia avuto parte rilevante, sebbene le note dei pagamenti registrino soltanto il nome di Gualtieri. È probabile, in realtà, che questi sia stato, oltre che parziale esecutore, l'appaltatore dell'intera impresa pittorica ed abbia, in quanto tale, assunto la gestione economica di un'équipe in cui protagonista indiscusso, per le evidenze inconfondibili dei riquadri con il Voto dei genitori di Rocco, la Morte del padre di Rocco, la Distribuzione del beni da parte di Rocco, deve ben essere stato il C.: il quale iniziò in questa occasione il sodalizio artistico con Gualtieri ch'era in procinto di imparentarsi con la famiglia del "compare" Guido Lizzaro, frattanto defunto. Constatiamo il conseguimento, in tali prove, di un apice espressivo e formale, sollecitato da apporti d'informazione d'origine bresciana, soprattutto del Romanino e del Moretto; ciò trova corrispondenza presso il C. nell'immagine dei Santi protettori di Padova affrescata nel 1537 sulla parete meridionale della confraternita del Redentore presso S. Croce e nella pala, del medesimo anno, con la Madonna e i patroni di Padova, eseguita per la sala del Consiglio (ora nel Museo civico) in concorrenza col Fiumicelli ed accettata in capo a un "giudizio artistico" che ribadisce un consolidato prestigio. Non è dubbio che, nella committenza pubblica e privata, il C. godesse largo favore, destinato ad inserirlo nei maggiori circoli locali di cultura, accrescendo lo spessore di implicazioni letterarie e intellettualistiche già costituito dalla frequentazione, nell'adolescenza, di un personaggio dello stampo del padre adottivo Giulio Campagnola. Insieme con l'intensificarsi della temperatura linguistica e stilistica notiamo un notevole complicarsi della tematica iconografica: già il fregio dei Putti di palazzo Dondi dell'Orologio, situabile a mezzo del quarto decennio, dipana trame di dotta e ardua significazione simbolica che si ripropongono poco appresso, in chiave celebrativa della civica dignità, nel ciclo decorativo della sala dei Giganti. A quest'opera il C. dovette esser chiamato poco avanti il 1540, come è tramandato da esplicite iscrizioni: il 16 settembre dell'anno precedente (Colpi, p. 108), avendo come testimonio lo scultore Agostino Zoppo, aveva rilasciato una procura per la riscossione di competenze dovutegli in seguito all'esecuzione di una pala, la cui sorte ignoriamo, e valida per la cura dei propri interessi in un ambito vasto; dal documento risulta che aveva lasciato la contrada "del Domo" e abitava allora in quella di S. Fermo, donde non si spostò sino al 1552 almeno, come apprendiamo pur sempre per via indiretta giacché, sorprendentemente, gli "estimi" della città non ne rilevano mai il nome (Arch. di Stato di Padova, Civico antico, Estimo 1518: in particolare, Polizze città, b. 63; Polizze città 1548, reg. 337; Fia 1548, reg. 375).
La sequenza d'affreschi della sala dei Giganti - rappresentanti protagonisti della romanità, idealmente collegati alla coscienza di una Patavinitas antenorea e liviana, entro riquadri e nicchie separati da una finzione di colonne e scene monocrome relative all'universo antico a piè delle figure - distribuisce, in effetti, un discorso unitario nell'ordine dei significati e, per quel ch'è consentito leggere in una condizione fisica compromessa da restauri subiti nel 1612 e nel 1664, sul piano della forma. Sappiamo che inventore e organizzatore dei concetti e dei simboli fu l'umanista Alessandro Maggi di Bassano, mentre le iscrizioni furono dettate da Giovanni Cavazza e trascritte da Francesco Poviciano: autore dei cartoni, quanto meno, fu senza dubbio il C. cui la tradizione unanimemente riferisce la responsabilità pure dell'intera esecuzione, mentre gli studi più recenti (Fiocco; Grossato) tendono peraltro ad assegnare all'équipe formata da Gualtieri con il fratello Stefano dell'Arzere e con il C; al diretto intervento di questo si preferisce in ogni modo assegnare la serie delle figure entro le nicchie con i sottostanti chiaroscuri dove la consolidata esperienza bresciana sembra arricchirsi con suggestioni raccolte da Giuseppe Salviati appena approdato a Padova.
