ROSSI, Domenico
ROSSI, Domenico. – Nacque il 28 dicembre 1657 a Morcote, sul lago di Lugano (Canton Ticino), da Francesco, muratore, e da Caterina Sardi.
All’età di otto anni si trasferì a Venezia presso gli zii materni Francesco e Giuseppe – il primo prete, l’altro architetto –, che lo avviarono al mestiere di tagliapietra. Lavorando dal 1669 nella bottega di Alessandro Tremignon, e poi dal 1674 in quella di Baldassare Longhena, il giovane Domenico acquisì una formazione legata prevalentemente alla pratica di cantiere. Ebbe anche un’istruzione di base grazie a un ‘maestro da scola’ offertogli nel 1670 dalla famiglia Priuli.
Due album oggi in collezione privata (Rodríguez, 2013) testimoniano inoltre che acquisì i rudimenti del disegno, probabilmente sotto la guida dello zio Giuseppe, copiando progetti per altari e studi sugli ordini riconducibili alle cerchie di Giuseppe Pozzo e di Antonio Gaspari.
I dati documentari sulla sua formazione sono confortati dalla testimonianza di Tommaso Temanza che, in un breve profilo biografico (1738), lo definì «uomo senza lettere, ma molto pratico del mecanismo degli edifici» (1738, 1963, p. 40), interessato al guadagno e attento a coltivare una solida rete di relazioni sociali con i possibili committenti. La competenza in questioni tecniche è inoltre confermata dalle consulenze offerte per il consolidamento delle cupole di S. Giorgio Maggiore (1718) e di S. Marco (1736).
Nel 1684 Rossi sposò Angiola Cavalieri, dalla quale ebbe sei figli: Iseppo (1684), Francesco (1687), Caterina (1691-1719), Giovanni (1691), Paolo (1699-1769) e Benedetta (1704-1767).
Di essi, Francesco fu muratore, Paolo seguì il padre nella carriera di architetto, trasmettendola poi al figlio Filippo (1727-1793), Benedetta sposò il capomastro Sante Trognon, mentre Caterina sposò Giovanni Scalfarotto (1672-1764), collega e collaboratore del padre, imparentato con lo stesso Temanza, e dal loro matrimonio nacque Tommaso (1719-1790), anch’egli architetto.
La sua prima occupazione fu la realizzazione di altari, un’attività che in gioventù lo spinse a viaggiare parecchio fino in Istria e in Romagna. Non abbandonò tale impiego neppure dopo essersi affermato come architetto, probabilmente perché, come precisa Temanza (ibid., p. 39), questa attività gli diede una certa sicurezza economica e la possibilità di fare «molti dinari mercatando marmi di Carara». Nel 1709, lavorando per i Manin al rifacimento del duomo di Udine, Rossi strinse amicizia con lo scultore Giuseppe Torretti, con il quale avviò un fruttuoso sodalizio: insieme realizzarono l’altare e la cappella maggiore della chiesa dei Ss. Biagio e Cataldo alla Giudecca (1710), l’altare del Crocifisso a Poveglia (1714), l’altare maggiore degli Incurabili (1718-19) e quello di S. Barbara in S. Maria Formosa (1718-19).
Fu sempre in compagnia di Torretti – oltre che di Pietro Baratta, Scalfarotto, Domenico Piccoli e Biagio Isperge – che nel 1710 Rossi intraprese un viaggio di formazione a Roma. Qui entrò in contatto con la famiglia veneziana degli Ottoboni, tramite i quali ebbe probabilmente modo di conoscere anche Filippo Juvarra.
L’esperienza diretta dell’architettura monumentale di Roma lo colpì a tal punto che al ritorno in patria giustificò il suo progetto per il soffitto della chiesa di S. Lazzaro dei Mendicanti (1711-12) proprio sulla base di quanto aveva visto nell’Urbe in «tutti li templij più cospicui come quello di San Pietro» (Caruso, 1989, p. 168). Dei successivi soggiorni romani cui accenna Temanza ne è accertato soltanto uno nel 1725 (Zanardi, 1994, p. 134); ipotetico è quello del 1732 per il concorso della facciata di S. Giovanni in Laterano (Milizia, 1781, p. 349; Lewis, 1979, p. 378).
