RIVERA, Domenico
RIVERA, Domenico. – Nacque il 3 dicembre 1671 a Urbino da Giovancarlo, giureconsulto, e da Cinzia Fazzini. Apparteneva a una famiglia nobile di un certo rilievo, originaria de L’Aquila, radicatasi a Urbino negli anni Trenta del Seicento. Studiò a Bologna, nel collegio aristocratico di S. Francesco Saverio, amministrato dai gesuiti. Si laureò poi a Urbino in diritto civile e canonico. Negli anni Novanta si trasferì a Roma per intraprendere una carriera prelatizia e venne nominato coadiutore di Raffaello Fabretti, insigne erudito che gestiva gli archivi di Castel S. Angelo, dal quale acquisì una buona competenza di archivistica e antiquaria di cui poté giovarsi quando, nel 1700, ereditò la carica di archivista.
Nel 1700 l’elezione al papato del suo conterraneo Clemente XI aprì a Rivera ulteriori possibilità. A questa data egli era già ben inserito nel mondo politico-culturale romano, soprattutto in virtù di doti letterarie e antiquarie che furono apprezzate anche da Scipione Maffei. Come molti altri prelati dell’entourage di Clemente XI, partecipò assiduamente alle riunioni dell’Arcadia, presso la quale lesse una Vita latina di Fabretti, che in seguito fu pubblicata in volgare da Giovanni Mario Crescimbeni (Le vite degli arcadi illustri, I, Roma 1708, pp. 89-108). Pur non rivestendo cariche di particolare importanza, Rivera poté, in questa fase, operare come confidente del pontefice e della famiglia Albani, disimpegnando nella corte attività informali o cerimoniali.
Nel giugno del 1706 fu incaricato di portare la berretta in Portogallo al cardinale Michelangelo Conti, ma la missione fu annullata per ragioni non chiare. Nel gennaio del 1707, anche se «giovane et inesperto», come annotava il diarista Francesco Valesio (1977-1779, III, p. 749), fu incaricato di una delicata missione diplomatica presso il comandante delle truppe imperiali in Italia, il principe Eugenio di Savoia.
I rapporti tra la S. Sede e l’imperatore Giuseppe I erano in quella fase particolarmente tesi. Sin dall’inizio della guerra di successione spagnola, Clemente XI aveva assunto un atteggiamento di neutralità, sostanzialmente favorevole agli interessi francesi, che si rivelò controproducente dopo le grandi vittorie imperiali del 1706, che portarono l’esercito imperiale a invadere alcune aree settentrionali dello Stato della Chiesa.
Giunto a Milano, nel febbraio del 1707 Rivera concluse un accordo in base al quale le truppe imperiali avrebbero sgomberato le Legazioni di Bologna e Ferrara, in cambio di un risarcimento per gli aiuti prestati dalla S. Sede alla Francia nel 1704. Questo piccolo successo diplomatico si rivelò tuttavia effimero e già nel 1708 le tensioni tra pontefice e imperatore precipitarono in una guerra aperta.
A rendere il prelato ancora più caro al pontefice contribuì anche la morte del fratello Francesco, che nel 1709 cadde in una scaramuccia con le truppe imperiali nel Ferrarese. Grazie alla protezione di Clemente XI la carriera di Rivera proseguì speditamente. Canonico di S. Pietro, fu segretario del Collegio cardinalizio dal 1710. Votante di Segnatura nel gennaio del 1716, assunse poco dopo la carica di segretario della congregazione delle Acque.
In questa veste, fu incaricato di dirimere l’antica questione della regimazione dei fiumi dell’Emilia, che si era sviluppata a partire dal 1692, quando il governo pontificio, accogliendo le ragioni dei bolognesi, aveva stabilito di deviare il Reno nel Po. Rivera compì una missione nei luoghi, assistito dal matematico Guido Grandi, che produsse una dettagliata relazione (Visita delle acque del bolognese, del ferrarese, e della Romagna fatta dall’illustrissimo, e reuerendissimo monsignor Domenico Riuiera secretario della sagra Congregazione dell’acque…, Roma 1717). Anche in questo caso, le ragioni dei bolognesi, difese dai fratelli Eustachio e Gabriello Manfredi, prevalsero su quelle dei ferraresi, difesi da Bernardino Zendrini. La questione però non si chiuse, perché gli Stati confinanti protestarono a causa dei timori per l’insufficienza dell’alveo del Po Grande, e si risolse solo alla fine del secolo con l’immissione del Reno direttamente nell’Adriatico. Migliore successo ebbe, nel 1718, una missione compiuta per definire, insieme ai rappresentanti del granduca di Toscana, la sistemazione idrica della Val di Chiana.
La morte di Clemente XI, nel marzo del 1721, non comportò la disgrazia di Rivera. Durante il breve pontificato di Innocenzo XIII (1721-24), egli fu, insieme al cardinale Giovan Battista Spinola, uno dei più diretti collaboratori del pontefice. La sua presenza alla corte pontificia e nella cultura romana rimase pure significativa. Oltre a mantenere i rapporti con l’Arcadia e con Crescimbeni, che nel 1723 gli dedicò le sue Rime, entrò a far parte del gruppo dei consiglieri del pretendente al trono inglese, James Francis Edward Stuart, in esilio nello Stato pontificio dal 1715. È probabile che i legami con l’ambiente del pretendente si fossero stretti già nel 1717-18, quando Stuart risiedeva a Urbino, ma essi divennero più significativi negli anni Venti e Trenta, quando Rivera divenne uno dei principali tutori degli interessi della casata Stuart a Roma.
