DOMENICO di Niccolò (Domenico dei cori)
Nacque probabilmente a Siena intorno al 1363, se dobbiamo dar fede all'età di "anni ottanta quatro o circa" (Milanesi, 1854, II, p. 237) che D. dichiara nel 1447 in una supplica al Comune di Siena e se è lui quel "m.° domenico di m.0 nicholo" che il 10 dic. 1382 fece battezzare il figlio Niccolò (Battezzati..., c. 25r).
Un cospicuo gruppo di documenti attesta fatti della vita privata, gli incarichi pubblici e le molteplici commissioni in qualità di architetto, di maestro di pietra, di legname, di intaglio e tarsia. Eccellendo particolarmente in queste due ultime specialità, produsse alcuni importanti cori lignei variamente intagliati e intarsiati che gli valsero la conoscenza anche al di fuori delle mura cittadine e l'appellativo "de' cori", col quale egli stesso si dichiara nella lettera autografa del 1447. Scambiato per un cognome, quel "de' cori" valse a catalogare D. e i figli nella ricostruzione dell'albero genealogico della famiglia Spinelli e Cori (Mocenni, 1713, c. 199), giudicata improbabile già dal Romagnoli (ante 1835, p. 500).
Referti d'archivio attestano la nascita a Siena o l'esistenza di molti figli di D., alcuni dei quali avuti in tarda età dalla seconda moglie, Domenica, sposata nel 1424 (Romagnoli, ante 1835, p. 511).
Il 1° maggio 1405 fu battezzato Filippo, cui fece da "compare" il pittore Spinello Aretino; il 20 genn. 1409 Angelo Fabiano; il 10 febbr. 1426 Pollonia; il 10 dic. 1427 Niccolò Sano; il 10 apr. 1430 Giovanni Battista; il 21 luglio 1432 Antonia Maddalena e il 28 nov. 1434 Antonia Galgana (Battezzati...). Il 7 apr. 1415 D. denunciò la dote di 120 fiorini d'oro per la figlia Bartolomea e l'11 apr. 1423 quella di 250 fiorini d'oro per l'altra figlia Jacopa, data sposa al pittore Gregorio di Cecco (Bacci, 1934).
Secondo il Lusini (1911, pp. 279, 357) D. tenne l'incarico di capomaestro dell'Opera del duomo di Siena dal 1398 al 1435 e, come ci informano i pagamenti, ben presto fu impegnato con quella Fabbrica per stimare le testiere e i tabernacoli del coro maggiore (28 e 30 maggio, 13 agosto, 10 sett. 1394; ibid., p. 273), per interventi di restauro alle coperture lignee dei tetto (29 dic. 1395-12 marzo 1396; ibid., p. 311) e per vari altri lavori di manutenzione al duomo e alla canonica (19 apr. 1396; Lusini, 1939, p. 18).
Ancora all'inizio del 1397 stimava altre testiere del coro grande (io e 16 marzo; Milanesi, 1854, I, pp. 375-379), mentre il 30 apr. 1397 giudicava un fonte per l'acqua del sabato santo eseguito da Barna di Turino (Borghesi-Banchi, 1898, p. 62). Nel 1398 veniva pagato per giornate di lavoro verosimilmente relative alle intelaiature lignee di una vetrata in prossimità del pergamo e di quella del grande occhio dell'abside (Milanesi, 1854, I, p. 238, II, p. 239; Lusini, 1911, p. 355). Ancora per una finestra è ricordato il 15 settembre 1402. Il 28 giugno dello stesso anno era pagato per le tarsie "de le voltarelle degli angioli sopr'al coro" maggiore (Milanesi, 1854, II, p. 238).
Il 9 giugno 1404 era presente come maestro dell'Opera ad un contratto relativo alla cavatura di marmi (Milanesi, 1854, II, p. 17). Nel bimestre novembredicembre 1404 fu eletto nel Concistoro della Repubblica per il terzo di S. Martino (Romagnoli, ante 1835, p. 501). Stando ad una memoria archivistica del 12 genn. 1407 (Milanesi, 1854, 11, p. 239), D. stava lavorando ormai da un anno ai cori per le cappelle di S. Ansano e di S. Savino all'interno della cattedrale di Siena, per i quali ricevette pagamenti il 21 maggio 1407 e il 28 maggio dell'anno successivo (Lusini, 1911, p. 328).
