D'APICE, Domenico
Nacque a Napoli il 30 genn. 1792 da Giovan Battista, "riputato negoziante" (Sforza, p. 756). Molto poco si conosce della prima giovinezza del D. e di un suo eventuale impegno politico tra la caduta del regime murattiano e il ritorno dei Borboni. Una prima fonte d'archivio vede inserito il suo nome, all'indomani dello scoppio della rivoluzione del 1820, in un elenco di "proposte della giunta di scrutinio della provincia del Principato Citra per gli impieghi vacanti degli ufficiali di quelle milizie", in favore di una sua nomina a sottotenente nel "Battaglione del distretto di Salerno, compagnia del circondario di S. Giorgio" (Battistini, in Rass. stor. del Ris., p.1000). Nel vuoto di altre notizie l'unica certezza è rappresentata dal suo arruolamento nella guardia nazionale col grado di tenente dell'artiglieria a cavallo (1820); ma sono più che probabili contatti del D. con le società segrete e la loro attività, o almeno questo era quanto pensarono gli inquirenti della polizia napoletana che lo ritennero coinvolto nell'omicidio di F. Giampietro, un ex direttore di polizia rimasto all'inizio del 1821 vittima di un attentato "preparato... nelle notturne adunanze di carboneria" (P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, IV, Capolago 1837, p. 186) e portato a termine come ritorsione per l'intervento delle potenze contro il regime costituzionale napoletano.
Costretto all'esilio, il D. cominciò quella vita errabonda ed avventurosa che lo avrebbe condotto nei paesi più lontani e lo avrebbe tenuto fino a poco prima della morte lontano dalla terra d'origine. Ma se non è difficile seguirlo in tutti i suoi spostamenti, più arduo risulta, in assenza d'una documentazione sicura, cercare di fare uscire dal vago il carattere della sua attività e la natura delle sue posizioni ideologiche negli anni precedenti il 1848. Come tanti altri connazionali fuorusciti dall'Italia per motivi politici il D. pensò di porre le proprie doti di soldato al servizio delle lotte che in quegli anni infiammavano la penisola iberica: così fu prima in Catalogna dove infuriava la guerra civile e una legione italiana combatteva coi costituzionali. Quando, in seguito alla sconfitta dei costituzionali ad opera della Francia, tutti dovettero lasciare la Spagna, il D. passò come prigioniero di guerra in Francia da dove fu espulso dopo otto mesi di detenzione. Si portò allora a Londra e qui, mentre dava lezioni d'italiano per sopravvivere, si affiliò ad una vendita carbonara della quale fu segretario e che, stando ad un anonimo informatore, intorno al 1825-26 lo inviò a Lisbona per "aprire colà delle relazioni, e se è possibile delle filiazioni con questa principale Vendita come ancora colle diverse società segrete sparse sul continente..." (Cannaviello, pp. 8 s.).
Il Portogallo era allora teatro dell'aspra contesa fra i sostenitori di Maria II, alla quale il padre Pedro I aveva ceduto i diritti al trono dopo la concessione di una costituzione di tipo inglese, e i seguaci di don Miguel, titolare della reggenza. Quando nel 1828 costui abrogò la costituzione, il D., a conoscenza d'un complotto antimiguelista, dovette rifugiarsi a Gibilterra, quindi a Tangeri, poi di nuovo a Gibilterra. La fitta rete di contatti stabilita anche coi rivoluzionari spagnoli lo portò poi a Malaga a progettare con gli oppositori di Ferdinando VII un ritorno di forza in Spagna: arrestato, incarcerato per nove mesi e quindi espulso, il D. tornò a Gibilterra per ripartire subito dopo alla volta di Algeri, la città che era appena stata occupata dai Francesi. Sperava di trovarvi un arruolamento ma ben presto, deluso nelle sue aspettative e forse interessato dalle prospettive che la rivoluzione francese del 1830 sembrava aver aperto anche per l'Italia, ritornò in Europa. Da Marsiglia all'inizio del 1831 rientrò nella penisola per sostenere con altri fuorusciti la rivoluzione dei ducati e dello Stato pontificio, ma, presto arrestato a Stazzema, fu rinchiuso in fortezza a Livorno e quindi rispedito in Francia.