Durante il pontificato di Benedetto XIII (1724-30), le fortune di Rivera peggiorarono. L’anziano pontefice, fortemente condizionato da discutibili collaboratori che aveva portato con sé dall’arcivescovato di Benevento, prese le distanze dai prelati più legati alla famiglia Albani e si limitò a confermarlo nelle sue cariche. Solo con l’elezione di Clemente XII (luglio 1730) e l’avvio di un completo cambio di regime, Rivera poté riassumere un ruolo di spicco. Il 18 luglio 1730 fu nominato a una delle cariche prelatizie di maggior rilievo, quella di segretario della Sacra Consulta, la congregazione che gestiva gli affari interni dello Stato della Chiesa. In questa funzione dovette affrontare la crisi che si era innescata in conseguenza dei passaggi di truppe straniere nel corso della guerra di successione polacca e che si risolse solo alla fine del decennio.
Già nel settembre del 1731 si parlava di una sua prossima promozione al cardinalato, ma questa avvenne, grazie anche all’interessamento di Giacomo Stuart, solo il 2 marzo 1733. Dopo la morte del cardinale Antonio Banchieri, nel settembre del 1733, fu in predicato di assumere la carica di segretario di Stato, ma l’ostilità del cardinale Neri Corsini, timoroso dell’autonomia di Rivera dalla famiglia del pontefice, indusse Clemente XII a nominare il cardinale Giuseppe Firrao.
Dal 1737 la sua salute ebbe un primo peggioramento, ma continuò a partecipare con intensità alle congregazioni incaricate dell’amministrazione temporale dello Stato della Chiesa. In particolare, nella primavera del 1737 succedette al cardinale Giuseppe Renato Imperiali nella carica di prefetto della congregazione del Buon Governo, l’organo che gestiva l’amministrazione finanziaria dei comuni dello Stato della Chiesa. Avviò immediatamente piani di risanamento della finanza locale, ma la sua azione si dovette scontrare con un crescente deterioramento della situazione finanziaria dello Stato, anche a causa dei danni inferti dagli eserciti stranieri impegnati nelle guerre di successione.
Nel lunghissimo conclave che si aprì nel febbraio del 1740, dopo la morte di Clemente XII, fu annoverato tra i papabili, ma la sua candidatura fu osteggiata dai rappresentanti della Francia e dell’Impero, in quanto espressione di una forte continuità con il precedente pontificato. Durante il regno di Benedetto XIV, Rivera era ormai anziano, ma mantenne un ruolo di rilievo. Oltre a ricoprire la prefettura del Buon Governo, partecipò ad alcune congregazioni ristrette che nel 1742 definirono la politica della S. Sede rispetto alla successione al trono d’Austria. Il papa, tuttavia, non lo apprezzava in maniera particolare. Oltre a diffidare dei suoi legami con gli Albani e con i Corsini, riteneva, infatti, che la prefettura del Buon Governo costituisse un ostacolo al proprio programma di riforme e di limitata decentralizzazione.
Nel 1748 Rivera ebbe un primo colpo apoplettico, che ne minò gravemente le facoltà. Nel 1751 era ormai ridotto a uno stato quasi vegetativo. Morì a Roma il 2 novembre 1752 e fu sepolto nella basilica dei Ss. Apostoli, sua chiesa titolare.
Fonti e Bibl.: M. Guarnacci, Vitae et res gestae pontificum romanorum…, II, Romae 1751, pp. 656-658; Le lettere di Benedetto XIV al card. De Tencin, II, a cura di E. Morelli, Roma 1965, ad ind.; F. Valesio, Diario di Roma, a cura di G. Scano, I-VI, Milano 1977-1779, ad ind. e II, p. 278.
G. Rivera, Degli uomini egregi della famiglia R., profili biografici, in Giornale araldico-genealogico-diplomatico, VI (1878-1879), pp. 152-159, 175-194, 202-205; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, XV, Roma 1933, ad ind.; L. Di Vistarino Giacobazzi, Passioni, scandali e intrighi nel primo Settecento romano, Milano 1959, pp. 42 s., 45, 162 s.; L. Demoulin, Les lettres du nonce en France Giuseppe Spinelli à Domenico Riviera à propos du conclave de 1730, in Bullettin de l’Institut historique belge de Rome, 1972, pp. 369-400; Ch. Weber, Die päpstlichen Referendare 1566-1809. Chronologie und Prosopographie, Stuttgart 2004, ad ind.; S. Tabacchi, Il Buon Governo. Le finanze locali nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), Roma 2007, ad ind.; E. Corp, The Stuarts in Italy, 1719-1766. A royal court in permanent exile, Cambridge 2011, ad ind.; O. Filippini, Benedetto XIII (1724-1730), Stuttgart 2012, ad indicem.