II manufatto ligneo di S. Ansano aveva almeno "due figure d'intaglio", per le quali D. acquistò una tavola di pioppo il 22 ott. 1407 (Milanesi, 1854, II, p. 239), e una serie di immagini intarsiate raffiguranti le Virtù teologali, come attesta un inventario del 13 dic. 1420 (Lusini, 1911, pp. 256 s.). Non sono noti invece i soggetti del coro di S. Savino, a meno che un lapsus dell'amanuense abbia indicato S. Savino al posto di S. Vittore. Nella cappella di quest'ultimo è attestata la presenza di un coro di D., non ricordato nei pagamenti, ma negli inventari del 1429 e 1446, in cui si attesta che era "intarsiato con figure de'sette peccati mortali" (Bacci, 1936, p. 174). È probabile che si riferiscano a questi lavori anche un pagamento del 10 maggio 1410 "per fare intagli" di un coro non altrimenti specificato, per il quale forniva disegni il pittore Niccolò di Naldo (25 agosto; Bacci, 1936, p. 253), e la registrazione dell'ingente somma di 203 fiorini emessa nel 1414 per volontà dell'operaio del duomo Caterino di Corsino (Romagnoli, ante 1835, pp. 502 s.).
Queste due (o forse tre) impegnative imprese dovettero permettere la piena affermazione del maestro in questo tipo di "arte applicata" e anche costituire le ragioni dell'interessamento verso D. da parte del segretario di Carlo VI, Pierre le Fruiter (detto Salmon), il quale scrisse, nel gennaio 1408, al duca Jean de Berry per indicargli che a Siena era attivo un intarsiatore di straordinarie capacità (Champeaux, 1888, p. 410). L'entusiastico giudizio suscitò l'immediata replica del duca che il 10 aprile seguente, chiese al Salmon di trattare con l'"ouvrier très solemnel de musayque" per un trasferimento alla sua corte. Che in questo'scambio epistolare si alluda proprio a D., come suppone lo Champeaux, è molto verosimile; resta invece infondata la congettura (Champeaux, 1888; Mély, 1911) che D. abbia accettato l'invito, visto che la sua presenza a Siena è in seguito frequentemente documentata. Infatti fra il 6 ottobre e il 2 nov. 1408, potendo contare anche su finanziamenti dell'Opera del duomo (concessi il 22 ott. 1408 e il 28 sett. 1409; Bacci, 1936, pp. 119, 130 s.), D. era impegnato nelle formalità dell'acquisto di una casa dallo scultore Francesco di Valdambrino col quale dovette avere rapporti se non proprio di familiarità, come afferma il Bacci, certamente di vicinato, trovandosi entrambi elencati, in stretta successione insieme con lacopo della Quercia, nella Lira del 1410 relativa al "popolo" di S. Maurizio (ibid., pp. 248 s.). Familiarità è sicuramente accertata invece fra Martino di Bartolomeo e D., che fu "compare" al battesimo di due figli del collega pittore: Antonia (23 dic. 1408) e Bartolomeo (20 genn. 1425; ibid., pp. 345 s.).
Gli impegni di D. con l'Opera del duomo si susseguirono senza interruzioni in questo giro di anni. Egli dovette avere la responsabilità costruttiva delle coperture lignee e dell'arredo della sagrestia, se a lui vengono più volte registrati pagamenti per le travi del tetto (10 ag. 1409, 14 gennaio, 10 febbraio e 14 giugno 1410; Lusini, 1911, pp. 342 s.) e per gli sportelli degli armadi delle reliquie (7 giugno 1411: Bacci, 1944, pp. 206 s.). E ancora nel giugno del 1413 è presente alla firma di un contratto per l'esecuzione di due campane (Milanesi, 1854, II, p. 58).
Per la sua perizia e per l'incarico di capomaestro dei duomo nel 102, il Comune gli chiese di giudicare, insieme con altri maestri, un progetto di ristrutturazione del monastero di S. Barnaba, il quale fu invece destinato alla distruzione per dare un nuovo assetto urbanistico alla porta Romana (Romagnoli, ante 1835, pp. 501 s.). Già nel 1408 (22 dicembre; Bacci, 1936, pp. 135) D. era eletto dal Comune nella commissione incaricata di sorvegliare l'esecuzione della grande fonte del Campo, affidata a Iacopo della Quercia. Confermato nell'incarico il 15 giugno 1412 (ibid., pp. 313 s.), D. seguirà insieme ai colleghi la lunga e tormentosa esecuzione di quel complesso marmoreo, presenziando ad una pacificazione fra lacopo e i suoi aiutanti (3 genn. 1415; Milanesi, 1854, II, p. 69), proponendo modiflche al progetto originale (18 genn. 1415; Bacci, 1936, pp. 293 s.), commissionando due Lupe per immettere acqua nella vasca (17 nov. 1416; Milanesi, 1854, 113 p. 79), facendosi tramite per alcuni pagamenti al collega scultore (16 dic. 1418, 9 febbr. 1419; Bacci, 1929, pp. 1215.).
