MICHIEL, Domenico
– Nacque nella seconda metà dell’XI secolo presumibilmente a Venezia.
Fu forse figlio di Giovanni, comandante della flotta inviata in Terrasanta nel 1100, in tardivo appoggio dei partecipanti alla prima crociata, e nipote del doge Vitale (I). L’ascendenza non è però certa. In un atto notarile del 1104 compare infatti un Domenico Michiel, figlio di Pietro, residente nella parrocchia di S. Cassiano. In alcuni documenti del 1151 e 1160 Leachim, figlio del M., è ricordato come abitante anch’egli a S. Cassiano. La comunanza di residenza parrebbe rendere plausibile l’identificazione del Domenico Michiel del 1104 con il M., che sarebbe quindi figlio di Pietro e non di Giovanni di Vitale. Fra i contemporanei vi furono inoltre almeno due omonimi: un vicedoge che, con Leachim, governò Venezia nel triennio 1122-25, durante l’assenza del M., e un giudice che compare nel 1125, con lo stesso M. e un altro Michiel, Giovanni, pure egli giudice, come sottoscrittore di un atto con il quale l’abate del monastero della Ss. Trinità di Brondolo riconosceva i diritti dei figli del giudice Andrea Michiel (fra i quali era un altro Domenico) su una proprietà ritornata al monastero dopo la morte del loro padre. In base a questi elementi, non risulta pertanto possibile individuare con sicurezza il ramo dei Michiel al quale apparteneva il M. né ricostruire le sue vicende nei documenti anteriori al momento dell’elezione a doge.
Quasi sicuramente il M. prese parte alla campagna intrapresa nel 1116 dal doge Ordelaffo Falier per sottrarre la Dalmazia al dominio ungherese, ed è riconoscibile nel Domenico Michiel presente alla concessione di un privilegio (di solito erroneamente datato al 1118) da parte del doge alla Comunità di Arbe. Quando poi il Falier, a fine 1116 o inizio 1117, fu ucciso dai nemici, il M. gli subentrò nella carica.
A differenza del predecessore, preferì concludere la campagna, che forse aveva raggiunto i suoi scopi, sviluppando un’azione diplomatica per ristabilire normali relazioni con il Regno d’Ungheria che portò a una tregua che fu rispettata per cinque anni e lasciò ai Veneziani il possesso di Zara, delle grandi isole del Quarnaro e forse anche delle altre città dalmate, al punto che il M. poté mantenere il titolo di «duca di Croazia» assunto già dal Falier.
Nel frattempo, in Terrasanta, il 28 giugno 1119 l’esercito del Principato di Antiochia era stato sconfitto dai Musulmani. Il re di Gerusalemme Baldovino II e il patriarca gerosolimitano sollecitarono allora aiuti al papa e alla Cristianità, inviando nel 1120 ambasciatori anche a Venezia.
Il M. aderì alla richiesta, volendo rafforzare la presenza veneziana in Terrasanta – in quel momento più debole di quella dei rivali genovesi e pisani che, a differenza di Venezia, avevano aderito dall’inizio alla crociata, ricavandone vantaggi commerciali – sollecitato da una lettera di papa Callisto II che, secondo il cronista Andrea Dandolo, il M. e il patriarca di Grado lessero solennemente in un’assemblea cittadina in S. Marco.
Prima di approntare la spedizione di soccorso era però necessario chiarire l’atteggiamento che avrebbe assunto l’Impero bizantino di fronte all’iniziativa veneziana, dopo il formarsi di nuovi campi d’azione con la creazione degli Stati franchi in Siria e Palestina e l’apertura alla presenza in Romania di Pisani e Genovesi durante gli ultimi anni di governo di Alessio I Comneno. Già nel 1118, morto quest’ultimo, il M. si era rivolto al nuovo imperatore, Giovanni II, per chiedere il rinnovo degli ampi privilegi concessi ai Veneziani da Alessio nel 1082 nell’ambito dell’Impero: l’ambasciatore Andrea Michiel era stato accolto benevolmente e qualificato come imperialis protonobilissimus (mentre il M. ebbe il titolo di imperialis protosevastus) ma non riuscì nel suo intento. Le trattative proseguirono anche l’anno successivo, ma Giovanni II respinse le richieste avanzate dagli inviati del doge.
