Cecchi, Domenico
Nato nel 1447, da una famiglia originaria di Vinci, tenne bottega a Firenze come setaiolo e merciaio. Non si conosce la data della morte: l’ultima traccia, dopo un riscontro negli Atti della decima del novembre 1514, è relativa alla presenza del suo nome nel registro dello squittino del priorato del 1531, tra i «beneficiati» appartenenti alle arti minori; i suoi beni risultano infine ormai passati a un nipote negli Atti della decima del 1534. Informazioni sulla collocazione culturale e politica di C. si ricavano dalla sua Riforma sancta et pretiosa, pubblicata a Firenze il 24 febbraio del 1497 dallo stampatore Francesco di Dino di Iacopo (per l’edizione cfr. Mazzone 1978, pp. 169-206, da cui si cita il testo, riportando il riferimento alle cc. dell’incunabolo). In una delle pagine conclusive (c. 25v.), C. si dichiara uomo che non aveva mai studiato, come confermano d’altronde la lingua, i cui tratti fonomorfologici e lessicali sono propri del fiorentino vivo di un popolano, e i modi della scrittura.
Dai temi e da connotazioni della Riforma, C. si manifesta come un seguace di Girolamo Savonarola – per es., nello stringente rapporto tra aspetti politico-istituzionali e religiosi, nel ruolo di Firenze come perno e cuore d’Italia, nella centralità delle tematiche relative alla giustizia, al bene comune e all’unione dei cittadini – senza però esserne un portavoce (Mazzone 1978). Altri aspetti sono più legati all’ambito economico-finanziario, cui la Riforma riserva una parte cospicua. Lo scritto, dopo un preambolo in cui l’autore si rivolge ai «Magnifici Signori et onorevoli collegii et dilectissimo popolo», si articola in sedici «note», ciascuna delle quali presenta una proposta di legge e provvedimenti per il bene e l’utile della città, e si chiude con un’ampia perorazione. In questo progetto di riforma – composto da un cittadino di cui ignoriamo l’effettivo ruolo (non è infatti citato né dai documenti né dai cronisti; per il contesto in cui si inserisce C., che non era membro del Consiglio maggiore, cfr. Guidi 1992) e pubblicato durante il bimestre in cui era gonfaloniere il potente savonaroliano Francesco Valori – la penultima «nota», tra le più ampie (cc. 19r.-22v.), riguarda «in che modo noi c’abiamo a difendere pel’avenire e presto e brievemente e da ogniuno». Dalle Consulte e Pratiche di quei mesi emerge chiaramente il quadro in cui essa si pone: la continua ricorrenza della necessità e difficoltà di reperire denaro per pagare soldati a difesa di Firenze e al fine di riavere Pisa. A quest’ultima cruciale vicenda non si trova neppure un accenno in C., ma il collegamento è evidente nell’insistenza sul tema dei denari dati ai «forestieri», «gittati» senza cavarne frutto. L’attualità delle proposte è d’altronde una connotazione specifica di tutto lo scritto.
Le tematiche relative a un esercito patrio e le accuse contro le armi mercenarie avevano avuto più volte corso nel Quattrocento, dal De militia di Leonardo Bruni a Matteo Palmieri, Platina, Francesco Patrizi e ad altri umanisti, attestandosi in complesso su un piano generale, teorico o polemico, senza la formulazione di proposte concrete (Bayley 1961). A Firenze, d’altra parte, la tradizione storiografica e cronachistica cittadina aveva mantenuta viva la memoria dell’antica milizia comunale; mentre persisteva, ma in modi saltuari e in particolari circostanze, il ricorso a contadini armati in difesa del territorio. La proposta di C. non si colloca in un quadro teorico – fuori dall’orizzonte di scarsa cultura dell’autore –, ma si inserisce significativamente in un disegno in senso lato politico, come è quello della riforma della città: questa «provedigione» è il «buono ordine» – espressione su cui C. insiste ripetutamente – di cui Firenze ha necessità.