Rossi si spinse anche a nord delle Alpi, e una fonte d’archivio lo dice «addoprato in oppere di non poco rilievo dalla Maestà dell’Imperadore in Vienna» (Caruso, 1989, p. 168). Sebbene non siano finora noti suoi interventi nella capitale asburgica, fu forse in uno di questi viaggi che il conte Guidobaldo von Stahrenberg ebbe modo di commissionargli la costruzione della chiesa di S. Maria Ausiliatrice a Lubiana (1714-16).
La sua attività, tuttavia, si concentrò prevalentemente fra Venezia e il Friuli, al servizio di famiglie aristocratiche quali i Savorgnan, i Manin e i Dolfin. Grazie alla mediazione di Girolamo Savorgnan realizzò la facciata del duomo di S. Daniele del Friuli (1703-09), la chiesa di S. Pietro a Osoppo (1705) e la ricostruzione della chiesa di S. Maria Maddalena a Udine (1708-15). Per i Manin, a Venezia rimodernò il palazzo di Rialto (1701) e ricostruì la chiesa di S. Girolamo (dopo il 1705), mentre davanti alla villa di Passariano (Udine) realizzò la ‘piazza quadra’ (1707), poi completata con l’aggiunta della ‘piazza tonda’ (1718), secondo una giustapposizione ispirata alla romana piazza S. Pietro. Nel 1713, dopo averlo visto all’opera nei progetti per i cenotafi Manin (1709), i deputati della città di Udine si rivolsero a «Domenico Rossi da Venezia, uno de’ più rinomati architetti di questo serenissimo stato» (Battilotti, 2005, p. 309) per avviare il completo rinnovamento della loro cattedrale, un cantiere nel quale egli si trovò a collaborare con Luca Carlevaris, Pozzo, Torretti, Abbondio Stazio e Antonio Corradini. Per conto dei Dolfin, invece, avviò l’ampliamento del palazzo patriarcale di Udine, costruendo la biblioteca (1708-11), la galleria degli ospiti (1718 circa) e lo scalone monumentale (dopo il 1725), e a Venezia ristrutturò anche il loro palazzo di famiglia in parrocchia S. Pantalon, di cui gli viene attribuita la facciata (dopo il 1709). Ancora in Friuli, ma a Pordenone, il Consiglio cittadino gli affidò nel 1718 il progetto di rifacimento del duomo di quella città, ritenendolo «proto di ben nota cognitione» (San Marco di Pordenone, 1993, p. 919).
La fama di cui parlano i documenti riguardanti le due cattedrali friulane era arrivata a Rossi grazie alla vittoria del concorso per la facciata della chiesa veneziana di S. Eustachio, detta anche S. Stae (1709-13). Nel comporla Rossi trattò gli ordini e le membrature in modo molto originale, ispirandosi a quanto Andrea Palladio aveva sperimentato nel vicentino palazzo Valmarana e innestando su questa trama un’esuberante decorazione scultorea di matrice romana.
Appena conclusi i lavori per S. Stae, nel 1713 fu incaricato di ricostruire la chiesa di S. Maria Assunta dei gesuiti per conto della famiglia Manin.
L’impianto a navata unica con tre cappelle per lato, transetto non sporgente e presbiterio quadrato con colonne angolari, contamina modelli veneziani, quali il Redentore di Palladio e il S. Fantin di Jacopo Sansovino, con riferimenti romani, come il Gesù di Jacopo Barozzi, detto il Vignola, e S. Maria in Campitelli di Carlo Rainaldi.
Nel 1721, ormai completate le strutture murarie della chiesa, si procedette alla costruzione della facciata, incaricando della realizzazione del progetto di Rossi il capomastro Giovanni Battista Fattoretto, che la concluse nel 1728. I lavori di decorazione degli interni proseguirono fino al 1734 con una ricchezza di apparati senza confronti nel panorama artistico locale, frutto della collaborazione con il collega Pozzo, progettista dell’altare maggiore, con lo stuccatore Abbondio Stazio e con il pittore Louis Dorigny.