Nel 1120 il M. ordinò a tutti i Veneziani presenti nell’Impero e altrove di rientrare a Venezia entro la Pasqua dell’anno successivo (10 apr. 1121). L’ordine aveva il duplice intento di poter disporre di quanti più uomini per la spedizione in soccorso dei crociati, ma, al tempo stesso, di lasciare nell’Impero il minor numero di possibili ostaggi dei Bizantini, in caso di conflitto aperto. In vista della spedizione, il M., per garantire sicura navigazione nell’Adriatico, nel maggio 1122 stipulò con i Baresi un patto che assicurava la reciproca garanzia di incolumità delle persone e delle cose e la repressione di ogni tentativo di offesa e danno fra cittadini delle due parti.
Nell’agosto 1122 la flotta iniziò la sua missione, guidata personalmente dal M., che aveva affidato il governo della città, come vicedogi, al figlio Leachim e a un suo omonimo, non legato, parrebbe, a lui da vincoli di parentela. L’imperatore Giovanni sospese allora i privilegi veneziani. In risposta, la flotta veneta attaccò Corfù, il cui capoluogo però resistette, costringendo i Veneziani a un lungo assedio; ma nella primavera seguente giunse la notizia che lo stesso Baldovino II era caduto prigioniero dei musulmani; l’assedio fu sospeso e la flotta riprese la rotta originaria. Il 30 maggio 1123 i Veneziani riportarono al largo di Ascalona una brillante vittoria su una squadra navale egiziana inviata dal sultano in appoggio alle truppe che assediavano Giaffa. Subito dopo gli equipaggi scesero a terra e, con le truppe crociate, liberarono la città dal blocco. La vittoria fu un grande successo tattico, perché agevolò le comunicazioni con l’Europa, garantendo la sicurezza della costa meridionale palestinese.
A questo punto, fra Veneziani e crociati si aprirono discussioni, durate alcuni mesi, sul successivo impiego bellico delle forze congiunte. I due possibili obiettivi erano le ultime importanti piazzeforti costiere in mano ai musulmani: Ascalona, all’estremo Sud, vicino alla frontiera egiziana, e Tiro, più potentemente difesa, a Nord. Secondo il racconto di Guglielmo di Tiro, la scelta finale sarebbe stata affidata alla sorte, che premiò le aspettative veneziane, in quanto la prescelta, Tiro, era un porto ben più attivo di Ascalona, terminale di una strada carovaniera che conduceva dal Golfo Persico al Mediterraneo, nonché abbastanza lontana dall’Egitto da non creare problemi ai traffici con Alessandria che, dopo l’interruzione dei commerci con Costantinopoli, a seguito dei contrasti con Giovanni II, era in quel momento la più importante piazza commerciale del Mediterraneo orientale frequentata dai Veneziani.
Le promesse dei responsabili del Regno crociato si concretizzarono alla fine del 1123 – dopo che il M., lasciata la flotta alla fonda ad Acri, dopo aver catturato durante la navigazione alcune navi mercantili saracene cariche di merci pregiate, si era trasferito a Gerusalemme, assistendovi alle funzioni natalizie – nella redazione di un atto di fondamentale importanza, conosciuto come pactum Warmundi, dal nome del patriarca di Gerusalemme, Gormond, che agiva a nome del re Baldovino, ancora prigioniero dei Saraceni.
Il patto prevedeva la concessione ai Veneziani di un apposito quartiere (comprendente abitazioni, un bagno, una chiesa, un forno, un mercato, una strada) in ogni città del Regno, l’esenzione da alcune tasse o la loro riduzione, il diritto di utilizzare i loro pesi e misure e di giudicare i propri cittadini (compresi i casi in cui fossero coinvolti stranieri), sottraendoli alla giustizia regia. I medesimi privilegi erano estesi anche al territorio di Antiochia. Inoltre era promessa la concessione di un terzo delle città di Tiro e di Ascalona, se fossero state conquistate, e dei loro rispettivi territori. Il patriarca e i baroni del Regno si impegnavano a far confermare il patto dal re non appena fosse stato liberato, come infatti avvenne quando, il 2 maggio 1125, Baldovino II rilasciò un privilegio di conferma di quanto stabilito nel pactum. Il trattato, cui Venezia fece più volte riferimento in seguito, sanciva così la nascita di veri e propri stanziamenti veneziani all’interno del Regno crociato, i cui rapporti con le autorità locali, come pure con le altre colonie delle città italiane, furono in seguito variamente regolamentati e oggetto in alcune circostanze di aspri scontri.
