CARAVITA, Domenico
Figlio di Nicolò, famoso giureconsulto napoletano e di Giulia di Capua, nacque presumibilmente intorno all'anno 1670, a giudicare dall'età che gli era attribuita al momento della sua morte. Si formò in un ambiente culturale - qual'era quello che frequentava, alla fine del '600, la casa paterna nel quartiere dei Vergini a Napoli - impregnato delle dottrine razionaliste e anticurialiste. Sul piano più specificamente giuridico la sua formazione risentì della grande influenza esercitata a Napoli nella seconda metà del XVII secolo da Francesco D'Andrea. Di ciò si può considerare una testimonianza la dedica al C. della riedizione napoletana del libro di A. Duck, De usu et authoritate iuris civilis Romanorum in dominiis principum christianorum (Neapoli 1719), libro che proprio ad opera del D'Andrea aveva, a suo tempo, avuto a Napoli notevole diffusione. Come il padre il C. seguì la carriera forense e della magistratura. Durante la sua lunga attività ebbe modo di formare una folta schiera di allievi, dalla quale emersero alcune personalità di rilievo dell'avvocatura napoletana settecentesca come Carlo Tufo e Andrea Vignes.
Assieme al padre il C. fu protettore di G. B. Vico. Ma, nonostante tale influente amicizia, quest'ultimo non riuscì a vincere il concorso alla cattedra universitaria di diritto civile, al quale si era presentato nel 1723. Data la propensione dimostrata da gran parte della commissione giudicatrice per un candidato favorito dal viceré d'Althan, il C. consigliò al Vico di ritirarsi dal concorso.
Per essere stato uno dei curatori degli interessi che la duchessa di Parma aveva nel Regno di Napoli il C. ebbe difficoltà con il governo austriaco, elemento questo, peraltro non unico, che, all'avvento di Carlo di Borbone, avrebbe giocato in suo favore. La commissione incaricata dal nuovo re di riferire sulle maggiori personalità del ceto forense e di quello burocratico riteneva, infatti, il C., oltre che il più importante avvocato napoletano, uomo dotto, di gran mente e amato da tutti gli ordini di persone" (Biogr. de'magistr., f. 111). La fedeltà dimostrata dalla famiglia alla Corona spagnola - il padre del C. era stato destituito dagli Austriaci dai suoi incarichi pubblici - appariva alla commissione come ulteriore garanzia per cui il C., già segnalato tra i "capaci di somma stima per ottenere cariche del Ministero" (ibid., f. 92), potesse essere nominato o luogotenente della Camera della Sommaria o consigliere e presidente della stessa istituzione. Fu, quindi, preposto a quest'ultima carica e ne ebbe notizia prima ancora che fosse reso noto a Napoli l'organico dei nuovi tribunali.
Entrò anche a far parte di vari organismi statali. Innanzitutto del neoistituito Consiglio di Stato, dove fungeva, assieme all'Ulloa, al Borgia e al Mauri, da esponente del ceto dei togati. Non gli furono assegnate specifiche mansioni ma fu, a lungo, tra i consiglieri più ascoltati del governo su alcuni problemi, come quello dell'attribuzione di cariche della magistratura ad alcune personalità. Al C., ad esempio, fu affidato l'incarico di compiere accertamenti su Francesco Ventura e Costantino Grimaldi. Nella sua qualità di consigliere di Stato egli espresse al re nel 1734 un parere sull'amministrazione della regia dogana di Foggia. Mentre altri magistrati proponevano di affidare la dogana a due amministratori, secondo il parere del C. sarebbe stato di maggior vantaggio per il patrimonio regio e per i consegnatari che la dogana fosse amministrata "da una sola mente, ma illustre e superiore" (Arch. di Stato di Napoli, Casa Reale Antica, fascio 732). Gli premeva soprattutto l'abolizione di frodi e abusi che da lungo tempo compromettevano il retto funzionamento dell'istituto. Perciò suggeriva al re, qualora questi si fosse deciso in favore della sua proposta, di ordinare al delegato alla dogana che, "posto da parte l'antico regolamento di ingerirsi solo nelle cose di giustizia, cominci con occhio attento, accorto e penetrante ad indagare le frodi e gli abbusi che diminuiscono quelle vere rendite, acciò si ponga in chiaro il vantaggio che si ritrarrebbe dalla esatta e fedele amministrazione" (ibid.).
