CECCHI, Domenico
Figlio di Roberto, nacque nel 1447, probabilmente a Firenze da una famiglia originaria di Vinci.
Il nonno paterno, ser Mainardo, era un notaio fiorentino piuttosto facoltoso: sposò una donna che gli portò in dote, oltre millefiorini, comprò una casa in città per sua abitazione e alla morte, avvenuta nell'aprile del 1449, lasciò ai suoi due figli Altino e Roberto un discreto patrimonio. Roberto morì poco dopo il padre, nell'ottobre di quello stesso anno, lasciando il C. e altri due figli in tenera età.
Non abbiamo notizie sulla adolescenza e sull'educazione del C.: ma dalla lettura dell'unico scritto che pubblicò quando era ormai anziano, e nel quale abbondano scorrettezze e forme tipiche del linguaggio di una persona incolta, siamo indotti a pensare che i suoi studi non andassero, oltre un livello modesto. Nella denuncia catastale del 1469 non risulta impegnato in una particolare attività, ma forse già in quel momento si occupava di affari commerciali. Nel 1480 era sposato e padre di tre figli. Egli e i suoi fratelli gestivano allora una bottega in Firenze dove facevano "arte di merciai" e si occupavano di un commercio - come quello dei merciai del tempo - che riguardava articoli vari, anche pregiati, come armi, armature, ferramenta, cinture e prodotti in cuoio, tessuti e gioielli. La mancanza di capitale li costringeva a lavorare col credito, e non sembra che fossero mercanti molto fortunati, anche perché vediamo che in quegli anni il loro patrimonio era diminuito per la vendita di alcuni beni in Montopoli. Nel 1495, dopo essersi diviso dai fratelli, il C. aveva alcune case in Firenze e teneva ancora, con un socio, una bottega di merciaio e setaiolo; ma era "oppressato dalla spesa" e per la crisi di quegli anni i suoi traffici andavano male, come scriveva nella denuncia per la decima.
Come tanti altri fiorentini del suo ambiente sociale e della sua mentalità, il C. subì l'ascendente del Savonarola e divenne un acceso sostenitore del regime politico che la città si era dato nel novembre del 1494, dopo la fuga di Piero de' Medici. Mosso appunto da un grande entusiasmo per il governo popolare e per il bene del Comune fiorentino, che gli pareva messo in pericolo da circostanze avverse, pubblicò il 24 febbr. 1497, pochi giorni dopo il famoso "bruciamento delle vanità" di piazza della Signoria (7 febbraio) e quando lo Stato repubblicano era nelle mani del capo dei savonaroliani Francesco Valori e dei suoi più stretti seguaci, un opuscolo dal titolo: Riformasancta et pretiosa per conservatione della città di Firenze et pel ben comune, con il quale intendeva partecipare agli appassionati dibattiti politici del momento.
Nel suo scritto il C. si rivolgeva alla Signoria proponendo sedici leggi che a suo giudizio erano indispensabili per rafforzare il Comune, per raggiungere la pace e l'unione fra i cittadini e per accrescere la ricchezza di Firenze e del suo dominio. Pur rendendosi conto dei limiti della sua cultura, era stato preso da una sorta di esaltazione che lo aveva costretto, come ispirato da Dio, a fare quelle proposte per salvare la Repubblica dal disordine e dalla decadenza. Con questo atteggiamento, nel quale è facile avvertire l'influenza della predicazione savonaroliana, esponeva poi, in un linguaggio popolaresco privo di ogni accorgimento letterario, il contenuto delle leggi che il governo avrebbe dovuto adottare al più presto per ottenere il consolidamento delle istituzioni e una generale riforma della vita fiorentina. Egli pensava che attraverso queste leggi la società nella quale viveva e poi tutta l'Italia si sarebbero rigenerate. E l'aspetto forse più singolare dell'opuscolo del C. sta nel fatto che egli passa di continuo, nella sua ingenua e spesso sconnessa esposizione, dalla visione quasi utopistica di un consorzio umano unito e felice a considerazioni pratiche che si collocano su un piano diverso e che portano il discorso su problemi particolari di valore limitato.
Nel suo progetto di riforma il C. propone pene severissime contro gli avversari di "questo stato e buono governo" chiede sanzioni inumane e assurde per i sodomiti, manifesta un violento odio contro gli ebrei, che vuole cacciare da Firenze, parla delle doti, della tassa della decima, del Consiglio maggiore, di una legge per favorire le costruzioni edilizie, della necessità di mantenere efficiente lo Studio per dare una buona educazione ai giovani e infine di un piano per organizzare l'esercito fiorentino su basi popolari. Alcune delle sue osservazioni non mancano di spirito realistico e di buon senso; ma in lui predomina un esaltato desiderio di rafforzare e difendere il regime politico repubblicano eliminando i motivi di divisione fra i cittadini, assicurandogli il sostegno di un esercito popolare e promuovendo provvedimenti che migliorino le condizioni generali dell'economia. L'eco delle difficoltà economiche fiorentine di quel periodo si sente spesso nelle parole del C.: la sua esperienza di mercante gli suggerisce infatti ripetute osservazioni sui possibili risultati economici delle sue proposte. Se queste leggi verranno approvate, egli dice, il Comune avrà "d'utile ogni anno uno gran tesoro", "hogniuno si darà alle merchantie et farassi pel Comune", anche perché "noi siàno naturati a lavorare e merchantili et noi ci sapiàno stare più che tutti gli huomini del mondo". Anche quando, forse rifacendosi a temi presenti nelle discussioni dei suoi concittadini, parla della milizia popolare in termini che in parte anticipano le idee del Machiavelli, non manca di tener conto degli aspetti economici del suo progetto e osserva che, a differenza di quanto avviene con gli eserciti mercenari, gli stipendi pagati per i loro servizi ai cittadini e ai sudditi resteranno nel territorio della Repubblica e vi produrranno una benefica circolazione di danaro. Fra le proposte del C. sono anche degne di attenzione quelle che riguardano l'allargamento dei diritti politici a tutti coloro che hanno pagato le tasse in Firenze negli ultimi cinquanta anni e la creazione, all'interno del Consiglio maggiore, di un organo ristretto che possa trattare speditamente gli affari di minima importanza. Questa proposta per il Consiglio maggiore si riferisce a un argomento assai dibattuto fra i Fiorentini in quei mesi e reso attuale dalla evidente difficoltà di far funzionare in modo regolare, anche per il gran numero dei suoi membri e la molteplicità delle sue competenze, il miasimo organo del loro governo.
