CORTI, Domenico
Nacque a Vergobbio (prov. di Varese) nel 1783 da Carlo Antonio e Maria Angela de Capitaneis. Gli anni giovanili furono caratterizzati da continui spostamenti: ad Alessandria (dove all'età di 18 anni raggiunse il grado di capomastro), a Genova, in Corsica e in Sardegna, dove fece le sue esperienze iniziali nel campo dell'edilizia, non trascurando nemmeno gli studi di architettura e di matematica. I primi lavori furono la fortezza nell'isola della Maddalena (1806), fortificazioni alla Capraia (1815) e l'ampliamento del palazzo del console inglese a Bonifacio (1817). Nel luglio 1818 giunse a Trieste e venne assunto per un anno come disegnatore all'Imperial Regia Direzione delle Fabbriche, ma presto si indirizzò all'attività edilizia. Divenne l'artefice di uno dei più massicci interventi urbanistici nella città: in vent'anni di attività costruì circa una ventina di case, in gran parte nel nuovo Borgo Giuseppino (piano regolatore del 1788) e contemporaneamente ottenne diverse commesse pubbliche. Il primo progetto di una casa d'abitazione (via S. Sebastiano, 7) risale al 1820, ma la facciata non rispettò puntualmente il disegno del C., che prevedeva la scansione tra le finestre per mezzo di paraste, con soluzioni formali molto vicine alle case della Parigi di Luigi XVI, di cui Trieste offriva già molti esempi. Subito dopo progettò un altro edificio di linee e strutture molto semplici, ideate in funzione di una piccola fabbrica cui era destinato (via Economo, 4-10).
Successivamente il C. divenne l'architetto della Comunità israelitica per la quale costruì (1822), in via delle Beccherie, 19, la Scuola spagnola rimasta in funzione fino all'anno 1937, quando si finì di demolire quella parte della città e dell'antico ghetto che rientrava nei piani di "risanamento". "Consigliere" della Comunità, da essa "si ebbe appoggio di capitali" (Righetti, 1865, p. 148) che gli consentirono di estendere la propria attività imprenditoriale. Nel 1823 presentò alcuni progetti di "riforma" di una casa settecentesca preesistente (casa Vivante in piazza S. Benco, all'angolo tra la contrada del Corso e la via del Monte) progetti che portano la seguente intestazione: "ad uso di Caposcuola d'Istruzione per le Ragazze e i Ragazzi della Spett. Naz. Israelitica in Trieste" e nel 1831 fornì il progetto (come è specificato dal titolo) di un "Ospitale per poveri passeggeri israeliti ... lungo la Contrada del Monte" (entrambi gli edifici sono tuttora visibili).
Nel frattempo, il C. portò a termine la costruzione della casa per Francesco Hermann, (corso Italia, 29; rimasta inalterata durante gli anni) ristrutturando una casa - fondaco precedente. Sempre nel 1823, fu chiamato a risolvere i problemi della ristrutturazione di uno stabile nell'attuale piazza Goldoni. Negli anni immediatamente successivi partecipò all'edificazione (case di via Torino, 28 e di via dell'Annunciata, 1-3) del Borgo Giuseppino, che veniva qualificandosi come centro prettamente residenziale, a differenza della destinazione più marcatamente commerciale del Borgo Teresiano.
Già dai primi edifici, l'adesione del C. al linguaggio neoclassico che domina l'allestimento architettonico della città appare mediata da un'interpretazione personale rivolta ad adattare quel linguaggio alle esigenze di un'edilizia di dimensioni dilatate e di limitato impegno finanziario. L'uso commerciale del pianterreno, la separazione tra la parte padronale e di servizio, le esigenze di distribuzione dei locali e di luminosità dettano precise regole alla qualificazione architettonica dell'esterno che risulta chiara e limpida nell'organizzazione da lui data ai singoli elementi: bugnato della zoccolatura contrapposto al paramento liscio ad intonaco; una "loggia" schiacciata nella parte mediana al piano nobile; partiti decorativi limitati - anche per comprimere i costi - a marcapiani, cornici, profili attorno a porte e finestre e presenza-assenza di quella parasta, appena rilevata, che fa da scansione e ritma l'incolonnatura, per così dire tipografica, di finestre e non-finestre.
