DOMENICO di Paris (detto Domenico del Cavallo)
Non si conoscono le date di nascita e di morte di questo scultore, originario di Monselice (prov. di Padova), attivo a Ferrara nella seconda metà del sec. XV. Con tutta verosimiglianza si trapiantò a Ferrara, a seguito del trasferimento della bottega dello scultore fiorentino Nicolò Baroncelli detto del Cavallo, tra la fine del 1442 e il 1443. Questi era cognato del D. (Gualandi, 1843), dal momento che nell'ottobre del 1442 Sposò Isabetta del fu Parisio da Monselice (Rigoni, 1926), e non suocero, come erroneamente è indicato in molta della precedente letteratura (Perkins, 1869; Medri, 1958) e anche nella biografia del Baroncelli in questo Diz. biografico degli Italiani (VI, pp. 440 s.; ma cfr. "erratacorrige", ibid., XXXV, p. 401). La correzione, che riduce verosimilmente lo stacco generazionale fra i due scultori, può anche implicare un diverso rapporto fra i due, nel senso che D., piuttosto che un diretto allievo del Baroncelli, può esserne stato un collaboratore meno subalterno, forse un associato.
Di fatto, finché era in vita il cognato, D. non emerge dai documenti. Il Baroncelli morì a Ferrara nell'ottobre del 1453, mentre era impegnato in due grosse imprese: il monumento al duca Borso d'Este, distrutto, e le cinque grandi statue in bronzo per la cattedrale. Fu D., in entrambi i casi, a portare a termine i lavori.
Nel primo, oltre che della messa in opera e delle finiture, si occupò, perlomeno, della fusione di quattro genietti reggistemma posti attorno alla figura del duca (Cittadella, 1868, I, p. 419; Agnelli, 1919). Nell'altro caso la documentazione trascritta dall'Antonelli (in Gualandi, 1843) richiede di essere ripercorsa e ordinata, ma è già chiaro a sufficienza che le statue furono gettate in bronzo dopo la morte del Baroncelli (prima dell'ottobre 1453 si era provveduto solo al diadema del Crocefisso). D. subentrò dunque alla guida della bottega, ereditando così il soprannome "del Cavallo". Il cavallo eponimo era quello del monumento a Niccolò III, al quale D. aveva evidentemente collaborato; ma quest'opera doveva appàrire un po' come un'insegna della bottega, se anche il figlio del Baroncelli fu detto "Zoanne, del Cavallo".
Giovanni Baroncelli è spesso associato a D. nella continuazione dei lavori avviati dal padre. Ma le responsabilità non dovettero essere paritarie. Quando compare in un pagamento per le statue della cattedrale, Giovanni non è neppure indicato come "maestro". E l'unica nota che lo nomina a proposito del monumento di Borso lo presenta come esattore a nome degli eredi del padre (Cittadella, 1868, I, p. 419). Del resto, è ad un lavoro di ricamo (Cittadella, 1868, I, p. 74) che si riferisce l'unica traccia dell'operosità del Baroncelli iunior, che a quelle date doveva essere ancora assai giovane.
D. è documentato a Ferrara per molti anni ancora, fino al 1502 (Manni, 1986, p. 96). Lavorò spesso per la corte ed ebbe competenze abbastanza differenziate. Nel 1461 fuse due grandi candelieri da camera per il duca (Venturi, 1885, p. 705). Nel 1465 gli venne pagata un'ancona in terracotta per la residenza ducale di Casaglia o per la vicina chiesa (ibid., p. 704). Risale al 1467, invece, la menzione d'archivio più importante (per quanto problematica: infra) ai fini della identificazione stilistica di Domenico. Il 3 aprile di quell'anno s'impegnava ad eseguire, in quanto "intarsiator lignaminis", il soffitto della "camere superioris" nella residenza di Schifanoia. Contestualmente, il pittore Buongiovanni di Geminiano veniva incaricato di dipingere la decorazione composta, oltre che di parti lignee, "de bono pastumo et bono stucho" (Cittadella, 1868, I, p. 704). Nel 1472 fuse un Ercole in piombo da collocarsi in cima al padiglione del giardino ducale, presso la certosa (ibid., p. 419 n.2). Nel 1490, quando si allesti il corredo di nozze di Isabella d'Este, lavorò i manici di due grandi cassoni dipinti da Ercole de' Roberti (Venturi, 1888). Anche al di fuori della corte ebbe competenze di varia natura. In uno stesso anno, il 1492, fu impegnato a fornire a Melchiorre da Faenza modelli per vasi di maiolica (Campori, 1879) e a realizzare un modello in legno del campanile del duomo, utile a fare il punto su quanto era stato costruito e su quanto rimaneva da fare (Cittadella, 1868, I, p. 101). Poco dopo fuse sessanta lettere e sedici punti destinati a formare un'iscrizione per il medesimo campanile. Di tale varietà di competenze sono indicative anche due notizie, trasmesse senza referenze archivistiche e cronologiche, relative a due leoni in marmo per l'altar maggiore della cattedrale (Cicognara, 1816) e a "quaranta quadruni sulla sufitta" della Compagnia della morte (Cittadella, 1868, II, p. 21; ma si veda l'accenno dubbioso di Medri, 1958, p. 53).
