TEMPIO, Domenico
Poeta, nato a Catania il 22 agosto 1750, morto ivi il 4 febbraio 1821. Dimorò sempre nella sua città natale vivendo modestamente. Ebbe dimestichezza con uomini di larga cultura ed egli stesso non fu digiuno di cultura filosofica e classica. Fu nominato nel 1791 notaio del Casale di Valcorrente, ma in realtà visse sempre delle pensioni vitalizie che ebbe da varî enti cittadini. Non si può dire che avesse perfetta conoscenza dell'italiano, se i saggi che egli lasciò di rime e di drammi metastasiani in lingua si muovono tra impacci e sciatterie. Il suo genio di poeta plebeo e spregiudicato lo portava verso il dialetto, del quale si servì per quasi tutte le sue opere; dialetto alquanto ripulito, sull'esempio del Meli, secondo un ideale linguistico regionale.
Cominciò con composizioni drammatiche, come La Truncetteide, Gli amanti delusi, La disgrazia di la Pila, La scerra di li Numi, Lu Iaci in pritisa, e continuò con poemetti e canzonette. Tra i poemetti ricordiamo La caristia, in strofe di settenarî, Lu veru piaciri, in ottave, che sono le sue cose migliori; poi La maldicenza scunfitta, Lu mastru Staci, Lu Pulici, La minata de li dei, componimenti osceni vivacissimi. Scrisse pure ditirambi, epitalamî, odi, tra le quali ricordiamo quelle a Nici, a Filli, a Tudda, anch'esse fortemente realistiche e antiarcadiche.
La modestia delle sue aspirazioni gli consentiva di contentarsi del poco e di trascorrere i suoi giorni, si può dire, sulle strade a motteggiare uomini e istituzioni. Pronto alla satira e più ancora alla caricatura, lasciò epigrammi che divennero popolari. Ma la sua satira, volta per lo più a colpire nemici personali, non fu né fine né acuta. Il suo gusto invece godeva della rappresentazione equivoca di sozzure e di vizî umani, fatta con aria disinvolta e col solo scopo di cantare quel suo mondo in innocua libertà oltre ogni morale e ogni preoccupazione sociale. Da qui quella tendenza alla poesia pornografica che all'occhio dei più divenne, si può dire, la caratteristica del T. e gli procurò triste fama, dalla quale non lo salvano certe sbrigative "moralità" da lui appiccicate ai suoi componimenti e che avrebbero dovuto dar la chiave per la loro esatta interpretazione. Del resto, fuor di ogni oscenità, il T. ha momenti di poesia schietta, quando loda, dietro l'esempio del Meli, la semplicità della vita campestre, la solitudine e la bellezza delle campagne etnee. Ma occorre anche aggiungere che la stessa materia equivoca non è presentata nella sua grezza e rivoltante oscenità, ma è per così dire illeggiadrita da immagini e colori belli per sé stessi e che fanno dimenticare gli argomenti, i quali talora non sono che pretesti per gli arabeschi, per le trovate strane e argute, per gli sviluppi poetici i quali arricchiscono la materia dei numerosi poemetti del T. (cfr. le Poesie siciliane, pubblicate a cura di R. Corso, Catania 1926).
Bibl.: A. Emanuele, D. T.: la vita e le opere, Catania 1912; N. Scalia, D. T. Vita, opere, antologia, Genova 1913; E. Del Cerro, Letteratura dialettale: D. T., in Fanfulla della domenica, XV, n. 13.