CONTARINI, Domenico
Doge di Venezia, il primo di questa famiglia, succedette a Domenico Flabiano intorno alla primavera-estate del 1041 (il Dandolo, p. 209, e la tradizione posteriore pongono la successione al 1043, ma, secondo un "breviarium recordationis", il Flabiano era già morto nel giugno 1041 e la sua scomparsa si può fare risalire con ogni verosimiglianza ai primi mesi di quell'anno: vedi Cessi, Venezia ducale, p. 3, n. 1). Nessuna testimonianza, diretta o indiretta, rivela attraverso quali vicende e tramite quale procedura sia avvenuto il cambiamento di potere. Il silenzio delle fonti, tuttavia, di solito così attente a cogliere ed ampliare l'eco di avvenimenti assai incerti, sembra suffragare l'ipotesi di un trapasso pacifico e privo di tensioni secondo l'ormai consueta elezione popolare, senza alcun indizio di crisi o torbidi interni tali da ritardare la nomina.
Il lungo governo dei C, (la cui figura non offre, peraltro, materia per uno studio organico, data la frammentarietà sia delle fonti sia degli avvenimenti stessi che, di volta in volta, si inseriscono in diversi e più ampi quadri storici) fu assai significativo per la storia dei ducato veneziano, sul piano della vita interna come di quella esterna, caratterizzata quest'ultima principalmente dall'azione politica e diplomatica condotta in quegli anni, talora di comune accordo con l'attività politico-ecclesiastica del patriarca di Grado, soprattutto nei riguardi delle relazioni con il potente metropolita di Aquileia, che nell'XI secolo era uno dei pilastri più importanti della politica imperiale in Italia (Violante, p. 47), con il Papato e, sia pure in tono minore, con Costantinopoli.
Già all'indomani della sua elezione il C. si trovò di fronte al grave problema rappresentato dal drammatico riacutizzarsi della mai risolta questione gradense. Tra la fine del 1041 e l'inizio del 1042 il bellicoso patriarca aquileiese Poppone, ritenendo forse di cogliere l'occasione favorevole nel mutamento di governo, assaliva di sorpresa Grado e "totam videlicet civitatem cum ecclesiis incendit, altaria confregit, thesauros abstulit et quidquid ab igne remansit paganorum ritu secum detulit" (Ughelli-Coleti, V, col. 1114). Contro tali violenze reagì immediatamente il patriarca gradense Orso Orseolo, protestando decisamente presso il papa Benedetto IX, ma l'improvvisa morte di Poppone (settembre 1042) impedì che il colpevole venisse raggiunto dalla condanna romana. La scomparsa "sine confessione et viatico" del presule aquileiese non risolveva però la questione. Era necessario, infatti, non solo rifondere i danni arrecati, ma anche rimuovere le basi legali dell'intervento popponiano, abrogando quel privilegio "de Gradensis ecclesiae subiectione" concesso da Giovanni XIX nel 1027 (Kehr, Italia pontificia, p. 54, n. 84), in un momento di particolare difficoltà nelle relazioni fra l'Impero ed il ducato, e che aveva sanzionato la riduzione della sede di Grado a pieve sotto la giurisdizione diocesana del patriarcato di Aquileia. Solo in questo modo sarebbe stato possibile riaffermare l'indipendenza del patriarcato gradense e tutelare i diritti patrimoniali nell'ambito lagunare ed in quello del regno.
A tale fine, all'inizio del 1044, il patriarca Orso, con la collaborazione del C. ed il consenso dei popolo tutto, rappresentato da Benedetto, abate di S. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, da Giovanni Storlato e dal chierico Gregorio, protestava nuovamente contro l'operato del patriarca di Aquileia; invocava la restituzione di tutto quanto era stato sottratto; richiedeva la conferma dei diritti e dei possessi della sua Chiesa e reclamava il riconoscimento dell'indipendenza del patriarcato e l'annullamento del decreto a favore di Aquileia. Nell'aprile, la sinodo convocata appositamente in Laterano da Benedetto IX, dopo aver condannato la condotta di Poppone, designato soltanto come vescovo del Friuli ("Foroiuliensis praesul"), annullava senz'altro il privilegio del 1027 con il quale gli era stata concessa la giurisdizione sulla Chiesa gradense, riconosceva definitivamente la sede patriarcale e metropolitana di Grado e ne garantiva i diritti che possedeva sul beni siti entro e fuori il ducato, nel regno italico e nel comitato istriano (Ughelli-Coletti, V, coll. 1114 s.;Mansi, coll. 605-610; Kehr, Italia pontificia, pp. 54 s., nn. 86-87); mentre, nel giugno, il pontefice confermava all'abate Benedetto, che era stato a capo della legazione veneziana a Roma, i privilegi del monastero di Brondolo (Kehr, Italia pontificia, pp. 120 s., nn. 1-2).