Anche D. stesso ebbe prestigiose commissioni dal Comune; il 16 giugno 1414 (Milanesi, 1854, II, p. 239) per la porta della sala del Concistoro, impreziosita da intarsi e intagli, e il 26 ag. 1415 per il coro della nuova cappella di palazzo (ibid., II, pp. 71 s.), che costitui indubbiamente l'impegno maggiore della sua carriera, gli procurò l'appellativo col quale è noto e gli assicurò una posizione di assoluto privilegio, tanto che il 13 maggio 1421 il Comune, riconoscendo l'eccezionalità del suo operato, accolse la fichiesta di concedergli una provvigione annua di 200 lire per insegnare l'arte dell'intaglio e della tarsia a due o tre garzoni (ibid., II, pp. 103 s.). L'iniziativa andò avanti per alcuni anni, visto che furono emesse le sovvenzioni almeno in tre volte (31 dic. 1423; 19 giugno 1424; 20 febbr. 1427; Bacci, 1927, p. 183; Romagnoli, ante 1835, p. 514), ma si esauri per mancanza di allievi, come afferma sconsolato D. stesso nella lettera del 1447 ("et perché quella arte era et è di picciolo guadagnio, non fu mai nissuno che la volesse continuare, se non maestro Mactio di Bernachino, che seguitò l'arte in forma, che diventò excellentissimo maestro"; Milanesi, 1854, II, pp. 236 ss.). A parte l'insegnamento, D. lavorò al coro di palazzo fino al 1428, provvedendo a completare l'arredo della cappella anche con una porta (richiestagli il 24 giugno 1426; ibid., pp. 239 s.) e con un lampadario ligneo dorato (Bagnoli, 1982, pp. 354 s.).
Nelle carte dei Comune il Romagnoli (ante 1835, pp. 511-14) trovò inoltre altre emissioni di pagamenti, non meglio specificati, in favore di D., negli anni 1428 - quando lavorò insieme con l'allievo Mattia di Nanni Bernacchino -, 1429, 1432 e 1446. Precedentemente agli impegni per palazzo pubblico, richiesto dall'Opera del duomo di Orvieto per lavori "di pietra e di legname", il 26 genn. 1414 D. si era affrettato ad elencare le condizioni per il trasferimento in quella città (Milanesi, 1854, 113 pp. 70 s.); ma intanto nel settembre prendeva ad intagliare le figure dei Dolenti per la cappella del Crocifisso in duomo, cui lavorò nell'anno successivo, prima che passassero nelle mani di Martino di Bartolomeo per essere dipinte (Bacci, 1929, pp. 52-58); e nel marzo-aprile del 1416 assolse ad un pubblico incarico, risiedendo nuovamente nel Concistoro per il terzo di S. Martino (Romagnoli, ante 1835, p. 510). Invano, il 17 agosto di quell'anno, i responsabili del duomo orvietano lo richiamavano per risolvere i problemi statici al tetto (Milanesi, 1854, II, pp. 73 s.). D. restava ormai strettamente legato ai cantieri di lavoro e alla vita pubblica di Siena. Secondo il Milanesi (1854, II, pp. 92 s.), nella sua qualità di capomaestro del duomo senese, D. dovette provvedere alla progettazione del palazzo di S. Paolo (oggi loggia di Mercanzia), affidata alle cure dell'Opera il 30 ag. 1417.
Nel 1423, ancora per la Fabbrica del duomo, progettò un pergamo dato a scolpire a Giovanni da Imola e a Giovanni di Turino (Lusini, 1939, p. 24), inoltre disegnò e probabilmente esegui - per quanto si può dedurre da una memoria archivistica del 4 giugno 1423 (Milanesi, 1854, II, p. 111) - tre commessi marmorei per il pavimento, raffiguranti David, Golia ed il vecchio Re David fra quattro musici. Queste storie e la perduta lastra sepolcrale di "Ladislao barone de lo imperatore Sigismondo", pagatagli dall'Opera l'11 dic. 1433 (Lusini, 1939, p. 26), restano le uniche testimonianze sicure dell'attività di D. quale "maestro di pietre".
