Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Idolatrata dai contemporanei e venerata dai posteri, la figura carismatica di Donatello segna lo sviluppo della storia della scultura del Quattrocento con la forza dei grandi innovatori. Sperimentatore di ogni tecnica scultorea e di ogni forma espressiva, rappresenta l’affermazione dell’armonia rinascimentale di stampo toscano e, al tempo stesso, il superamento degli ideali di serenità e simmetria che l’umanesimo fiorentino aveva perseguito agli inizi del Quattrocento.
Donatello tra antico e moderno
Nell’immaginario comune Filippo Brunelleschi, Donatello e Masaccio rappresentano i fondatori, l’essenza stessa del concetto di umanesimo artistico. Al di là della credibilità di questa concezione è certo che, fra i tre, Donatello rappresenta l’artista meno inquadrabile in rigide classificazioni. Se, infatti, egli è uno dei primi interpreti degli ideali rinascimentali che pongono l’uomo al centro della rappresentazione, è anche vero che, nel corso della sua lunghissima carriera, Donatello sarà capace di esplorare nuovi orizzonti, accompagnando questa ricerca con una febbrile sperimentazione delle tecniche e dei mezzi allora conosciuti.
La formazione e i primi successi
La formazione di Donatello appare legata al mondo degli orafi più che a quello degli scultori in marmo. È in questo contesto che pare essere nato il sodalizio con Brunelleschi.
Donatello ha nel corso della sua gioventù diversi rapporti professionali (con Michelozzo, con Nanni di Bartolo, poi con Bernardo Bellano), ma quello con Brunelleschi sembra aver valicato i limiti della collaborazione per sfociare in un vero e proprio rapporto d’amicizia, improntato alla collaborazione fra due esordienti, più che alla dipendenza maestro-allievo. Un’amicizia che, stando alle fonti, li porterà assai giovani a recarsi a Roma attratti dall’architettura, dalla statuaria classica e dai rilievi tardo-antichi.
La formazione dello scultore avviene tra il 1400 e il 1410, nel pieno fermento del rinnovamento edilizio che interessa i luoghi nevralgici della vita di Firenze: la Loggia dei Lanzi, il battistero di San Giovanni, il duomo di Santa Maria del Fiore, Orsanmichele. Questi ultimi due cantieri vedono attivi, tra la fine del Trecento e i primi 30 anni del nuovo secolo, tutti i migliori scultori della città. Un ruolo di primo piano lo gioca Lorenzo Ghiberti, vincitore del concorso del 1401 per la porta nord del battistero. In quegli anni egli è il rappresentante della cultura tardo-gotica nella sua accezione umanistica. L’altro protagonista è Nanni di Banco, che nelle sue opere persegue un ideale classico fatto di ieraticità, simmetria e fissità espressiva.
Tra queste due tendenze, Donatello sceglie sin da subito una via diversa, solo apparentemente intermedia. Documentato tra il 1404 e il 1407 fra i “garzoni” dell’indaffaratissima bottega di Ghiberti, alla fine del 1406 è al lavoro come maestro indipendente su alcuni profeti da collocare sulla Porta della Mandorla di Santa Maria del Fiore, nota per le decorazioni scultoree di Nanni di Banco. È il preludio alle successive commissioni che lo scultore riceverà dall’Opera del duomo, dapprima in collaborazione o in gara con altri colleghi, poi – ben presto – da solo. Nel 1408 l’artista ottiene l’incarico di realizzare un David per la tribuna settentrionale e un San Giovanni Evangelista per una delle nicchie della facciata. Si tratta delle sue prime opere marmoree di grande formato. Se nel David l’impostazione generale risente delle soluzioni gotiche di Ghiberti, Donatello afferma subito la sua personalità dirompente, rappresentando David non come un vecchio re ma come un giovane guerriero che, dopo avere battuto Golia, guarda avanti a sé con grande fierezza. La maestria tecnica è tale che le figure di David e di Golia sono scolpite in un unico blocco: una novità assoluta per la scultura del tempo. La “vivacità fieramente terribile” (Vasari) di quest’opera ne farà subito un modello di riferimento sia artistico che politico. Per volontà del governo fiorentino nel 1416 la statua è esposta in Palazzo Vecchio, a sottolineare l’omologia tra la fiera determinazione del giovane scolpito da Donatello e le aspirazioni autarchiche della signoria cittadina.
Il successo del David apre a Donatello le porte dell’altro grande cantiere fiorentino, la facciata di Orsanmichele, centro nevralgico degli scambi commerciali della città, dove le corporazioni delle Arti vanno commissionando ai maggiori artisti del tempo statue raffiguranti i loro santi protettori. Lo scultore viene interpellato in tre occasioni nel giro di una decina d’anni. L’opera più nota realizzata per Orsanmichele è il San Giorgio scolpito tra il 1415 e il 1417 per l’Arte dei Corazzai e Spadai ora al Museo Nazionale del Bargello. Qui la ricerca intrapresa nel David giunge a una maturazione più profonda, puntando ancora una volta sulla trasposizione marmorea del valore morale dell’effigiato. La posa di san Giorgio, con le gambe divaricate e il busto leggermente ruotato, mostra una “latente disponibilità all’azione” (Artur Rosenauer, Donatello, 1993) che caratterizza tutti i personaggi eroici o biblici di Donatello. Lo sguardo del santo mira lontano, la fronte è aggrottata, come se stesse scrutando l’orizzonte in attesa del nemico, pronto a imbracciare lo scudo e a brandire la spada. Le proporzioni gotiche della figura, allungata ed esile, non attenuano così la straordinaria sensazione di forza e di vitalità compressa nell’attesa dell’azione, che anima ogni centimetro del personaggio.