La collaborazione fra il C. ed il patriarca che aveva condotto alla risoluzione, almeno temporanea, dei problema gradense nel 1044 era un dato assai significativo perché capovolgeva completamente l'atteggiamento mantenuto dal suo predecessore, il quale non era invece mai riuscito ad instaurare un rapporto di intima armonia con la maggiore autorità religiosa del ducato. L'identità di azione posta in essere per la difesa degli interessi del ducato era testimonianza sicura dell'atmosfera di cooperazione che regnava allora fra i due uomini più importanti di Venezia e, nel contempo, assicurava la pace interna al piccolo Stato.
Anche nei rapporti internazionali si verificava un sensibile miglioramento rispetto al recente passato. Già il gesto del pontefice Benedetto IX a favore del patriarcato di Grado ed a danno di quello, rivale, di Aquileia, acquistava un significato politico ed era sintomatico del mutamento che era intervenuto nel giudizio della Curia romana nei riguardi della condotta veneziana. Un analogo processo di avvicinamento si registrava anche nei confronti dell'Impero d'Oriente con il quale è probabile che il C. abbia ristabilito i contatti subito dopo la rinnovata intesa con il Papato, dato che (a differenza del Flabiano che non fu mai insignito dei titoli bizantini dei suoi predecessori) il C. fece uso del titolo di alte dignità bizantine. Fino dal 1046 egli era investito dei titolo di patrizio imperiale (Pertusi, p. 107) e tre anni dopo anche di quello di archipato (Lazzarini, p. 202).
Lo stato di tensione con l'Impero d'Occidente che il C. aveva ereditato dai suoi predecessori non accennò, invece, a diminuire durante il suo primo decennio di governo. Il carattere spiccatamente antimperiale del riavvicinamento venetopapale indusse anzi Enrico III a mantenere una posizione di aperta ostilità nei confronti di Venezia ed a sostenere la causa dei suoi avversari. Nel maggio 1047 l'imperatore concedeva al vescovo di Treviso, Rotero, un importante privilegio, in cui, tra l'altro, erano contenute alcune clausole particolarmente dannose per il ducato in quanto prevedevano la sottomissione dei monastero veneziano di S. Ilario e di alcune sue corti con le rispettive decime ed il relativo distretto ecclesiastico. Il monastero (di fondazione ducale e quindi sottoposto direttamente al doge) in realtà non si sottomise mai al vescovo trevigiano, ma rimase aperta la questione dei diritti decimali e giurisdizionali sulle sue corti, tanto più che, a breve distanza di tempo, una sentenza chiaramente favorevole al vescovo Rotero fu pronunciata da una sinodo riunita a Treviso e presieduta dal nuovo patriarca di Aquileia, Goteboldo. Il C. allora intervenne personalmente per difendere il suo monastero e ricorse direttamente al sovrano. I contatti veneto-imperiali si svilupparono verosimilmente negli anni 1049-1051 e si conclusero con un vero e proprio capovolgimento delle alleanze. Dapprima il vescovo Goteboldo, ritornando sulle sue precedenti decisioni, riconosceva pienamente validi i diritti di S. Ilario; poi, per volere dello stesso imperatore, l'intera controversia fra il presule trevigiano ed il monastero fu trattata in un piacito tenutosi ad Altino nel gennaio 1052, nel corso del quale fu confermato a quest'ultimo il pacifico possesso delle corti contestate. Nello stesso tempo il sovrano riconfermava al monastero i suoi tradizionali privilegi e, in una data non meglio precisabile ma probabilmente assai vicina, rinnovava a Domenico Silvo e Bono Dandolo, legati dei doge, i secolari privilegi imperiali di cui godevano i Veneziani nell'ambito dei regno, con sicuro vantaggio per i loro traffici nel regno italico.
Nel frattempo si era riaperta la vertenza aquileiese-gradense, soprattutto per opera del patriarca di Grado, Domenico Marango, succeduto, dopo breve intermezzo, al vecchio Orso Orseolo nel 1049 0 1050. Il nuovo patriarca (nel 1050, a non molta distanza dalla sua elezione, era stato insignito del pallio) era un fedelissimo dei pontefice Leone IX e, come tale, legato all'ambiente riformatore che lo circondava. Egli si fece sostenitore di rivendicazioni non più ittuali ed alle quali si era ormai rinunciato da tempo., reclamando ufficialmente l'origine aquileiese del titolo e la legittimità di esercizio della giurisdizione istriana. Tali richieste furono interamente accolte nelle decisioni sinodali romane dell'aprile 1053 (Mansi, col. 657; Kehr, Italiapontificia, pp. 55 s., n. 90) con le quali si stabiliva "ut ecclesia Gradensis Nova Aquileia totius Venetiae et Istriae caput et metropolis perpetuo haberetur". Nel corso della stessa sinodo, il papa (il mese precedente, di ritorno da un suo viaggio in Germania, si era soffermato ai margini della laguna, senza peraltro entrare in Venezia, e qui aveva riconfermato l'immunità al monastero di Brondolo e riconosciuto le prerogative giurisdizionali del vescovato di Olivolo) conferiva, inoltre, un altro importante privilegio al. patriarca, ribadendo l'uso del pallio e concedendogli il diritto di farsi precedere dalla croce astile. La sinodo lateranense si chiudeva, cosi, con un completo trionfo per Domenico Marango che, qualche mese dopo, si intitolava superbamente "Gradensis et Aquileiensis ecclesiae patriarca", ed al cui rivale era riconosciuto solamente il titolo di vescovo dei Friuli ("Foroiuliensis antistes"). Ma poiché il riconoscimento dei diritti del patriarcato di Grado comportava (almeno in teoria) l'annullamento di quelli di Aquileia, che rimaneva il pilastro della politica italiana dell'Impero, con il quale proprio in quel tempo il doge aveva raggiunto una faticosa intesa, l'atteggiamento del C. non fu certo favorevole a questa nuova politica pontificia per Grado. A differenza del 1044, quando si era attuata una completa cooperazione fra doge e patriarca, l'assenza di qualunque intervento del C. nella sinodo del 1053 è significativa testimonianza di aperto dissenso e prima tappa di una grave crisi ecclesiastica interna che negli anni successivi avrebbe investito l'intero organismo politico ed ecclesiastico veneziano.