Altra impresa monumentale fu la costruzione di palazzo Corner della Regina sul Canal Grande, di cui Rossi avviò la costruzione nel 1724 avvalendosi della collaborazione del genero Scalfarotto.
Il primo progetto, testimoniato da una pianta oggi al Museo Correr (Fondo Provenienze diverse, c. 846/3, cit. in Olivato, 1973, p. 33), prevedeva uno schema di inusitata monumentalità, dove il tradizionale impianto tripartito dei palazzi veneziani si sarebbe combinato con un cortile centrale di ascendenza romana, non immune, nella collocazione di quattro scaloni monumentali agli angoli, da suggestioni derivate dal terzo progetto di Gian Lorenzo Bernini per il Louvre. La versione costruita è più semplice, ma la facciata torna all’idea di coniugare il rigore tettonico di Sansovino con un’esuberanza plastica che deve molto sia a Longhena, sia all’architettura sei e settecentesca romana.
Fra le numerose opere minori ricordate dalle fonti vi sono i palazzi Riva a S. Giustina e Cavagnis a S. Maria Formosa a Venezia, nei quali sono attestati lavori nel 1712-13, il palazzo Sandi in Corte dell’Albero (ante 1724-25) e il palazzo Maffetti Tiepolo a S. Polo, le cui vicende costruttive sono tuttora ignote. In qualità di proto (dal 1714) dei provveditori alla Sanità, Rossi effettuò interventi nella sede della magistratura a S. Ariano, nel Lazzaretto Vecchio, nel Lazzaretto Nuovo e nel cimitero di S. Pietro di Castello.
Resta incerto il suo impiego da parte dei provveditori sopra i Monasteri, poiché i documenti registrano sotto il nome di Domenico Rossi anche interventi di molto successivi alla sua morte (Santostefano, 1996, p. 108), e sembra dunque plausibile ipotizzare che si tratti di un omonimo.
Fra le realizzazioni che gli vengono attribuite su base stilistica o indiziaria figurano la cappella esagonale (1729) del palazzo Manin di Udine, nonché la villa Manin a Nogarazza presso Rovigo (1731-37) – dove il suo intervento è attestato soltanto per due «spalliere d’architettura» nella cappella (Frank, 1996, pp. 139-148) – e il veneziano palazzo Donà delle Rose alla Maddalena (Bassi, 1962, p. 210; 1976, pp. 486-489).
Morì il 22 marzo 1737 e venne sepolto a Venezia nella chiesa parrocchiale di S. Maria Formosa.
Fonti e Bibl.: V.M. Coronelli, Proposizioni diverse de’ principali architetti per il progetto di San’Eustachio, Venezia 1710; T. Temanza, Zibaldon de’ memorie storiche appartenenti a’ professori delle belle arti del disegno (1738), a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963, pp. 38-41; J.C. Füssli, Geschichte der besten Künstler in der Schweiz, IV, Zürich 1774, pp. 100-102; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, II, Parma 1781, p. 349; R. D., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIX, Leipzig 1935, p. 56; Notizie d’arte tratte dai Notatori e dagli Annali del N.H. Pietro Gradenigo, a cura di L. Livan, Venezia 1942, p. 120; E. Bassi, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, Napoli 1962, pp. 207-232; C. Palumbo Fossati, Una chiesa dell’architetto morcotese D. R. a Ljubljana, in Bollettino storico della Svizzera Italiana, LXXX (1968), 1-2, pp. 41-53; L. Olivato, Storia di un’avventura edilizia a Venezia tra il Seicento e il Settecento: Palazzo Cornaro della Regina, in Antichità viva, XII (1973), 3, pp. 27-49; A. Faleschini, L’architetto del tempio di S. Pietro in Fortezza, in Quaderni della FACE, 