DON GIOVANNI
. Personaggio leggendario che, specialmente nei paesi germanici, suole essere interpretato come il mitico rappresentante della latina sensuale ebbrezza di vivere, in contrapposto a Faust, incarnazione della germanica burrascosa ansia di elevazione sopra il mondo dei sensi. Universalmente, persino nel linguaggio comune, don Giovanni è oggi l'immagine simbolica della naturale attrazione dell'uomo verso la donna e verso l'amore, verso le voluttà della vita. Nel mutare dei tempi, soprattutto sopra questo elemento si è venuta concentrando la sua leggenda; cosicché la bianca immagine spettrale del "Convitato di pietra", che, accettando l'invito, interviene al banchetto ultimo del peccatore e, abbassata sopra di lui la sua fredda e pesante mano, lo conduce via con sé nei regni della giustizia e della morte, s'è a poco a poco ritratta nello sfondo, sino quasi a dileguare.
Invece nella leggenda originaria questa immagine fu certamente essenziale. Alla coscienza religiosa, entro di cui e da cui la leggenda si formò, fu presente soprattutto la visione paurosa della fine del peccatore. Nel Burlador de Sevilla y convidado de piedra, attribuito a Tirso de Molina (ma contro tale attribuzione v. A. Farinelli, Don Giovanni, note critiche, in Giorn. stor. della lett. ital., XXVII, 1896) - prima opera in cui la figura di Don Giovanni compare (1630) - precisamente la visione terrifica dell'ultimo atto è quella che più rivela un'evidente immediatezza di emozione. Non intorno a un nucleo storico - di storico è ormai accertato che non c'è nella leggenda se non qualche nome: fra cui Tenorio, Ulloa, nomi di famiglie illustri di Spagna - ma probabilmente intorno a questo motivo della statua vendicatrice, la leggenda ha preso consistenza, quando, nell'immaginazione del popolo o nella fantasia di un poeta, esso si è unito e intrecciato con i due altri motivi del godimento sensuale della vita e del dileggio della morte, già diffusissimi essi pure dal Medioevo in poi, e il primo particolarmente caro al Rinascimento: nella coscienza del peccato e nella visione del giusto castigo di Dio, la figura del grande voluttuoso s'integrava in una piena profondità umana: usciva dal mondo della novellistica e dell'amena avventura, per diventare una di quelle immagini in cui gli uomini istintivamente riconoscono qualche aspetto di sé medesimi.
Dove tale formazione della leggenda si sia dapprima compiuta, non si può asserire con certezza: gli Spagnoli la considerano come loro creazione; il Farinelli e altri dopo di lui propendono a crederla venuta dal Settentrione, sebbene coloritasi poi in Spagna d'un evidente color locale: certo in Spagna raggiunse dapprima, per virtù d'arte, la sua intera potenza di suggestione, e dalla Spagna percorse poi il mondo.
Già verso la metà del '600 la leggenda era passata dalla Spagna in Italia con il Convitato di pietra del Giliberto, oggi perduto, e con il Convitato di pietra del Cicognini. Ma, svanito lo spirito religioso, da cui era nata, la leggenda si ridusse presso di noi a una serie di bizzarre o fantastiche vicende per il divertimento del popolo. Passò agli scenarî della Commedia dell'arte, e, arricchendosi di nuovi episodî, divenne uno dei canovacci prediletti intorno a cui i comici intrecciavano i loro lazzi.
Tuttavia, anche così ridotta, la leggenda doveva pur conservare ancora in sé qualcosa del suo più profondo significato umano, se per oltre un secolo - in Germania in decine di variazioni diverse, in Italia fino ai primi dell'800 - ininterrottamente formò la delizia delle folle popolari. Il che spiega come, giunto dall'Italia in Francia, il Don Giovanni della Commedia dell'arte, dopo di aver trionfato, già nel 1657, al Teatro degli Italiani, abbia attratto l'attenzione - oltreché di altri tre poeti minori, nel giro di pochi anni, del Dorimond, del De Villiers, del Rosimond - anche dello stesso Molière.