La fisionomia artistica di D. si stringe attorno a due nodi problematici. Le statue della cattedrale pongono la questione della spartizione di competenze con il Baroncelli, della relazione fra i due scultori, e dunque delle radici culturali di Domenico. Attorno alla sala degli stucchi di Schifanoia, di consuetudine connessa col contratto del 1467, sono invece aggregate quelle numerose, ma nel complesso contraddittorie, attribuzioni che formano la corrente immagine critica di D.: i due problemi intersecano quello, ancora labile, dello svolgimento della sua personalità. A tale riguardo, occorre partire da una banale precisazione: l'indicazione del 1466 come momento conclusivo delle sculture della cattedrale risale ad un errore di stampa del Gualandi (1843, pp. 37 s.) quasi mai emendato in 1456 (Armstrong, 1963). Viene così eliminata una poco comprensibile collimazione temporale con il momento stilistico di Schifanoia.
Questa sovrapposizione potrebbe aver contribuito a minirnizzare il ruolo di D. nelle cinque statue della cattedrale, o, talvolta, a cancellarlo dalla memoria. Tuttavia non ha fondamento nella documentazione nota la distinzione di mani spesso ricorrente: Scalabrini (1773) e Cicognara (1816) danno il S. Giorgio a D. mentre Cittadella e Venturi sono i primi a riferirgli il S. Giorgio e il S. Maurelio. Non sembra comunque opportuno cercar d'individuare due poli di stile in cui riconoscere Baroncelli e Domenico. Occorre infatti tenere presenti l'incidenza notevole degli interventi postfusori, che caratterizzano preziosamente (e certo sotto la responsabilità di D.) la variatissima tessitura della superficie metallica, e la continuità espressiva della medesima bottega. La possibilità d'isolare al suo interno un polo baroncelliano è compromessa, oltretutto, dalla sensibile trasformazione dello scultore fiorentino rispetto ai suoi esordi padovani. Tale trasformazione si spiega ovviamente con Donatello, a Padova dal 1443, ed implica dunque una continuità di rapporti della bottega ferrarese con la città di provenienza. In tali rapporti il più giovane D. potrebbe avere avuto un ruolo attivo, non marginale. Le sculture del Santo non sono comunque il riferimento esclusivo; né è giusto farne il metro di apprezzamento per le statue di Ferrara. Il calibro più dolcemente geometrico di alcuni visi, la più diretta presenza "naturale" delle figure, il senso pittorico della frantumazione dei piani e delle minutezze mostrano collegamenti con il contemporaneo altare del Pizzolo agli Eremitani. Rispetto a Donatello, permane a Ferrara un intento meno preordinato della forma, che addensa le masse nei panneggi e trova solenni irregolarità di simmetria. Per tali ragioni, e in rapporto proprio a quest'opera, sarebbe bene approfondire un accenno di Pope-Hennessy (1964, p. 344) sul possibile ruolo avuto da D. nella fase di avvio di Niccolò dell'Arca.
Nella finitura del bronzo, poi, D. tocca un'enfasi materica che deve aver contribuito al formarsi di quel gusto che sarà tipico dei pittori ferraresi. Le Virtù della sala degli stucchi a Schifanoia, tuttavia, offrono un confronto imperfetto con l'ispido ideale del Tura, perché D., superata ormai la sintesi statuaria di Donatello, si volge ad un flusso plastico più addolcito.
Il riferimento a D. della sala degli stucchi, ovvio e sicuro da quando venne pubblicato il documento del 1467, è stato recentemente messo in questione da Rosenberg (1974, pp. 177-180), il quale ha evidenziato alcune incoerenze (nel documento non si accenna al fregio, ma solo al soffitto; si prevede di coprire una superficie superiore a quella della sala superstite; D. riceve pagamenti esigui per lavori di figura), ma accenna poi ad un consenso su base stilistica. Il rimando fra opera e documento è indebolito. Comunque, in un contesto di lacerazioni e d'impossibili riscontri, non svanisce del tutto. Svanisce semmai-, il punto fermo della cronologia. Considerando la data del 1467, in base ai pochissimi paragoni consentiti. il soffitto ligneo sembrerebbe presentare soluzioni abbastanza precoci. Ma non ci sono radicali incoerenze di stile, né intervalli abissali, a risalire dalle Virtù alle statue della cattedrale, in particolare al S.Giorgio, schiuso in un'articolazione di assi intimamente affine alle figure di Schifanoia. Anche nella sala degli stucchi si confermano le radici lessicali padovane: nel motivo dei festoni combinati a putti, come nei profili angolari di questi (tanto che D. può sembrare una specie di Marco Zoppo della scultura, aldilà della derivazione - per niente vincolante - sostenuta dalla Annstrong, 1963); mentre le Virtù sembrano accostarsi, senza raggiungerne l'essenzialità bellissima, e insistendo anzi su svolgimenti più dipanati, alla Madonna in terracotta di S.Giustina a Padova, che mostra un simile, magari indiretto, filtro di fatti fiorentini, in certo modo già alternativi a Donatello.