In un'epoca di continui rivolgimenti politici e di lotte per la nazionalità non erano tuttavia le occasioni a mancargli: la sua meta successiva fu perciò il Belgio, da poco resosi indipendente dai Paesi Bassi ma ancora esposto al pericolo del revanscismo olandese. All'inizio del 1832 il D. si arruolò col grado di sottotenente in un reggimento straniero la cui creazione era stata autorizzata dal re Leopoldo I ma che di lì a poco sarebbe stato sciolto per gli episodi di indisciplina e i gesti di violenza di cui si sarebbero resi colpevoli i suoi componenti. Nel frattempo in Portogallo prendeva piede la riscossa antimiguelista capitanata dall'ex imperatore del Brasile Pedro I: tra i molti volontari italiani assoldati in Francia dal genovese G. Borso dei Carminati per la difesa dei diritti di Maria II ci fu anche il D. che, sbarcato col suo corpo in Portogallo, partecipò successivamente alla guerra riportando tre ferite, meritandosi la croce dell'Ordine di Cristo e altre decorazioni e conseguendo nel 1834, alla conclusione vittoriosa del conflitto, la naturalizzazione portoghese; il che non impedì che, morto don Pedro, egli fosse messo "a deposito", con la carriera bloccata e la paga ridotta della metà.
In tutto questo lungo girovagare che presto lo avrebbe riportato in Spagna a combattere contro i carlisti non sono documentati quegli stretti rapporti che negli stessi anni legavano altri esuli italiani o al mazzinianesimo o al paziente lavorio cospirativo condotto da N. Fabrizi. È attestata invece con certezza la sua presenza nella Unione dei veri italiani, una società d'ispirazione buonarrotiana, attiva a Parigi nel 1832; dell'unica sua relazione personale di cui si ha notizia, quella col Borso dei Carminati, si sa pure che nei primi mesi dell'anno 1836 si era chiusa con una rottura che da Bruxelles C. Bianco di Saint Jorioz, il teorico della guerra partigiana, cercava inutilmente di sanare invitando il D. "a sacrificar tutto ciò che è personale sull'altare della patria" (Palamenghi Crispi, pp. 161 s.): una patria le cui sorti dovevano comunque stare a cuore al D., se è vero che quello stesso 26 febbr. 1836 il Bianco confidava a N. Fabrizi: "In una lettera di D'Apice sono consegnati pensieri stupendi relativi all'avvenire rispetto al nostro paese ed alla cooperazione che per parte sua e di Borso si potrebbe aspettare…" (ibid., p. 53).
Le difficoltà incontrate nella penisola iberica dopo la fine della guerra civile indussero il D. a rimettersi in viaggio nel 1842, attirato dal miraggio di trovare un'occupazione come istruttore militare, si spinse fino ai mari dell'Asia meridionale, ora sperando di raggiungere l'Afghanistan o la Cina, ora impegnandosi nella guerra marinara in favore dei possedimenti coloniali portoghesi. Cinque anni dopo, deluso, tornava a Londra. A risollevarlo dalle precarie condizioni materiali e morali in cui versava dopo tanti anni, d'esilio vennero i bruschi mutamenti della situazione italiana; già sul finire del 1847 il Mazzini, che doveva conoscerlo da tempo, e vedeva in lui un uomo "onesto" e "un buon uffiziale appartenente alle nostre idee" (Epistolario, XXXIII, p. 199), aveva tentato dì sospingerlo verso l'Italia; e fu certo grazie alla considerazione goduta se nella primavera del 1848 il governo provvisorio di Milano gli affidò una colonna di volontari e lo inviò a difendere i passi, strategicamente importanti, del Tonale e dello Stelvio.
Posto al comando di 250 uomini col grado di colonnello, il D. si trovò presto a lottare coi problemi logistici, la diffidenza delle popolazioni, la mancanza quasi totale di organizzazione: ai primi si sforzò di ovviare con pressanti richieste di armi, uomini e mezzi, e quando nel giugno gli Austriaci sferrarono i primi attacchi non si fece trovare impreparato; inoltre la sua azione risultò efficace anche sotto il profilo della propaganda e della ricerca del consenso, cosa che spinse un osservatore a dir "meraviglie dell'entusiasmo degli abitanti, del coraggio dei volontari, e della fiducia illimitata in D'Apice" (Pelosi, I, p. 197). Il D. non riuscì invece a guadagnarsi la collaborazione piena di quei militari che nutrivano simpatie per il Piemonte di Carlo Alberto; e ci fu, tra costoro, chi lo descrisse come un uomo "quanto attivo ed instancabile, altrettanto insofferente di aver presso di sé ufficiali di pari grado, e bestialmente irascibile" (Baroni, p. 99). Il D. era infatti certo che solo una concentrazione assoluta del potere nelle sue mani potesse rendere incisiva la sua opera; la stessa presenza al suo fianco di un commissario politico come M. Quadrio, che pure gli aveva risolto molti problemi in fatto di forniture, gli pesava al punto da indurlo a scrivere al ministro della Guerra a Milano una lettera di dimissioni (3 luglio 1848, in Arch. del Museo centr. del Ris. di Roma, busta 292/27/1) che forse rimase senza risposta. D'altra parte, la risolutezza e lo spirito irriducibile con cui seppe tener testa agli Austriaci lo resero popolarissimo presso tutti i repubblicani che ne fecero quasi il simbolo del combattente ostinato e mai domo. E forse fu appunto per corroborare questa sua fama oltre che per creare un nucleo di resistenza al quale i volontari potessero far riferimento nel generale venir meno di ogni centro direttivo che il D., invece di rifugiarsi in Svizzera, intraprese la guerra partigiana sulle montagne dell'alta Lombardia e il 12 ag. 1848 proclamò sullo Stelvio una Repubblica italiana di cui si autonominò presidente. Presto però, abbandonato dalla maggior parte dei volontari, dovette passare il confine, vittima anche d'una accusa infamante - quella di essersi appropriato della cassa del corpo - cui seppe dare una dignitosa risposta.