La stessa équipe, di lì a poco, troviamo del resto nella residenza nuova di uno dei più eminenti personaggi della Padova "culta", Marco Mantova Benavides: siamo verso il 1541 (Arch. di Stato di Padova, Civico Antico,Estimo 1518, b. 167, nn. 48 e 52). Nonostante che appaltatore dell'impresa - celebrativa della dignità dotta dei Mantova - sembri essere stato, una volta ancora, Gualtieri, il ruolo importante del C. (perdute le opere) emerge dalla diretta testimonianza del committente e dall'informazione del Michiel che rammenta, in casa Mantova, "li paesi in tela grandi a guazzo e gli altri in fogli a penna ... de man de Domenego Campagnola": laddove viene, al contempo, attestato un impegno grafico che s'esaurisce in sé stesso e qualifica una specifica scelta professionale destinata a riprendere la giovanile attività incisoria in quanto confezione di un genere prevalentemente paesistico. La dovizia di disegni del C. a noi giunti attende uno studio attento da tale punto di vista, che dovrebbe consentire l'identificazione di una bottega specializzata e di notevoli collegamenti: sempre il Michiel ricorda la disponibilità, presso il C., di "carte di Raffaello" allorché attribuisce al maestro "teste dipinte nel soffittado delle camere e... quadri in la lettiera" nella casa di Alvise Cornaro. Ciò che offre riprova, a dispetto della perdita anche di queste opere, dei solidi legami delC. con le élites intellettuali padovane e conferma una fortuna clamorosa durante il quinto decennio; del resto un'anonima autorevole fonte del 1584 (Procacci) esalta la dominante presenza, negli anni 1546-1549, di "Domenico Campagnola, perito in nelle figure, ma tale in nel disegno, di penna spetialmente, che a pochi si poteva comparare". Si tratta, di fatto, di un torno di tempo di fertile e prestigiosa attività, sostenuta dall'illuminazione delle declinazioni manieristiche salviatesche che guideranno le tappe della restante avventura artistica del C.: e sono il ritorno in S. Rocco nel 1544 ad eseguirvi il fregio; la decorazione, iconologo nuovamente il Maggi, intorno al monumento a Livio nel salone, del 1547; la Madonna con i santi protettori di Padova per la loggia del Consiglio (ora nel Museo civico), dello stesso momento. Il 30 dic. 1549 il C. è chiamato a giudicare una pittura di Stefano dell'Arzere per la fraglia dei SS. Giacomo e Cristoforo, mentre, il 5 maggio 1552 (Colpi, pp. 109 s.), otterrà dal priore Paolo Veneto l'incarico di realizzare gli sportelli dell'organo di S. Giovanni di Verdara: che - conservati attualmente presso il palazzo Selvatico - ribadiscono l'irreversibile perentorietà della scelta manierista. Secondo documenti citati dalla Colpi (p. 94, ma non rintracciabili ai luoghi citati dalla studiosa), l'8 e il 9 genn. 1551 il C. - passato, frattanto, ad abitare in Borgo Nuovo - sarebbe intervenuto a un compromesso stipulato dal noto giureconsulto vicentino Francesco Garzadori: la notizia darebbe sostanza concreta alle relazioni del pittore con i milieux di committenza vicentini indicate dalla paternità, già suggerita dal Boschini (1676), di un'Adorazione dei pastori ad affresco conservata nel portico della casa Conte (animata dall'ispirazione del decennio 1530-1540, cui il Muraro ha voluto riferirla), e dalla provenienza dalla chiesa di S. Lucia in Vicenza, rinnovata a partire dal 1520, di una paletta, oggi dispersa, alla collezione dei Gualdo di Pusterla (1650).
D'altro canto, risulta significativo il rapporto d'amicizia tra il C. e Giambattista Maganza che non solo canta piacevoli incontri ma esalta "quel C. che par fare / paese el n'ha un so pare", ribadendo l'evidenza di un esercizio grafico improntato da una scelta di "genere". Gli ultimi tre lustri della vita del C. sono caratterizzati da una "sintesi largamente manieristica" (Grossato) delle esperienze compiute: se è lecito nutrir dubbi su un intervento nell'abside di S. Maria in Praglia che sarebbe avvenuto intorno al 1550, i SS.Mauro, Antonio, Gerolamo e Daniele nell'ex chiesetta dei Notai (ora sala in municipio) e la Madonna tra i SS. Andrea e Antonio, ivi, documentati al 1551, confermano una stasi sulle posizioni linguistiche e stilistiche raggiunte, che manifesta una involuzione destinata ad estraniare il maestro dalle scelte aggiornate della contemporanea pittura. Lo svuotamento, e lo svigoramento del discorso, che la risorsa di un mestiere sapiente non riesce a celare, son patenti in un percorso, ch'è declino, e tragitta dagli affreschi per l'oratorio di S. Bovo (1550-forse 1555) allo Zodiaco nel salone (1556), al quadrone celebrativo del rettore veneziano Marino Cavalli (1562: già nel palazzo del Podestà; ora nella chiesa di S. Giustina). Una incisione datata 1559 (Châtelet) - che resta, tuttavia, un unicum tardo - sembra confermare, anche nella produzione grafica, la situazione di stallo. Tra ottobre e novembre 1564. i canonici della cattedrale padovana (tra questi, lo Scardeone) impegnano il C., pittore "excellentem" a realizzare due quadri da porre sulla parete della sacrestia ai lati dell'armadio delle reliquie (doc. in Colpi, pp. 85 s.). Ma siamo alla scadenza della vita del maestro. Il C. si spegneva, in Padova, il 10 dic. 1564 (Colpi, p. 83).
Fonti e Bibl.: Carte d'archivio, rintracciate sempre dalla Colpi (p. 94), attestano due figli di Domenico, Giulio - che rinnova il nome del padre adottivo del C. - e Cornelio, il cui nome merita d'esser particolarmente rammentato. Sappiamo, infatti, che egli sin dal 1561è documentato come pittore in quanto sindaco della fraglia dell'arte e che, sempre come pittore sarà ricordato nel 1565e nel 1568 quando ricopre la carica di massaro della corporazione. Ultima notizia che lo riguardi risale al 1573(Rigoni). Padova, Bibl. del Museo civico, ms. BP 3159:Z. A. da Corte, Diario (1509-1529), cc. 236v, 288v;Ibid., ms. BP 116:G. Gennari, Memorie degli scrittori padovani e della storia di Padova, c. 233; Padova, Bibl. del Seminario, cod. C DCXIX, 6: M. Mantova Benavides, Epistolario, c. 95; [M. A. Michiel], Notizia d'opere di disegno... pubblicata e illustrata da D. Jacopo Morelli, a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, pp. 23, 69; B. 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