Privo di opere firmate, e quindi senza fortuna guidistica ( a parte la prima traccia di Scalabrini), D. riemerge con gli scavi d'archivio del secolo scorso, per dilatarsi con la connoisseurship novecentesca. In un terreno poco conosciuto come quello della scultura emiliana, e in particolare ferrarese, il nome di D. serve spesso da comodo, talvolta decisamente generico, punto di riferimento. Ma proprio alcune attribuzioni esplicite andrebbero riesaminate con cautela. Fra di esse, quella decisamente ben fondata riguarda la Madonna col Bambino proveniente da S. Luca a Ferrara, oggi al Museo di Schifanoia, per la quale è stata suggerita (Riccomini, 1973) una data dopo il 1462, e che è molto vicina, comunque, alla sala degli stucchi. Con un diverso grado di probabilità, rimangono sostanzialmente possibili le attribuzioni della Madonna adorante il Bambino di Berlino (Bode Museum) e del più corsivo stucco della collezione Massari (Venturi, 1904). Un modello del tardo D. si potrebbe forse ipotizzare all'origine di due Madonne assai simili a Costa di Rovigo (Ragghianti, 1965) e in S. Gregorio di Ferrara (Medri, 1967). Talvolta, si è detto, il nome del D. è stato fatto per ragioni di semplice orientamento: in maniera efficace, per definire situazioni che sfumano fra Ferrara e Padova (j. Pope-Hennessy, Catal. of Ital. sculpt. in the Victoria and Albert Museum, London 1964, p. 313), o forse anche verso l'area padana più centrale (j.-R. Gaborit, Nouvelles acquisitions. Musée du Louvre, in Revue du Louvre, XXII [1972], pp. 35 s.), assai meno opportuno in altre.
Non vanno attribuite a D. le seguenti opere: il fregio di S.Francesco a Ferrara (Venturi, 1908, p. 474), la Pietà ex Ventura (R. van Marle, Two Ferrarese woodcarvings, in Apollo, XXI [1935], pp. 12 s.), il rilievo Jacquemart André (F. de la Moureyre-Gavoty, Scuipture italienne, Paris 1975, n.84), le due Madonne berlinesi riferite a D. da S. Bettini (B. Bellano, in Rivista d'arte, XIII [1931], p. 60) e C. Gnudi (Niccolò dell'Arca, Torino 1942, p. 75), le due statue della Pinacoteca comunale di Argenta (Musei ferraresi, V-VI [1975-76], p. 283), la Madonna pubblicata da E.W. Braun (Eine Sammlung italienischen Skulpturen in Wien, in Belvedere, I [1922], pp. 41 ss.) e F. Malaguzzi Valeri (Sculture del Rinascimento a Bologna, in Dedalo, III [1922-23], 2, pp. 371 s.), il rilievo già pubblicato da P. Schubring (Zwei Madonnenreliefs..., in Der Cicerone, XVIII [1926], pp. 566-570), nel Museo di palazzo Venezia a Roma (A. Santangelo, Catal. delle sculture, Roma 1954, p. 19, lo indica come una falsificazione della fine del sec. XIX), una Madonna con Bambino, in terracotta policroma a Ferrara nel Museo di Schifanoia (cfr. Palazzo Schifanoia, Donazioni e restauri, Ferrara 1979, pp. 18 s.; ma vedi Medri, 1958, p. 18).
Fonti e Bibl.: G. A. Scalabrini, Mem. stor. delle chiese di Ferrara e dei suoi borghi, Ferrara 1773, p. 10; L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, II, Venezia 1816, p. 190; S. Ticozzi, Diz. degli architetti, scultori, pittori, III, Milano 1832, p. 100; M. Gualandi, Memorie originali ital. risguardanti le belle arti, IV, Bologna 1843, pp. 35-38, 41, 48 n. 12 (anche in estratto come Lettera dell'ab. Giuseppe Antonelli bibliotecario di Ferrara al suo amico Michelangelo Gualandi, sopra le statue in bronzo della cattedrale di Ferrara, Bologna 1844); N.L. Cittadella, Indice manuale delle cose più rimarcabili in pittura, scultura, archit. della città e borghi di Ferrara, Ferrara 1844, p. 32; N. Pietrucci, Biografia degli artisti padovani, Padova 1858, p. 215; L. N. 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