Due mesi più tardi il D., nel frattempo diventato generale, rientrò in Lombardia (29 ott. 1848) alla testa di una delle tre colonne su cui il Mazzini aveva imperniato quel moto di Val d'Intelvi che doveva segnare l'inizio dell'insurrezione nel Comasco: ma alla prima energica reazione austriaca la colonna - circa 400 uomini - dilaniata dalle gelosie insorte tra il D. e un altro generale, A. Arcioni, si sbandò; i capi cercarono allora rifugio nel Canton Ticino da dove il D., dopo una breve detenzione e alcuni interrogatori da parte della polizia elvetica, si allontanò per raggiungere la Toscana.
A Livorno ebbe accoglienze trionfali. Quando, nel febbraio del 1849, il Mazzini arrivò in Toscana, sperava di convincere il D. a seguirlo a Roma dove già da un mese, memori del suo recente passato, lo si invocava come futuro generale in capo. Sordo a questi appelli e alle insistenze del Mazzini che ben lo avrebbe visto a difendere i confini meridionali della nascitura Repubblica, il D. preferì restare accanto al Guerrazzi che il 10 febbr. 1849 lo pose a capo della commissione militare per la difesa della Toscana e subito dopo gli affidò il comando generale delle truppe incaricate di domare il tentativo di ribellione messo in atto nella provincia di Lucca dal De Laugier. Politicamente l'uomo nel quale i repubblicani avevano riposto tanta fiducia si rivelava invece timoroso di uno sbocco rivoluzionario e incapace di comprendere quelle spinte all'unione tra la Toscana e Roma che costituivano uno dei pilastri dell'azione mazziniana del tempo, e per di più aiutava il Guerrazzi a sbarazzarsi di quei democratici che, come il governatore di Livorno C. Pigli, prospettavano dopo la fuga del granduca l'urgenza dell'adozione d'un programma più radicale; non meno deludente fu poi il suo comportamento sul piano militare perché, caduto il Guerrazzi e passato il potere ai moderati, il D. s'affrettò a rimettere l'incarico nelle mani della commissione provvisoria di governo e, pur non riconoscendosi nel nuovo ordine, "procurò che vi aderissero i suoi soldati e che prestassero il giuramento..." (Martini, p. 404). Rifiutando inoltre ai volontari lombardi il permesso di entrare in Toscana fece sì che, al loro ingresso nello Stato, le truppe austriache incaricate di restaurare il sovrano non trovassero opposizione di sorta.
La condotta del D., che dopo una breve permanenza a Lucca riuscì ad ottenere con l'appoggio dei diplomatici inglesi e francesi un salvacondotto e ad imbarcarsi il 5 maggio 1849 per la Corsica, se fu apprezzata dai moderati, riscosse molte critiche da parte dei democratici. Secondo la rievocazione che del biennio di guerre avrebbe fatto C. Pisacane, "egli aprì subito il passo agli austriaci che occupavano Massa e Carrara; cooperò al trionfo della reazione in Pisa, quindi chiese i suoi passaporti e fuggì" (Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, Genova 1851, p. 249). Ci fu chi lo sospettò al servizio dell'Austria; il Mazzini a sua volta, sinceramente spiaciuto dell'accaduto e convinto che egli avesse "mancato di testa e d'energia, non di core" (Epistolario, XLII, p. 193), sollecitò invano una giustificazione pubblica del D. che invece si limitò a confidare per lettera ad un amico livornese di avere avuto come unico scopo quello di "evitare alla Toscana la guerra civile e l'invasione austriaca" (Schlitzer, 1940, p. 201), senza nulla ricavare sul piano personale dal proprio operato; verso il Mazzini, dal quale si studiava di prender le distanze, restava solo un sentimento di acredine che gli faceva vedere nell'ex triumviro il responsabile delle sue recenti disavventure.
