CANUTI, Domenico Maria
Figlio di Luca e di una Santina, nacque a Bologna il 5 apr. 1626; sua sorella Giulia, pure pittrice, sposò Domenico Maria Bonaveri: fu madre di Domenico, Carlo e Luca Bonaveri tutti artisti. La biografia del C., già ricostruita dalla Feinblatt (1952), è completata dalle precisazioni anagrafiche della Arfelli nelle sue note agli importanti Appunti del Malvasia. Finita la scuola di grammatica, il C. venne posto a bottega da un orefice, ma per intolleranza fisica al mestiere vi resistette ben poco tempo e da una zia - Giacinta Canuti, oblata nel monastero di S. Cristina - fu messo ad imparar disegno da Giovan Battista Bertusi, con il quale rimase due o tre anni. Successivamente il conte Roderico Pepoli lo introdusse prima nello studio dell'Albani e poi in quello del Reni, dove il C. lavorò sino alla morte del maestro nel 1642. Dopo qualche tempo si risolse ad entrare nello studio di G. A. Sirani, e qui si distinse tra gli altri allievi divenendo nel '43 principe dell'Accademia del disegno degli Indistinti. Avendo suscitato la gelosia del Sirani, uscì dallo studio e lavorò per un po' di tempo da solo. Alla fine del 1646 o, al più tardi, ai primissimi dell'anno seguente, per diretto intervento dell'abate olivetano Taddeo Pepoli, il C. andò a Roma, ove ebbe stretti contatti con il Lanfranco e l'Algardi. Si trattenne a Roma almeno sino al 18 dic. 1651, data in cui la sua presenza è testimoniata da una lettera di Taddeo Pepoli (Zurzolo, p. 31). Dopo il 1651 si può datare la tela con S. Cecilia nella chiesa di S. Maria di Valverde ad Imola; ma la sua prova più antica rimastaci è costituita, forse, dai due affreschi per la tribuna di S. Francesca Romana a Roma con il Martirio di due sante, menzionati dal Titi nel 1674 (p. 227: vedi anche L. Mortari, Mostra dei restauri 1969, Roma, 1970, pp. 28 s.).
Ritornato a Bologna, il C. avrebbe dipinto nel 1655 una colonna funebre per Bartolomeo Massari, oggi perduta ma citata dal Malpighi; il 25 febbr. 1657, secondo gli estremi riportati dal Crespi, firmava il contratto per un quadro con il Giudizio finale e due laterali con le Beate Margherita e Beatrice per la chiesa di S. Girolamo alla Certosa. Nel 1659, insieme con il quadraturista D. Santi detto il Mengazzino, il C. fu incaricato dai monaci di S. Michele in Bosco di affrescare l'arcone trionfale (Cacciata dei demoni), le arcate delle quattro cappelle laterali (otto Angeli) e i sei riquadri dei finti finestroni alle pareti laterali (sei Santi domenicani) della chiesa (Zurzolo).
L'influenza dell'ambiente culturale romano assorbito dal C. nel suo primo viaggio è evidente nell'immensa tela del Giudizio finale, "primo esperimento barocco realizzato ancora su premesse tutte registrabili in Emilia" (Volpe); la macchia lanfranchiana, i ricordi del Preti modenese si compongono in una scioltezza di invenzioni e in una tumultuosità che si accentueranno nella Cacciata dei demoni, ove il senso ossessivo del movimento è esaltato dall'incredibile bravura dello scorcio, pur rimanendo costanti i legami con L. Carracci attraverso i ricordi del Guercino e del Cavedoni. Evidenti legami cromatici con opere venete si notano nella Notte, dipinto ad olio su muro per la chiesa di S. Michele in Bosco datato erroneamente dal Crespi al 1687, e già citato nel documento sul restauro generale della chiesa degli anni 1658-60.