Regolati così gli impegni con i crociati, la flotta veneziana uscì da Acri il 15 febbr. 1124, risalì la costa siriana e iniziò l’assedio di Tiro; ai primi di luglio i musulmani si arresero in cambio della vita. La gioia per la vittoria fu tale che, secondo una notizia, peraltro poco attendibile, riportata dalla duecentesca Historia ducum Veneticorum, al M. sarebbe stata offerta la corona del Regno al posto di Baldovino II che si disperava potesse tornare in libertà.
Esaurito l’impegno militare in Terrasanta, il ritorno in patria della flotta comandata dal M. non fu tranquillo.
Risalite le coste della Siria e dell’Asia Minore, i Veneziani approdarono a Rodi, riaprendo il conflitto iniziato due anni prima con l’attacco a Corfù. Il M., prendendo a pretesto il rifiuto bizantino di rifornire le sue navi, mise a sacco il capoluogo dell’isola, poi penetrò nell’Egeo, facendo subire la medesima sorte ad altre isole, fra le quali Chio (dove la flotta trascorse l’inverno 1124-25 e dove furono trafugate le reliquie di s. Isidoro), Samo, Lesbo e Andro. I Veneziani saccheggiarono quindi Modone all’estremità Sud del Peloponneso e poi rientrarono in Adriatico, dove nel frattempo gli Ungheresi, rotta la tregua, erano tornati in forze in Dalmazia. La reazione del M. fu immediata: costrinse i Magiari a lasciare Traù e Spalato, li sconfisse presso Belgrado in Dalmazia, che fu distrutta dalle fondamenta, e celebrò con un solenne Te Deum la vittoria a Zara, che non era stata occupata.
Infine la flotta rientrò in patria nel giugno 1125, recando un enorme bottino e molti ostaggi dalmati e ungheresi. Nel 1126 un’altra squadra fu inviata contro l’Impero bizantino, ad attaccare le isole dello Ionio, in particolare Cefalonia, da cui fu riportato a Venezia il corpo di s. Donato. Dopo questo episodio Giovanni II, constatato che il blocco dei commerci danneggiava gli interessi bizantini quanto quelli veneziani, fece sapere al M. di essere disposto a scendere a patti.
Nell’estate un’ambasceria veneta raggiunse Costantinopoli e in agosto l’imperatore rinnovò il trattato con Venezia, confermando i privilegi accordati dal suo predecessore e aggiungendovi in più l’esenzione dalla tassa del comerclum per i suoi sudditi che commerciavano con i Veneziani. È probabile che Venezia si assumesse a sua volta alcuni obblighi, anche di natura militare, verso l’Impero, di cui non conosciamo però la natura, perché ci è pervenuto solo il testo contenente gli impegni da parte bizantina. Ciò giustificherebbe l’affermazione del Dandolo, secondo il quale, nel 1127, a trattato ormai in vigore, il M. avrebbe inviato galee a protezione dei naviganti nel Mediterraneo.
Gli ultimi anni di governo del M., dopo tanti successi, non registrano avvenimenti degni di ricordo. Tra fine 1129 e inizio 1130 egli rinunciò al dogado e si ritirò a Venezia nel monastero di S. Giorgio Maggiore, dove morì, e fu sepolto nella chiesa annessa. La data di morte non è certa, perché l’epitaffio sulla sua tomba, distrutta nel secolo XVI, ricordato dalla Venetiarum historia della metà del Trecento, lo indicherebbe come defunto nel 1129 mentre il suo successore, il genero Pietro Polani, è attestato a partire dal maggio 1130.
Il M., che l’epitaffio definiva «terrore dei Greci, lode di Venezia, eroico conquistatore di Tiro, autore di rovina della Siria infedele e di pianto per l’Ungheria», avrebbe avuto per moglie Vita, di cui conosciamo l’esistenza solo grazie alla testimonianza di Dandolo, una figlia, Adelasa, che sposò il successore del M., e un figlio, Leachim (il cui nome di battesimo costituisce un anagramma quasi perfetto del cognome Michael), che risulta scomparso prima del 1151, lasciando numerosa discendenza.
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M. Pozza