La novità della proposta di C. è data dalla formulazione di un progetto di istituzione della milizia in termini, almeno nelle intenzioni, concreti e organizzativi. Il modello di riferimento rimane comunque quello comunale, come è stato sottolineato a proposito del-l’uso della campana per chiamare all’adunata (Guidi 2009), e ancor più si rileva, nell’ultima sezione della «nota», nel ricorso a un termine di evidente rimando simbolico come il «carroccio» per le carrette destinate a portare l’artiglieria: «[…] tenere a ordine cotante spingarde e passavolante in su certe carrette leggieri e adatte e colle mantelline a uso di carroccio che sieno fatte bene e forte» (c. 22r.). Questo passo mostra il coniugarsi di tradizione e attualità nella proposta di C., che trasforma il carroccio in un baluardo difensivo per i «cinquanta fanti» che possono procedere «sicuri» dietro a ogni carretta, al riparo delle «mantelline», e in uno strumento offensivo, per l’uso delle artiglierie contro le mura della «terra dove fussino mandati».
Nello stabilire il suo «nuovo ordine», C. non sembra distinguere ruoli tra la città, il contado e il territorio; il discorso riguarda però in larga misura questi ultimi, nei quali, secondo la suddivisione per «ogni capitanatico e vicariato e podestaria e ogni nostro sottoposto», dovevano essere fatti da parte dei relativi ufficiali per ogni parrocchia («popolo per popolo») la selezione e l’arruolamento degli uomini «armigioli» e abituati alla sopportazione di ogni disagio. Alle esigenze di concretezza non corrisponde altrettanta capacità di calare nella realtà dei fatti l’organizzazione degli arruolati, che resta approssimativa, priva di un efficace coordinamento tra le singole parti e senza un centro strategico e decisionale (come sarà invece per la fondamentale istituzione del magistrato dei Nove, nell’ordinanza di M.: cfr. Guidi 2009).
Le ulteriori disposizioni mettono in evidenza la centralità che ha per C. il fattore economico, sia in relazione ai vantaggi per lo Stato – che non avrebbe più sprecato inutilmente, e con vergognoso esito, denari per un gran numero di soldati mercenari, mentre ne sarebbe stato sufficiente un terzo dei propri, ben addestrati tutti i giorni, con immediata disponibilità al bisogno e con segretezza – sia per quanto riguarda il tornaconto dei «sottoposti» da arruolare, che si sarebbe tradotto in maggiore fedeltà alla Repubblica e comune interesse a resistere e vincere contro i nemici. Le disposizioni riguardano infatti la paga da dare ai soldati, il modo per far fronte al costo, i suggerimenti per garantire sia l’efficienza (per cui le armi dovevano essere adeguate, di proprietà di ciascuno e non «acatate»; i soldati in difetto sarebbero stati cassati e facilmente sostituiti, data la disponibilità di uomini, con altri, i più adatti, in maggior numero che in altre parti d’Italia) sia la fidelizzazione dei «sottoposti» (tramite l’utile dato dalle paghe, da agevolazioni e dal «nogli oppressare troppo», cui si univa il vantaggio di non essere «assassinati» nei propri beni dai mercenari), la continuità nelle esercitazioni (anche con gare settimanali), l’appartenenza e il controllo sociale che avrebbero impedito i malefici, frequenti invece da parte dei «forestieri».
Sarebbe dunque stata questa «la vera via» per difendersi «e a volere generare l’unione nella città e nel contado e presto», senza logoramento di risorse e danni al territorio e acquisto invece della «buona fama […] per tutto el mondo» del «nostro buon governo». Provvedimenti analoghi erano suggeriti, ma con un rapidissimo cenno, per la città. L’impressione che si ricava dall’insieme è quella di un ceto medio di contadini e cittadini in armi (Mazzone 1978). La conclusione della «nota» fa emergere la consapevolezza e la volontà di fugare timori e rischi relativi alla costituzione di una milizia interna, comminandosi la pena capitale per qualsiasi uso personale o privato delle armi.