Dalla Corsica il D. si allontanò più di una volta per recarsi in Francia, in Turchia (con la vana speranza d'un impiego nella guerra contro i Russi), in Toscana, dove il governo ne tollerava la presenza per permettergli di curare una grave malattia ad un occhio. Nei suoi confronti c'era sempre, anche da parte dei liberali, una sorta di diffidenza; e quando il 16 dic. 1860 il Cavour, nell'impostare il riordinamento dell'esercito, volle fare il suo nome al Fanti questi gli rispose: "D'Apice non conviene sotto alcun rapporto. Lo conosco assai. Ne parleremo" (La liberaz. del Mezzogiorno, IV,Bologna 1954, pp. 84, 91).
Il D. morì a Napoli il 12 genn. 1864.
Fonti e Bibl.: F. Schlitzer, Lettere dalla Corsica di un emigrato polit. del '49, in Leonardo, XI (1940), pp. 191-208, afferma che gli originali delle lettere del D. a F. Cartoni da lui pubblicate sono nell'Arch. del Risorg. di Genova "insieme con quelle di altre sue scritte in epoca anteriore al '49" (p. 191). Nel Museo centr. del Risorg. di Roma sono custodite due lettere del Bianco di St. Jorioz al D., poi edite da T. Palamenghi Crispi, Gli italiani nelle guerre di Spagna, in Il Risorg. ital., VII (1914), pp. 53, 161 s., nonché alcune lettere degli anni 1848-49 (buste 292/27/1-2; 536/2/1; 547/9/1-2; 923/31/1-2). Tra le maggiori fonti con notizie sul D. si indica: Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini, Epistolario, V,XXXIII, XXXV, XXXVI, XLII, ad Indicem; in partic. per il '48 in Lombardia, C. Baroni, I Lombardi nelle guerre it. 1848-49, Torino 1856, pp. 90, 99-103, 125 ss., 130-135, 160, 202 s.; Lettere di L. Manara a F. Bonacina Spini..., a cura di F. Ercole, Roma 1939, ad Ind.; per il '49 toscano, F. D. Guerrazzi, Apol. della vita politica..., Firenze 1851, pp. 305, 354-61, 364 s., 374 s., 378-81, 394 s., 469 s., 481 s., 493, 582 s., 603, 625, 634, 639 s., 655 ss.; C. Pigli, Risposta all'Apologia di F. D. Guerrazzi, Arezzo 1852, pp. 194, 197-200, 229-233, 265 s., 291 ss., 299; Le Assemblee del Ris.: Toscana, III,Roma 1911, pp. 475, 479, 484, 509; F. Martini, Il '48 in Toscana. Diario ined. del conte L. Passerini de' Rilli, Firenze 1918, pp. 256, 259, 276, 278, 286, s., 308. 333 s., 394, 404, 408; A. Savelli, L. Romanelli e la Toscana del suo tempo, Firenze 1941, ad Indicem; G. La Cecilia, Mem. st-polit., a cura di R. Moscati, Roma 1946, ad Indicem; A. Saitta, F. Buonarroti...,I-II,Roma 1951, ad Indicem; Relazioni diplom. fra la Francia e il granducato di Toscana, s. 3, 1848-1860, I, a cura di A. Saitta, Roma 1959, ad Indicem; Relaz. diplom. fra l'Austria e il Granducato di Toscana, s. 3, 1848-1860, I, a cura di A. Filipuzzi, Roma 1966, ad Indicem. Spunti per l'approfondimento di taluni momenti della vita del D. e per una valutazione critica del suo operato di militare in: G. Sforza, Il Mazzini in Toscana nel 1849, in Riv. st. del Ris. it., III (1899), pp. 756 ss., 761, 793; S. Pelosi, Della vita di M. Quadrio, I,Sondrio 1921, pp. 190-217; M. Battistini, Esuliital. nel Belgio. Gli Ital. a servizio dell'esercito belga, in Rass. st. d. Ris.,XXI (1934), pp. 989 s., 992, 1000 s.; E. Michel, Esuli ital. in Algeria (1815-1861), Bologna 1935, ad Indicem; Id., Esuli ital. in Corsica (1815-1861), Bologna 1939, ad Indicem; Id., Esuli italiani in Portogallo, in Relazioni fra l'Italia e il Portogallo, Roma 1940, pp. 444, 450-452; V. Cannaviello, Gli Irpini della rivoluz. del 1820nell'esilio, in Rass. st. d. Ris., XXVII (1940), p. 8; F. Schlitzer, Il gen. D. D. e un tentativo insurrez. a Chiavenna nell'agosto 1848, in Rass. st. napoletana, II (1941), pp. 169-175; E. Di Nolfo, Storia del Risorgimento edell'Unità d'Italia, VI,Milano 1959, pp. 310, 316-320; VII, Milano 1960, pp. 61 s., 80-84, 108; S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia", I,Pisa 1960, p. 263; P. Pieri, Storia milit. del Ris.,Torino 1962, ad Indicem; M. Battistini, Esuli ital. in Belgio (1815-1861), Firenze 1968, ad Indicem.