1974, n. 43, pp. 60-62; E. Bassi, Palazzi di Venezia. Admiranda urbis venetae, Venezia 1976, pp. 166-173, 317-321, 338-341, 400-402, 428 s., 486-489, 550 s.; D. Lewis, The late Baroque churches of Venice, New York-London 1979, pp. 79-86, 89, 124-132, 134-138, 246-259, 332 nota 31, 333-335 note 33-40, 351-353 note 19-23, 357 s. note 35-39, 378 nota 65, 401-404 note 11-22; M. Brusatin, Venezia nel Settecento. Stato, architettura, territorio, Torino 1980, pp. 9, 59, 208, 220, 222, 236, 251 nota 16, 254 nota 55, 259 nota 101; C. Palumbo Fossati, Gli architetti del Seicento Antonio e Giuseppe Sardi e il loro ambiente, Bellinzona 1988, pp. 19, 135 s.; B. Aikema - D. Meijers, Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, Venezia 1989, pp. 142, 163-166, 185, 217-221, 258-260, 268 s.; B. Caruso, D. R.: un architetto fra tardo Seicento e primo Settecento, in Ateneo veneto, CLXXVI (1989), 27, pp. 165-177; San Marco di Pordenone, a cura di P. Goi, Fiume Veneto 1993, pp. 152-158, 178 s., 311, 353, 919 s.; R. Bösel, La chiesa dei Gesuiti a Venezia. Un’ipotesi di interpretazione tipologica, in I Gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della compagnia di Gesù. Atti del Convegno... 1990, a cura di M. Zanardi, Venezia 1994, pp. 689-704; M. Zanardi, I ‘domicilia’ o centri operativi della Compagnia di Gesù nello Stato Veneto (1542-1773), ibid., pp. 89-179; E. Concina, Storia dell’architettura a Venezia, Milano 1995, pp. 273 s., 276; P. Morachiello, Il Settecento. L’architettura, in Storia di Venezia. Temi. L’arte, a cura di R. Pallucchini, II, Roma 1995, pp. 163-249; L. Moretti, La chiesa di San Stae, in Splendori del Settecento veneziano (catal., Venezia), Milano 1995, pp. 553-567; M. Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia, Venezia 1996, pp. 43-45, 61, 74-81, 84-86, 94, 99, 104-122, 127-134, 139-148; F. Pedrocco, Appunti per una storia del mecenatismo artistico della famiglia Dolfin (catal., Codroipo), in Splendori di una dinastia: l’eredità europea dei Manin e dei Dolfin, a cura di G. Ganzer, Milano 1996, pp. 43-50; P. Santostefano, Per una storia dei tecnici e delle maestranze edili al servizio delle istituzioni religiose in Venezia nei secoli XVII e XVIII, in Ateneo veneto, CLXXXIII (1996), 34, pp. 63-112; R. Pellegritti, La ricostruzione del soffitto della chiesa dell’Ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti, in «Architetto sia l’ingegniero che discorre». Ingegneri, architetti e proti nell’età della Repubblica, a cura di G. Mazza - S. Zaggia, Venezia 2004, pp. 201-209; D. Battilotti, D. R. e la riforma settecentesca del duomo di Udine, in Artisti in viaggio, 1600-1750: presenze foreste in Friuli Venezia Giulia. Atti del Convegno..., Passariano... 2004, a cura di M. P. Frattolin, Venezia 2005, pp. 307-334; F. Lenzo, D. R., in Arte e storia, VIII (2008), 40, pp. 312-321; Id., Venezia, in Storia dell’architettura nel Veneto. Il Settecento, a cura di E. Kieven - S. Pasquali, Venezia 2012, pp. 134-165; D. Rodríguez, Sobre dos álbumes inéditos de dibujos del arquitecto D. R. (1657-1737), in Testo, immagine, luogo. La circolazione dei modelli a stampa nell’architettura di età moderna, a cura di S. Piazza, Palermo 2013, pp. 109-126; F. Lenzo, Oltre Palladio. La chiesa dei Gesuiti e la tradizione architettonica veneziana, in Immaginari della modernità, a cura di S. Marini, Venezia 2016, pp. 26-43.