Pur con limiti non irrilevanti, incluso l’afflato fideistico di un facile consenso (cfr. Bayley 1961; Mazzone 1978; Guidi 2009), la proposta di C. rappresenta il più significativo precedente – non certo la fonte – del progetto machiavelliano dell’Ordinanza, e meglio ne definisce il contesto nei confronti della tradizione cittadina, delle opinioni correnti e dei concreti problemi di attuazione. Non è facile definire quanto ampia fosse stata l’effettiva circolazione della Riforma. Il numero degli esemplari rimasti (16, secondo le indicazioni fornite dall’Incunabula short title catalogue della British library, di cui due non noti a Mazzone) fa comunque supporre che la stampa non fosse stata priva di qualche fortuna. Un riferimento indiretto si potrebbe forse trarre da un passo delle Storie fiorentine di Francesco Guicciardini che, proprio accingendosi a narrare dell’Ordinanza di M. nel 1505-06, fa cenno al passato ordine delle milizie fiorentine che si era pensato «qualche volta» di rinnovare prima del 1494 «e doppo el 1494, in queste nostre avversità molti avevano qualche volta detto che e’ sarebbe bene tornare allo antico costume, pure non si era mai messo in consulta, né datovi né disegnatovi principio alcuno» (Storie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 424). Il cenno di Guicciardini sottolinea ulteriormente la percezione che a Firenze si aveva del legame, che già si è segnalato per C., tra l’antico costume comunale e l’istituzione di milizie fiorentine: un legame che anche M. adombra nella chiusa del primo Decennale (v. 550), ma che significativamente non ha corso negli scritti redatti per l’Ordinanza.
Oltre all’ovvia incomparabilità sul piano teorico e politico e alla sostanziale differenza tra un’ideazione astratta e un’effettiva traduzione in atto, grande è la distanza rispetto a C., a partire dalle ragioni e dai modi secondo i quali M. concepì e cercò di realizzare, progressivamente sperimentandone difficoltà e concrete soluzioni, l’istituzione della milizia: progetto in primo luogo legato all’attività in cancelleria, all’esperienza e alla riflessione – sugli antichi e sui moderni – maturate nelle importanti legazioni di quegli anni e all’infaticabile attività svolta nell’ambito dell’organizzazione logistica e militare per riavere Pisa.
Un complessivo confronto con C. (per i cui dati specifici si rimanda soprattutto a Guidi 2009) mette in evidenza tanto i punti oggettivamente più problematici in relazione alla milizia (per es., la necessità di stornare timori e rischi) quanto la differenza di M. da C. anche sul versante tecnico e logistico (in M. inoltre entro un percorso per gradi, prima per la fanteria; mancano invece riferimenti alle artiglierie). Su di un piano generale si possono citare, tra gli elementi comuni più significativi, la contrapposizione tra la milizia e i soldati mercenari, la focalizzazione dell’arruolamento sul territorio e in particolare nel contado (ma per M. l’unità territoriale prescelta è la podesteria), dove sarebbe stato possibile trovare in buon numero uomini atti alle armi, e l’opportunità di concedere agli arruolati benefici ed esenzioni (ma in M. nel quadro di una stringente disciplina e di un assetto subordinato all’autorità di un magistrato – i Nove, appunto – che esercitasse equamente la giustizia, punendo e premiando).
Bibliografia: C.C. Bayley, War and society in Renaissance Florence. The De militia of Lionardo Bruni, Toronto 1961, pp. 237 e segg.; U. Mazzone, «El buon governo». Un progetto di riforma generale nella Firenze savonaroliana, Firenze 1978; G. Ristori, Cecchi Domenico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 23° vol., Roma 1979, ad vocem; G. Guidi, Lotte, pensiero e istituzioni politiche nella repubblica fiorentina dal 1494 al 1512, Firenze 1992, 1° vol., pp. 430-51 e 2° vol., pp. 799804; A. Guidi, Un Segretario militante. Politica, diplomazia e armi nel Cancelliere Machiavelli, Bologna 2009.