L'opuscolo del C., proprio per il fatto di essere stato composto da una persona di scarsa cultura, è una interessante testimonianza di aspirazioni e di idee che ebbero larga diffusione in Firenze nel periodo savonaroliano. Ove si tenga presente il carattere e il tono del suo discorso, sembra d'altra parte di poter dire che egli esprime sentimenti personali, piuttosto che portare avanti i programmi di una determinata fazione. I suoi legami con i gruppi savonaroliani politicamente più influenti dovettero infatti essere molto vaghi, come vien fatto di pensare osservando che il suo nome non è ricordato nelle cronache contemporanee e non figura nell'elenco dei sostenitori del frate di S. Marco che firmarono la nota lettera del luglio 1497 ad Alessandro VI (cfr. P. Villari-E. Casanova, Scelta di prediche e scritti di Girolamo Savonarola con nuovi documenti intorno alla sua vita, Firenze 1898, pp. 513-518). Probabilmente egli appartenne a quegli ambienti che, pur avendo un loro non trascurabile peso nelle vicende fiorentine dell'epoca, rimasero ai margini dei gruppi che svolgevano una vera azione politica.
Le notizie sul C. per il periodo successivo alla pubblicazione della Riforma sancta et pretiosa sono scarse: sappiamo solo che nel gennaio del 1499 pagò la tassa di matricola all'arte minore dei rigattieri e linaioli, che nel novembre del 1514 ebbe in eredità alcuni beni in Vinci dal fratello prete ser Francesco e che era ancora vivo nel 1531, perché il suo nome compare nel "Registro dello squittinio del Priorato" di quell'anno, fra i "beneficiati per la minore" (cioè appartenenti alle arti minori) del quartiere di Santa Maria Novella.
Non conosciamo la data della sua morte, ma questa dovette avvenire poco dopolo squittinio del 1531: negli atti della decima del 1534 i suoi beni risultano infatti passati al nipote Pierantonio Cecchi.
L'opuscolo del C., di 28 cc. non numerate, fu stampato a Firenze con il titolo: Iesu. Riforma sancta et pretiosa ha fatta Domenico di Ruberto di ser Mainardo Cecchi per conservatione della città di Firenze et pel ben comune, e questo è 'l buono e 'l vero lume e 'l tesoro d'ognuno et della città et farà conservare la giustitia e 'l buon governo, et notate bene hogni chosa, che questa è la vera et buona via a venire presto in gran filicità ogni uomo et cet., et di poi in brieve tempo tutta Italia et tutto l'universo mondo, perché impareranno da questa etct. MCCCCLXXXXVI (dello stile fiorentino; si intenda 1497 dello stile moderno). Sul verso dell'ultima carta si legge: Finite a dì XXIIII di febraio MCCCCLXXXXVI. Per Francesco di Dino di Iacopo. Et corretto con somma diligentia per Domenico di Ruberto di ser Mainardo Cecchi. Cfr. l'edizione critica di U. Mazzone, "El buon governo". Un progetto di riforma generale nella Firenze savonaroliana, Firenze 1978, pp. 167-206.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecos., III,n. 55; Ibid., Catasto, 673, cc. 335r-336r; 710, cc. 5r-6v; 922, cc. 303r-304v; 1014, cc. 302r-303r; Ibid., Decima repubblicana, 1, c. 379rv; 102, c. 121 r; Ibid., Decima granducale, 5, cc. 211r-212r; Ibid., Arte dei rigattieri, linaioli e sarti, 18, c. 153r; Ibid., Tratte, 398, cc. 85r, 221r, 301 V; Ibid., Manoscritti, 353, c. 689v; 355, c. 41v; 359, c. 132v; P. Villari, La storia di fra' Girolamo Savonarola e de' suoitempi, Firenze 1930, I, pp. 454 ss.; J. Schnitzer, Savonarola, Milano 1931, I, pp. 253, 263, 275, 300; L. F. Marks, La crisi finanziaria a Firenze dal 1494 al 1502, in Arch. stor. ital., CXII (1954), p. 56; N. Rubinstein, I primi anni del Consiglio maggiore di Firenze (1494-1499), ibid., p. 182; C. C.Bayley, War and Society in Renaissance Florence. The "De militia" of Lionardo Bruni, Toronto 1961, pp. 237 ss.; U. Mazzone, "El buon governo", cit.; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VI,n. 6443; Indice gener. degli incunaboli delle Biblioteche d'Italia, II, p. 52.