Nel 1419 ispezionò alcuni edifici del Comune per conto del Concistoro (Romagnoli, ante 1835, pp. 510 s.); nel settembre-ottobre dell'anno 1420 era ancora membro di quella magistratura insienie con Iacopo della Quercia (Bacci, 1936, pp. 371 s.), per il terzo di S. Martino, dove risulta allirato il 27 novembre successivo (ibid., p. 370). Nel 1422 "fu dei Signori Regolatori" (Romagnoli, ante 1835, p. 511). Nel 1425 con Francesco di Valdambrino fu garante nei confronti del Concistoro Per l'orafo Guido di Giovanni eletto castellano di Manciano (Bacci, 1936, p. 415). Sarà per l'ultima volta eletto nel Concistoro nel bimestre settembre-ottobre del 1437 (Romagnoli, ante 1835, p. 514).
Anche negli ultimi anni, nonostante fosse ormai terminato l'impegno di capomaestro dell'Opera e venissero a mancare gli incarichi pubblici, restano alcune testimonianze dell'operosità e della vita privata del vecchio Domenico. A ricordato nella Lira del 1443 (Bacci, 1936, p. 440) e, secondo i documenti citati dal Romagnoli (ante 1835, p. 513), nel 1448 e '49 risulta dovere 50 fiorini a tal Paolo d'Antonio.
Nel maggio-giugno del 1442 (Bagnoli, 1987, pp. 129, 132; 1989, pp. 278, 290) intagliò una figura di Cristo risorto per la chiesa dell'ospedale di S. Maria della Scala, che fu subito dipinta da Giovanni di Paolo, e nel 1447 (Del Bravo, 1970, p. 66) esegui la perduta statua equestre "al naturale", forse in legno o in altro materiale più deperibile, di Ardiccione da Carrara, capitano di guerra del Comune di Siena morto nel 1441.
Dal gennaio 1447 ottenne un sussidio di 2 fiorini al mese, grazie ad una lettera di supplica rivolta al Concistoro e al capitano del Popolo (14 gennaio 1447), nella quale, oltre a lamentare la malferma salute e le ristrettezze economiche ("so' rimasto non tanto povaro, ma mendico et vechissimo d'anni ottanta quatro, o circa, et co' la donna inferma, et ancora io poco sano, et per modo so' condotto, che poco posso fare"), dimostra una chiara coscienza del proprio valore ("del mestiero suo cercò sempre fare grande honore a la citta, et reportare fama de' suoi lavori, come è noto a tutti la vostra cittadinanza": Milanesi, 1854, II, pp. 236 ss.). Nonostante questo stato di cose ancora il 19 ag. 1450 (ibidem, p. 240), forse sulle soglie dei novanta anni e della morte (nel 1453 la moglie Domenica si dichiarerà vedova: Bacci, 1936, pp. 407, 440), D. riusci a consegnare "vintiquatro ghorgolle et quatro testucce di legname per porre al choro" del duomo, nonché un "agnoletto intagliato di legname", per l'altare della Madonna delle Grazie, il quale non poteva che apparire "rozzo" alla moderna e classica mentalità del giovane Antonio Federighi cui fu richiesta la stima.
D. fu sepolto nella chiesa di S. Maurizio, oggi distrutta, dove il Pecci (1730) poté ancora vedere e disegnare la lapide sepolcrale di D. e degli eredi che portava inciso lo stemma di famiglia, raffigurante un uccello ad ali spiegate su un monte a cinque colli.
La sua attività di intarsiatore è ben documentata dal coro di palazzo pubblico, che resta l'unico suo lavoro del genere ancora intatto. Per le forme architettoniche, gli intagli fitomorfi e le decorazioni geometriche questo grande manufatto si dimostra legato alla tradizione trecentesca, così come le figurazioni nelle spalliere, che illustrano i versetti del Credo, sono la manifestazione di una cultura gotica ancora viva, anzi nuovamente infiammata da spericolati giochi calligrafici, da un'espressività asprigna e leziosa, perfettamente coerente con l'eleganza sofisticata con la quale Iacopo della Quercia immaginava le figure che animano la fonte Gaia nei disegni del Metropolitan Museum. di New York e del Victoria and Albert di Londra e premessa indispensabile per gli estenuati grafismi del giovane Giovanni di Paolo (Brandi, 1941).
Anche le due tavolette intarsiate, raffiguranti la Giustizia e la Vergine che affida Siena al potestà (Siena, Museo civico), congetturalmente riferite al Bernacchino dal Bacci (1927), si dovranno restituire a D., vista la perfetta identità stilistica e tecnica con le ventidue figurazioni del Credo. Caratteri simili a quelli delle scenette intarsiate tornano nelle Storie di David del pavimento del duomo.