Inserendosi fra il Tartuffe e il Misanthrope, la prosa del Dom Juan ou le festin de Pierre (1665), importò difatti nella classica composta leggiadria del mondo molieresco una materia nuova ed eterogenea, che franse le tradizionali unità e condusse in singole scene il poeta a inconsueta drasticità di espressione. Rinnovarne tuttavia dall'interno lo spirito egli non poteva; e anche Don Giovanni dovette adattarsi a vestir l'abito del cortigiano: non fu più l'incontenibile cavaliere che aveva "brio y corazón en las carnes", ma un elegante uomo di mondo, scettico, cinico, gaudente: della stessa stoffa dei personaggi delle altre commedie: persino fraterno a Tartuffe in ipocrisia. Certo il fine intuito delle piccole e grandi passioni degli uomini, che Molière aveva in dono, si riaffermò una volta ancora: cosicché la commedia - sebbene scomparsa presto dalla scena a Parigi - poté dominare a lungo, nel testo originale o nella rielaborazione di Corneille il giovane (Dom Juan, 1677), le scene d'Europa: tradotta in tutte le lingue: rifusa in sempre nuovi rifacimenti: in Inghilterra, fra altro, con lo Shadwell (The libertine, 1676); in Germania, fra altro, col Velthen (Don Juan oder don Pedros Todtengastmahl, 1690); in Italia, più liberamente e mescolata ad altre influenze, ma, in sostanza, nello stesso realistico tono, col Goldoni (Don Giovanni o la punizione del dissoluto, 1730). Ancora nel see. XIX, in Danimarca, il Heiberg ne traeva una delle sue prime, ancora romantiche, composizioni (Don Juan, 1814). Solo lo Zamora in Spagna (No hay deuda que no se pague y Convidado de Pietra, 1714), lo ignorò, riattingendo, in parte, alla sorgente antica. Ma è innegabile che la leggenda, ridotta così a semplice trama di commedia, specchio della società del tempo, restava di necessità mozzata d'ogni slancio e volo verso quel mondo fantastico, libero e meraviglioso, che costituisce una delle sue maggiori potenzialità espressive.
Dato il gusto generale del tempo, fu soprattutto nel mondo della musica che la leggenda trovò il suo naturale elemento. Nell'opera che aveva ereditato il gusto secentesco per lo sfarzo sensuale delle rappresentazioni, e, nell'esplicita convenzionalità e artificialità delle sue forme si prestava ad accogliere in sé ogni fantastica varietà di sviluppi, spostando la propria verità dalla verosimiglianza delle vicende esteriori a un'esclusiva interna verità d'emozione espressa direttamente nella musica, il motivo leggendario di Don Giovanni trovò infatti innumerevoli svolgimenti. Opere comiche, operette di tipo popolare, vaudevilles, balletti, pantomime si susseguirono per tutto il Settecento, in Italia specialmente e in Germania, per opera di musicisti più o meno oscuri - s'incontrano tuttavia fra i compositori, in Inghilterra, il Purcell (The libertine, opera, sul testo dello Shadwell, 1676) e, in Germania il Gluck (Don Juan oder das steinerne Gastmahl, balletto, 1760) - finché un'opera di reale vitalità compose, pel primo, su parole del Bertati, il Gazzaniga (Don Giovanni, 1787), tosto seguita, in quell'anno stesso, su libretto del Da Ponte in parte modellato sul Bertati, dalla geniale creazione di Mozart (Don Giovanni, 1787). Naturalmente all'istinto di grazia e alla casta gioia della purità delle forme musicali di Mozart sarebbe vano e anacronistico domandare l'orgiastica irruenza sensuale, voluttuosa di ebbrezze e lacerata da doloranti spasimi, che cent'anni dopo lo Strauss scatenerà nel suo poema sinfonico (Don Juan, 1889): anche nel Don Giovanni Mozart serba il tono delicato di sensibilità e la leggiadria di forme, che erano nella natura del suo genio; ma l'impeto dei sentimenti già vi trabocca fuori di tutti gli schemi consueti, ravvivando, rinnovando le forme ancor tradizionali che investe; e intorno all'eroe che porta in sé, pur nei suoi stessi trascorsi, una sua interna necessità umana a cui obbedisce e in cui si redime, s'arroventano le passioni senza tregua, drammaticamente, fino allo schianto della tragica finale catastrofe. L'individualità di don Giovanni ne balza fuori vivente, in una di quelle figurazioni da cui, quando una volta sono state raggiunte, l'immaginazione degli uomini, come per l'Amleto di Shakespeare, come per il Faust di Goethe, non si può più liberare: così che esse diventano quasi come dirette proiezioni della loro propria coscienza.
Quando la potenza creatrice di un genio ha tratto così da una materia leggendaria una grande opera d'arte, quasi sempre accade che, mentre inesauribilmente vi si cerca lo spunto di sempre nuove elaborazioni, la storia della leggenda invece in certo modo finisce. Ciò che era trama della leggenda, e ne racchiudeva in sé il significato umano universale, si è risolto in concreta vita di un determinato personaggio: e come tale si presenta ai poeti che vengon dopo, i quali o se n'allontanano - così che pochi, e per lo più esteriori, rapporti con la leggenda permangono - o ne subiscono il dominio e, includendovi esperienze nuove e nuovi stati d'animo, si limitano a ricavarne variazioni di tono personale, soggettivo.