Una lettera dello scultore F. Agnesini al conte di Novellara, datata 18 ag. 1662 (G. Campori, Memorie biografiche..., Modena 1873, p. 5), informa di un soggiorno mantovano del C. intento ad alcuni affreschi a Marmirolo per conto del duca, e lascia intravedere la possibilità che il pittore avesse già lavorato anche per il conte di Novellara. Dopo un certo periodo di tempo il C. si spostò a Padova dove dipinse per la chiesa di S. Benedetto Novello una serie di sei tele illustranti la Vita di s. Bernardo Tolomei, come ricordano il Crespi e il Malvasia. Quest'ultimo scrive che il C. aveva già dipinto a Bologna il quadro per l'altare maggiore con S.Bernardo che riceve la regola dalla Vergine e che i sette quadri erano compiuti, ma non ancora messi in opera, nel maggio del 1664, quando li aveva visti a Padova; e osserva che, dopo la conoscenza fatta dell'arte veneta, il pittore aveva "alzato di colorito" anche il primo quadro bolognese. Dopo un intervallo documentato dai medaglioni affrescati nello scalone di palazzo Pepoli (Taddeo Pepolieletto principe e Taddeo Pepoli confermato vicario apostolico), che il Malvasia (p. 28) vide finiti a Bologna nel marzo 1665, il C. ritornò a Padova e vi dovette rimanere almeno sino al 12 dic. 1666, se in questa data una lettera del cardinale Farnese (Crespi, p. 114) lo invitava a lasciare Padova onde completare i lavori iniziati per il duca di Mantova.
Del primo o del secondo soggiorno mantovano potrebbe essere l'Apparizionedi Gesù a s. Teresa, tela nella chiesa di S. Teresa a Mantova, di cui esiste un'incisione di Domenico Bonaveri nipote del C. con la frase a piè di foglio "cose delineate dal dotto pennello di D.M.C. mio reverito maestro" (Bologna, Pinacoteca, Coll. Dis. Stampe, inv. 4882). Allo stesso momento appartengono le due tele con l'Angelocustode e S. Tommaso d'Aquino nella chiesa di S. Pietro a Mantova. Della serie di quadri padovani, che furono trasferiti dopo il 1797 nella chiesa di S. Stefano a Padova, sono state recuperate solo due tele attualmente al Museo civico di Padova, S. Bernardo che comunica gli appestati e S. Bernardo chesoccorre gli operai dalle macerie. Nell'impasto cromatico delle due opere si fa sentire l'influenza della scuola veronesiana e tintorettiana mentre continuano le citazioni bolognesi, anche se rinnovate dai presupposti barocchi. Alla seconda metà del settimo decennio si può collocare la Flagellazione, tela in collezione privata pubblicata dal Volpe (1959), che vi coglie spunti rubensiani, e alla fine dello stesso decennio la Supplica di s. Teresa nella chiesa di S. Maria degli Alemanni di Bologna.
Nel 1668 il C. era a Bologna intento ad affrescare due puttini in palazzo Fava (Crespi), ora perduti. Il 13 dic. 1670 scriveva ad Odoardo Pepoli annunciando il prossimo completamento del lavoro che stava facendo nel suo palazzo; il documento (Feinblatt, 1952, p. 57) convalida la datazione anticipata degli affreschi nella volta di palazzo Pepoli, tanto più che nel Diario di A. Fava alla data 10 maggio 1669 è annotato che il C. stava lavorando ad un salone in casa Pepoli (Arfelli, in Malvasia, p. 34 n. 69). Nel 1671 era già terminato il Transito di s. Benedetto, ora nella Pinacoteca di Bologna, che il Malvasia vide esposto per la prima volta il 21 dicembre sotto il portico di S. Pietro; questa tela, fatta per la chiesa di S. Margherita, è firmata e ha una data illegibile tradizionalmente interpretata 1667. Il 4 aprile del 1672 l'artista partiva per Roma, secondo le note del Fava e del Malvasia (p. 33 e nota 66): quest'ultimo specifica che vi fu chiamato dai Mattei per dipingere due grandi quadri che non si sa se furono veramente eseguiti. Il 23 luglio scriveva a Gian Gioseffo Santi, suo cognato, informandolo che aveva già cominciato a lavorare per Lorenzo Onofrio Colonna; il 4 settembre veniva fatto accademico di S. Luca, e il 17 dicembre scriveva ad Odoardo Pepoli dicendo di avere finito il lavoro per il Colonna e di averne cominciato un altro insieme con E. Haffner, quadraturista che lo aveva seguito a Roma (Feinblatt, 1952, p. 47). Nel 1674 i due iniziarono gli affreschi per la volta di SS. Domenico e Sisto, giusta la testimonianza delle ricevute di pagamento datate dal 10 marzo (Ontini, pp. 96 s.). I lavori furono terminati il 10 ag. 1675 come è documentato dal Barb. lat. 6380 della Biblioteca Vaticana. Il 7 dicembre il C. annunciava il completamento delle pitture di SS. Domenico e Sisto al conte Odoardo Pepoli, al quale comunicava altresì l'inizio di un affresco in palazzo Altieri ed esprimeva il desiderio di tornare quanto prima a Bologna. Nel 1676 è ancora a Roma (G. Bottari, Raccolta di lettere..., II, Roma 1757, pp. 389 s.); il 20 giugno 1677 il C. e Haffner, tornati da Roma, intrapresero la decorazione della libreria del convento di S. Michele in Bosco. I lavori furono terminati il 19 sett. 1680, secondo la data dei pagamenti ai due pittori (Arch. di Stato di Bologna, Arch. Oliv.di S. Michek in Bosco,Libro Contenentespese..., n. 11). Il 16 dic. 1682 affrescava la cupoletta della chiesa di S. Michele in Bosco. L'opera venne portata a termine, secondo il Crespi, il 23 marzo 1684, poco prima, a detta del Malvasia, aveva dipinto anche il catino della stessa chiesa.