Se per le tarsie D. resta maestro insuperato ed inconfrontabile, è la scultura lignea l'attività che lo pone a fianco degli amici Francesco di Valdambrino e Iacopo della Quercia, rispetto ai quali conserva più stretti legami con la cultura senese. Non avrà mancato comunque di confrontarsi con quanto producevano artisti non senesi. Dovette almeno conoscere Lorenzo Ghiberti, il quale - in una lettera del 16 apr. 1425 (Milanesi, 1854, II, p. 120 s.) - ricorda all'orafo senese Giovanni di Turino di salutargli "maestro Domenico che intagla di legname" e di chiedergli la restituzione di un repertorio decorativo ("le charte delli ucielli") che era rimasto nelle mani di Domenico.
Da quando il Bacci (1929) riconobbe i Dolenti del 1415 nelle due sculture di S. Pietro a Ovile numerose proposte attributive hanno formato un corpus eterogeneo (Carli, 1949; Brandi, 1949; Del Bravo, 1970; Carli, 1977), che è stato successivamente smembrato in due gruppi di cultura pienamente trecentesca (Guiducci, 1977; Bagnoli, 1982; Bartalini, 1987), uno dei quali si indica criticamente col nome di Maestro del Crocifisso dei Disciplinati, e l'altro si riferisce a Mariano d'Agnolo Romanelli.
Un più credibile catalogo di D. è stato ricostruito dal Previtali (1980), che ha dimostrato con le sole armi dell'esercizio filologico la possibilità di riunire in un nuovo gruppo stilisticamente omogeneo i due Dolenti e alcune sculture nelle quali si era creduto di poter riconoscere un'ipotetica attività del giovane Lorenzo Vecchietta, non ancora toccata dalle novità di Donatello (Carli, 1951; Del Bravo, 1970). A questo il caso della Madonna col Bambino di Istia d'Ombrone (parrocchiale) e del Cristo risorto (Siena, villa di Vicobello), che successive ricerche hanno permesso di identificare in quello pagato a D. nel 1442 (Bagnoli, 1987).
Le sculture del 1415 e quella del 1442 Costituiscono così due poli attrattivi grazie ai quali è possibile proporre un verosimile svolgimento dell'attività di D., cui si possono riferire ben 27 sculture lignee di grandi e medie dimensioni, oltre alle tre microfigure contenute nel lampadario della cappella di palazzo pubblico (Bagnoli, 1987).
Formatosi all'interno della cultura tardogotica, quindi attento alle qualità epidermiche e persino a minute notazioni realistiche, D. sembra operare all'inizio in perfetta sintonia con Taddeo di Bartolo, come prova ad esempio la somiglianza iconografica, stilistica e d'intonazione espressiva fra il volto della Madonna di Istia e quello dell'Assunta del grande polittico dipinto da Taddeo nel 1401 per il duomo di Montepulciano. Ma nella produzione verosimilmente successiva a quell'apice drammatico che sono i Dolenti di S. Pietro a Ovile si accentuano particolari interessi astrattivi, quasi che D. cercasse di trasporre in figurazioni tridimensionali le forti stilizzazioni e le sottigliezze grafiche delle immagini intarsiate nel coro di palazzo pubblico. I personaggi lignei così concepiti, con i volti giovanili e delicati o smagriti e rugosi, con le larghe campiture geometrizzanti delle vesti e le ritmate articolazioni delle pieghe, dimostrano di appartenere allo stesso ambito di gusto di quelle inconfondibili del tardo Sassetta, secondo l'illuminante notazione che Roberto Longhi -come ricorda Previtali (1980) - aveva oralmente espresso in relazione alla bellissima Annunciazione Contini Bonaccossi (Firenze, Gallerie statali): l'opera che segna il livello qualitativo più alto raggiunto da Domenico.
Anch'egli si dimostra perciò un campione di quell'esteso fenomeno di riaccensione gotica che tra la fine del quarto e il quinto decennio coinvolge il Sassetta, appunto, ma pure il suo sottile alter ego Pietro di Giovanni Ambrosi, Giovanni di Paolo e i maestri degli splendidi monocromi di S. Agostino a Monticiano.
Nel 1442 scolpendo il Cristo risorto D. riusci a dare forte e fiera manifestazione della propria cultura, dimostrando così di non venir toccato dalle novità rinascimentali, giunte a Siena grazie a Donatello e al giovane Vecchietta, nemmeno quando si trovò ad intagliare una figura di S. Bernardino (Firenze, collezione privata; cfr. Bagnoli, 1987, p. 106), cioè negli ultimissimi anni di vita, necessariamente dopo la morte dell'Albizzeschi (1444) e forse in occasione della sua canonizzazione (1450).
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