L'una cosa e l'altra è avvenuta, dopo Mozart, con Don Giovanni; e tanto più facilmente in quanto l'apparizione dell'opera di Mozart ha coinciso nell'arte con gl'inizî di un'età nuova, di tendenze spiccatamente individualistiche, per cui non più in ciò che appar tipico per tutti gli uomini è stata cercata la verità della poesia, ma direttamente ed esclusivamente nell'intimità dei sentimenti del poeta. Byron riversò così in Don Giovanni l'amarezza dei suoi sarcasmi e le lugubri fastosità del suo ghignante satanismo - offrendo, qualche anno dopo, lo spunto alla livida e spettrale visione di naufragio della Mort de don Juan del Delacroix -; Hoffmann lo condannò a portar nella sua corsa al piacere le complicate torture della propria romantica anima e della propria fantasia allucinata; Grabbe lo oppose a Faust, travolgendo l'uno e l'altro sotto l'onda torbida e nera del suo sconclusionato pessimismo nichilistico; Lenau lo annegò nella mortale stanchezza del suo Weltschmerz, per cui il dolore è voluttà e la voluttà è dolore, e la vita non altro che uno stanco e lento e triste, perenne "sentirsi morire"; Almquist in Svezia, con un impressionismo avanti lettera, dopo avergli fatto avvelenare involontariamente il figlio don Ramido - per i veleni di cui erano intrisi i colori di un ritratto di donna che egli ha dipinto e che il figlio ha baciato - lo fece accanire a ispirare contro di sé odio e disprezzo nella donna che ama e da cui è amato; anche in Russia, Puškin gli fece cantare il Vanitas vanitatum, che eternamente risuona in tutte le anime romantiche. Più tardi il De Musset gli diede il suo snobismo e le sue sazietà di raffinato, le sue malinconie e la sua noia; Gauthier se lo vide sorger davanti, su dalla tomba, misera carcassa, flaccida e disfatta, in finta parrucca e con dentiera finta; e con disposizioni d'animo non dissimili anche il Campoamor si compiacque di ritrarlo morente, in una caverna, che, sotto i baci ardenti di un'ultima amante che ve l'ha raggiunto, perde la vita. Qualche tempo innanzi Merimée e Dumas lo avevano passato dalla famiglia dei Tenorio alla famiglia dei Maraña; ma tosto lo restituì ai Tenorio lo Zorrilla, e, tuffandolo nelle fragorose onde del suo romantico lirismo, lo colorì con tutti i colori della sua tavolozza ispano-vittorughiana, con scene a grande effetto e con un finale di "mistero" religioso, che mandarono per anni le folle spagnole in visibilio.
Nelle più disparate variazioni, il tema inesauribile ritorna in tutte le letterature: è del 1910 il dramma di Sternheim; del 1915 il poema di Bonsels; del 1929 il nuovo poema di von der Trenck; e si tace qui d'altri poeti meno noti. I più lasciarono il gran peccatore alle fiamme dell'inferno, a cui già fu condannato nascendo. Qualcuno invece si commosse sulla sua sorte e gli aperse infine le porte del Paradiso, come Zorrilla; qualcuno lo fece morir suicida, come Heyse, nel cratere del Vesuvio; qualcuno lo fece frate. Nietzsche lo ritrovò, al disopra delle passioni, nelle sfere della contemplazione pura, "Don Giovanni della conoscenza". Con una di quelle operazioni in cui è specialista, G. B. Shaw s'è addirittura attentato a cambiargli sesso. Tra le rielaborazioni italiane della leggenda si ricordino il Don Iuan di G. A. Cesareo (1883), la Dannazione di Don Giovanni di A. Graf (1905), L'ombra di Don Giovanni di E. Moschino per la musica di F. Altano (1914). L'unica cosa che a tutte, o quasi, queste diverse versioni è comune, è il sentimento dell'infinita "tristezza della carne", per cui la vita trova in fondo alla voluttà, in cui s'esalta, i germi della morte.
Bibl.: Fondamentale rimane ancor sempre l'indagine citata di A. Farinelli, completata in Cuatro palabras sobre Don Juan y la literatura donjuanesca del porvenir, in Homenaje a Menéndez y Pelayo, Madrid 1899. Soltanto singole aggiunte o modificate impostazioni di singoli problemi, e, soprattutto, più ampie esposizioni del materiale s'incontrano nelle opere numerose che si vennero pubblicando in seguito, fra cui v.: V. Said Armesto, La leyenda de Don Juan, Madrid 1908; G. Gendarme de Bévotte, La légende de Don Juan, Parigi 1906, 2ª ed., 2. voll., ivi 1912; H. Heckel, Das Don Juan-Problem in der neueren Dichtung, Breslavia 1915; J. R. Lomba y Pedraja, La leyenda y la figura de D. Juan Tenorio en la literatura española, Murcia 1921. Studio spico-analitico della leggenda è quello del noto mitologo freudiano O. Rank, Dies Don Juan-Gestalt, Vienna 1924. Per il periodo più antico della leggenda sono sempre da ricordarsi, oltre W. Davis, De oorsprong van de Don-Juan-legende (L'origine della leggenda di D. G.), in De gids 1915, anche i noti saggi di M. Menéndez y Pelayo, in Studios de critica literaria, Madrid 1884 segg., II; e di R. Menéndez P. dal, in Estudios leterarios, Madrid 1920.