A partire da quella data, infatti, si manifestarono sintomi evidenti di disgregazione all'interno del patriarcato lagunare. Anche se risultarono vani i tentativi del C. di infirmare od almeno modificare i giudicati pontifici, tanto che nel 1063 papa Alessandro II sentiva la necessita di rammentare al doge che un giudizio del pontefice romano non poteva essere annullato né modificato da alcuno (Kehr, Italia pontificia, p. 19, n. 31), le richieste dei vescovadi suffraganei di ottenere dal papa privilegi speciali, la pretesa di singole pievi di elevarsi a sede episcopale ed i dissidi di natura prevalentemente patrimoniale fra le varie chiese, erano tipiche espressioni di dissidenza contro le prospettive primaziali della sede patriarcale ed originavano una diffusa tendenza dissociativa. Tutto questo determinò un consistente depauperamento della vecchia Chiesa gradense, tanto più che il C. cercava piuttosto di arricchire e potenziare le strutture ecclesiastiche più strettamente legate alla sua persona, come la ricostruenda basilica di S. Marco (che riceveva allora una struttura amministrativa distinta) e le grandi abbazie di origine dominicale di S. Zaccaria e di S. Ilario (nel 1064 il C., che per la prima volta usa la formula "Dei gratia dux", creava una avvocazia a tutela e difesa di quest'ultimo monastero). Per fronteggiare questa situazione non valsero né le proteste né le minacce di sanzioni e neppure la prospettiva di un eventuale trasferimento della sede metropolitana al di fuori dello Stato. Si pervenne soltanto, forse nell'ultimo scorcio del ducato del C., ad un accordo di compromesso, che contemplava un finanziamento della sede patriarcale con il contributo delle autorità laiche ed ecclesiastiche; ma si trattò di un accordo a cui mancava la ratifica dell'assemblea popolare e che di fatto non ebbe esecuzione.
Se è sufficientemente chiarita la politica interna del C., rivolta specialmente alla cura dei problemi di natura ecclesiastica, mentre non si registravano particolari innovazioni negli ordinamenti interni, tranne l'importante decentramento della gestione amministrativa della finanza a cui si accennava, poco, per non dire nulla, è noto sulla sua attività di politica estera in quegli anni, anche se niente autorizza a ritenere possibile un deterioramento dei rapporti che il C. era riuscito ad instaurare con le due corti d'Oriente e d'Occidente: la concessione al C., prima del 1064, del titolo di "magister", per la prima volta accordato ad un doge (Pertusi, p. 108), sembra anzi dimostrare un ulteriore miglioramento dei contatti con il governo bizantino. La maggiore preoccupazione era, invece, costituita dalla caotica situazione venutasi a creare in Dalmazia a partire dalla metà del secolo. È assai difficile precisare se e quando si sia verificato un diretto intervento veneziano in quella regione (le date proposte dalla tarda cronachistica, 1050 o 1062, sono scarsamente attendibili perché non suffragate da dati certi), ma sembra plausibile supporre che il C. non si sia disinteressato affatto del problema ed abbia agito in qualche modo, forse più sul piano diplomatico che su quello militare.
La più bella testimonianza che sia rimasta dell'epoca del C. è senza dubbio la splendida basilica di S. Marco che egli provvide a riedificare secondo la forma attuale a partire dal 1063 e che al momento della sua morte, otto anni dopo, era in procinto di essere ultimata. E sebbene l'impegno del C. sia rimasto ristretto ai lavori murari, lasciando in eredità ai successori il compito decorativo, non vi è dubbio che a lui spetti il merito di avere creato un monumento di incomparabile bellezza.
Il C. morì nel 1071 ed il suo corpo fu sepolto nel monastero di S. Nicolò di Lido che egli stesso aveva fondato diciotto anni prima con azione congiunta del patriarca Domenico Marango e del vescovo di Olivolo Domenico Contarini, omonimo e forse parente del doge.
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