Con gli affreschi del salone di palazzo Pepoli (Rappresentazione dell'Olimpo e allegorie varie tra ornati architettonici del Mengazzino) comincia la grande vicenda del C. che contemporaneamente o poco dopo lavora con lo stesso quadraturista anche al Trionfo di Bacco e Arianna in palazzo Calzolari (già Fibbia) a Bologna. Libero di dar corso alla sua vena di frescante, trova nuove soluzioni che vanno al di là della stanca accademia del Colonna e delle citazioni cortonesche e che lo pongono sulla scena artistica comprimario di Giovan Battista Gaulli. Nel momento degli affreschi romani, della tribuna e della volta della chiesa di SS. Domenico e Sisto (Estasi e apoteosi di s. Domenico) si puntualizza il problema dei rapporti intercorsi tra i due, poiché il Gaulli aveva iniziato la cupola del Gesù a Roma nel 1674, poco prima del C., ma l'aveva terminata molto tempo dopo, nel 1679. È stata così affacciata l'ipotesi da parte della Feinblatt che il Gaulli potesse aver visto gli affreschi di palazzo Pepoli, ancora in corso di esecuzione, durante il suo viaggio a Parma tra il marzo e il giugno del '69. Ma sembra più plausibile l'ipotesi di Roli (1971, pp. 241 s.) che propone negli affreschi del Correggio un comune antecedente al C. e al Gaulli che sarebbero così entrambi tributari alla cupola del duomo di Parma e al Lanfranco di S. Andrea della Valle e di S. Carlo ai Catinari. Quanto agli affreschi che il C. avrebbe fatto in palazzo Colonna, allo stato attuale degli studi è ancora difficile identificarli. Nel Marcantonio Colonnache riceve un omaggio dadue orientali la Feinblatt (1952, pp. 47 s.) trova forti analogie con un ovale di palazzo Pepoli che a sua volta si richiamerebbe all'Apoteosidi Romolo in palazzo Altieri a Roma, con la quadratura di Haffner, opera già attribuita al Berrettoni e al Maratta. Agli anni romani tra il '72 e '74 apparterrebbe anche il S. Bernardo Tolomeiorante, tela nella chiesa di S. Francesca Romana in Roma.
Nella vasta impresa bolognese di S. Michele in Bosco si delinea ancora quello che il barocco era per il C.: nelle tre stanze della libreria, alla visione tumultuosa, anche se di tono minore rispetto agli affreschi Pepoli, delle volte fanno riscontro, nelle allegorie dei pennacchi e dei lunettoni, "temi prospettico-monumentali da Tibaldi a Ludovico, alternati a luminose riprese tra rubensiane e cortonesche" (Calvesi).
I soggetti degli affreschi furono dati al pittore da Taddeo Pepoli secondo un erudito programma (pubblicato in occasione dell'inaugurazione), che comprendeva anche la serie dei trionfi affrescati nella chiesa (Trionfo dell'Immacolata sulla colpaoriginale nel catino, Trionfo della verità eterna sugli errori mondani nella cupola, e Trionfo del Bene sul Male o Cacciata dei demoni precedentemente dipinto nell'arcone).
Mentre il C. lavorava alla libreria potrebbe aver affrescato Gioveche affida Bacco a Mercurio nel soffitto di palazzo Marescotti, attribuitogli dalla Feinblatt (1961, pp. 262 ss.), anche sulla base di un manoscritto bolognese. Allo stesso periodo risale la tela con il Martirio di s. Cristina nella chiesa omonima di Bologna.
In cattive condizioni di salute fin dal ritorno da Roma, il 4 aprile 1684 il C., ormai moribondo, dettava il testamento e spirava due giorni dopo (cfr. Arfelli, in Malvasia, 1961, p. 13, nota 1).
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