Dell'orientamento politico del C., chiaramente impregnato della cultura giannoniana, si ha testimonianza in un suo parere sull'amministrazione degli arrendamenti e dei luoghi pii, in cui viene espressa la netta convinzione della primazia della autorità regia e delle prerogative dello Stato (ibid.).
Quando, nel 1735, fu istituita la giunta per il commercio, il C. entrò a farne parte insieme con altri tre esponenti del ceto forense e con tre negozianti della città. Il suo orientamento, come quello degli altri membri della giunta, seppure chiaramente regalistico e riformistico, non mirava, comunque, all'abolizione degli arrendamenti ma piuttosto alla loro conservazione, purché l'amministrazione di essi fosse sottratta ai privati e affidata, a funzionari di nomina regia.
Di ciò si può trovare una conferma in quanto il C. aveva affermato già precedentemente, nel 1734, a proposito della nomina dei governatori del nuovo "imposto del peso e del reale" della dogana di Napoli. Nel dare notizia al Montealegre della scelta da lui compiuta dei quattro elementi che gli erano apparsi più idonei a ricoprire la carica, dichiarava di essere "determinato nel credere che la Regia Dohana non debba governarsi in demanio e che per beneficio de' consegnatari e del real patrimonio si regoli coll'autorità del re..." (ibid.).
Nel 1735 il C. fu anche nominato membro di un'altra giunta, di cui facevano parte il Montealegre, il Tanucci e il cappellano maggiore Celestino Galiani, istituita per esaminare i problemi dell'università, la cui riforma, già elaborata dal Galiani, veniva varata dalla giunta nello stesso anno.
Il tentativo di codificazione del gran numero di leggi vigenti nel Regno di Napoli, avviato da Carlo di Borbone nel 1742 e che avrebbe dovuto preludere alla unificazione civile del Regno stesso, richiese la costituzione di una nuova giunta della quale, ancora una volta, il C. fu chiamato a far parte insieme con i più importanti nomi della cultura giuridica napoletana.
Il C. morì il 25 ott. 1770, lasciando erede dei suoi beni il nipote Giuseppe.
Il C. aveva acquistato dal principe di Fondi nel 1732 Toritto, in Terra di Bari, per 32.300 ducati. Precedentemente, nel 1720, aveva fatto un prestito di circa 93.600 ducati ad Isabella Gesualdo, marchesa di San Lucido, per l'acquisto del principato di Fondi e ne aveva ricevuto in cambio l'amministrazione della terra di Toritto con la facoltà di esercitarvi la piena giurisdizione e con il diritto di percepirne tutti i redditi. Questi ultimi, in base ai dati del relevio pagato nel 1720, dovevano ammontare in quegli anni intorno ai 2.600 ducati, mentre il relevio pagato anticipatamente per la successione al C. fa ritenere che le entrate abbiano subito, successivamente al 1720, una contrazione, dal momento che risultano ammontare a circa 600 ducati annui. Nel 1759 il C. donò Toritto al nipote Giuseppe. Nel 1702 aveva ereditato dal padre, che l'aveva acquistata nel 1696, una partita feudale di 102 ducati investiti nell'arrendamento della regia dogana di Napoli. Dei suoi beni faceva parte anche una villa di Portici celebrata come una delle più belle della zona vesuviana.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Cedolari, 5, ff. 263 ss.; 46, ff. 8 55, 176 ss.; 47, f 222v; Ibid., Casa Reale Antica, fascio 732; Ibid., Biografie de' magistrati de' vari tribunali dall'anno1707 al 1740, ff. 92, 111; V. Ariani, Commentarius de claris iureconsultis Neapolitanis, Neapoli 1769, pp. 51, 98; Id., Dominici Caravitae emeritisenatoris elogium, Neapoli 1770; Novelle letterarie di Firenze, n.s., II (1771), col. 38; G. B. Vico, Autobiogr., in Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli 1953, pp. 57 s.; N. Del Pezzo, Sitireali. Il pal. di Portici, in Napoli nobiliss., V (1896), p. 193; P. Del Giudice, Legislaz. e scienza giuridicadal sec. XVI ai giorni nostri, in Storia del dirittoital., II, Milano 1923, p. 57; M. Schipa, Il Regnodi Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli 1923, II, p. 133; F. Nicolini, Lagiovin. di G. B. Vico, Bari 1932, p. 87; G. Ricuperati, L'esperienza civile e relig. di P. Giannone, Milano-Napoli 1970, p. 139; R. Ajello, La vitapolitica napol. sotto Carlo di Borbone, in Storiadi Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 496, 536, 585, 598.