La perizia professionale del C. doveva essere abbastanza riconosciuta in città, se nel 1827 - come affermano le fonti ottocentesche - gli venne affidata la costruzione di un teatro che L. Mauroner aveva deciso di finanziare. Il teatro, uno degli ultimi a gradinata (oggi però non più esistente), proviene dalla tradizione palladiana, nella linea Scamozzi (teatro di Sabbioneta) e Aleotti (teatro Farnese di Parma).
Dopo un breve soggiorno a Padova e Venezia (1828), iniziò, nel 1832, per la sua attività architettonica, il periodo migliore, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Il C. "approfittando della modicità dei valori dei fondi", aveva acquistato un'ampia estensione di terreno in via Lazzaretto Vecchio; vi costruì una serie di case d'abitazione (via Lazzaretto Vecchio, n. 2 e 4; piazza Venezia, 1) "belle, comode, vistose... con opportuni giardini ad uso di doviziose famiglie" (Righetti, 1865, p. 148).
Concepite con criteri unitari, rappresentano il primo intervento in dimensione urbanistica nella zona tra le rive e il vecchio nucleo della città. Seguì la costruzione (1837-40) di due blocchi edilizi di dimensioni tali da formare l'attuale via Corti: in essi la progettazione ha mantenuto un disegno standard di suddivisione interna che razionalizza in modo moderno la distribuzione dei vani, mentre l'esterno presenta lungo entrambi gli isolati indici neoclassici semplificati: duplicazione del piano nobile e abolizione della parasta di scansione, che rimane appena accennata agli angoli solo come riferimento mentale.
Contemporaneamente il C. aveva accettato l'incarico di costruire l'ospedale civico (1834-1841) nel quale "spiegò una intelligenza amministrativa, un'economia e un talento organizzatore sin allora insolito" (ibid., p. 148).
Il progetto originario di Antonio Juris fu rielaborato dal C. (probabilmente sulla base di suggerimenti grafici di Pietro Nobile); l'edificio riprende lo schema a quadrilatero dell'Allgemeines Krankenhaus di Vienna (ristrutturazione della settecentesca Casa dei poveri di L. von-Hildebrandt). Sul progetto, il C. non mancò di apportare modifiche, non solo per rendere più funzionale e più solida questa machine à guérir, ma anche per far sì che una costruzione di dimensioni notevoli (una fronte di 190 m e una profondità di 152 m) si inserisse, senza stonare, nel contesto urbano, uniformandosi alle sue connotazioni neoclassiche. Le modifiche apportate consistevano nell'abolizione del cornicione di cesura tra i due piani superiori e nell'adozione di un'unica misura per le finestre, duplicando in altezza la fascia dell'abitabilità ed eliminando la distinzione del piano nobile secondo uno dei criteri tipici di progettazione del C., decisamente avanzata rispetto agli altri esempi costruttivi contemporanei.
Aveva da pochi mesi licenziato il progetto per il palazzo monumentale che sarebbe sorto "per uso privato" nella via SS. Martiri, quando morì a Trieste il 23 ott. 1842.
È la "casa" più impegnativa che il C. abbia progettato in tutta la sua carriera, la sola che possa ricordare i palazzi neoclassici di Milano; la sua originalità ancora una volta consiste nella perseguita collimazione tra lo schema canonico e la razionalizzazione delle planimetrie.
Bibl.: G. Righetti, Cenni stor., biogr. e critici d. artisti e d. ingegneri di Trieste, Trieste 1865, pp. 147 ss.; E. Generini, Trieste antica e moderna, Trieste 1884, pp. 447-57; G. Caprin, Tempi andati, Trieste 1890, p. 304; E. Gusina, Storia d. Ospedale civico di Trieste, in L'Ospedale Maggiore, n. 5 (1919), p. 3; L'assist. pubblica a Trieste, in Riv. mens. d. città di Trieste, III (1930), 9, pp. 1-8; S. Rutteri, Trieste, Spunti dal suo passato, Trieste 1950, pp. 220, 467; L. Tull Zucca, Arch. neoclassica a Trieste, Trieste 1974, pp. 96 ss., 154 s.; N. Zanni, D. C. architetto, in Arte in Friuli-Arte a Trieste, n. 1, 1975, pp. 65-82; Id., Tipologia ospedaliera, in Acta medicae historiae Patavina, XXIII (1976-77), pp. 65-86; Id., L'Ospedale Maggiore di Trieste..., in Arte in Friuli-Arte a Trieste, n. 3, 1979, pp. 101-17.