Altrettanto significativo è il basamento, raffigurante San Giorgio e il drago. Qui Donatello applica per la prima volta lo “stiacciato”, vale a dire la rappresentazione dello spazio scenico mediante un rilievo bassissimo: l’illusione spaziale si gioca in pochissimi millimetri di profondità. Ma non è la sola novità: nel rilievo di Orsanmichele fa la sua comparsa un’ambientazione spaziale coerentemente scorciata: Donatello è il primo, per quanto ne sappiamo, che abbia posto in essere le teorizzazioni di Brunelleschi sulla prospettiva lineare, facendo correre verso un unico punto di fuga le rette parallele.
Nuove possibilità espressive: lo sperimentalismo degli anni 1420-1440
Donatello prosegue la sua indagine sulla rappresentazione della figura umana in piedi grazie a un altro prestigioso incarico: la realizzazione di cinque profeti e figure bibliche commissionate dall’Opera del duomo per ornare i lati nord ed est del campanile di Giotto, cui Donatello si dedica tra il 1415 e il 1436.
Il celebre Abacuc, la scultura più nota della serie, ricordato dalle fonti come lo “Zuccone”, è forse il capolavoro degli anni Venti del maestro. Donatello agisce sul fronte dell’espressività, raffigurando il profeta come un folle dai tratti del volto stravolti e patiti: la bocca socchiusa e le sopracciglia alzate, a evidenziare lo sguardo perso nel vuoto, sono brani indimenticabili già per i contemporanei. L’intenso realismo è talmente memorabile che attorno a quest’opera, appena un secolo dopo, fioriranno favole gustose come quella raccontata da Giorgio Vasari, che descrive lo scultore infuriato per non essere riuscito a donare alla scultura anche la parola.
La svolta espressionista si accompagna al progressivo sperimentalismo che vede Donatello cimentarsi con le più svariate tecniche scultoree: marmo, legno, creta, argilla o fusione in bronzo. La straordinaria capacità di lavorare il bronzo è esemplata dal Banchetto di Erode (1423-1427), bassorilievo realizzato per il fonte battesimale del battistero di Siena, cantiere in cui avevano lavorato, tra gli altri, Lorenzo Ghiberti e Jacopo della Quercia. Donatello compie ancora una volta scelte che si possono definire modernissime. La scena è pensata come un quadro delimitato da una sottile cornice, all’interno della quale Donatello inventa una scatola prospettica composta da quattro piani diversi. Lo spazio è ora pienamente matematico, brunelleschiano, e si articola attorno al vuoto centrale: gli elementi significanti (la danza di Salomè, la testa del Battista presentata a Erode ecc.) sono posti ai lati della scena e sui piani successivi al primo.
Tra il 1432 e il 1433 si data l’unico viaggio romano documentato di Donatello, un’esperienza che risulterà fondamentale per la creazione delle opere posteriori, segnando un rinnovato interesse per l’antico, da questo momento non solo fonte d’ispirazione stilistica ma vero e proprio repertorio iconografico. Nelle opere immediatamente successive, come il pulpito esterno del duomo di Prato (1433-1438), i putti festanti di Donatello si ispirano a opere tardo-antiche come il sarcofago con Scene di pugilato (III secolo, Città del Vaticano, Musei Vaticani).
L’intensità del moto, la gioia del movimento, libero da ogni costrizione, permea di sé anche la Cantoria del Museo dell’Opera del duomo di Firenze, iniziata nel 1433 e terminata cinque anni dopo. Il confronto con l’analoga e coeva opera di Luca della Robbia è, a ragione, uno dei luoghi critici più frequentati dalla storia dell’arte, poiché consente di toccare con mano due modi diversi di concepire la citazione classica. Entrambi gli artisti partono dai rilievi tardo-romani, ma se Luca resta ancorato a una grammatica compositiva fatta di simmetria e contrappunti, Donatello, di contro, forza volutamente i limiti, carica le espressioni, e complica le posture. In lui non vi è alcuna accortezza di carattere devozionale, essendo i putti raffigurati nell’atto di mostrare le proprie nudità. Tutto questo flusso di energia non può essere costretto in formelle geometriche, ed ecco quindi Donatello inondare l’intera superficie della lastra, inventando la straordinaria soluzione di far correre i putti anche sotto le colonnine che reggono l’ordine superiore della struttura. Un’invenzione che egli riprenderà nell’altare del Santo a Padova pochi anni dopo.
Donatello scultore mediceo
Opere di simmetria e misura classiche sono anche l’Annunciazione di Santa Croce (1435 ca.), il David bronzeo e l’Atys del 1444 circa. Nel caso dell’Annunciazione in Santa Croce i riferimenti antichi spaziano dalla testa della Vergine ispirata ai modelli della cosiddetta Venus Genitrix, alla decorazione policroma del fondo che ricorda l’attività cosmatesca tardo-romana. Il modello iconografico trecentesco diventa l’occasione per rendere ancora più verosimile la ritrosia della Madonna all’annuncio di Gabriele. L’espediente, semplice e geniale al tempo stesso, è quello di “tagliare” il gomito e la parte destra della veste con il limite fisico della colonna, così da suggerire uno spazio che in realtà non esiste.
Ogni emotività sembra invece bandita nelle due opere con le quali l’artista si congeda da Firenze nel 1443: la piccola Figura allegorica bronzea, nota come Atys, del Museo del Bargello, nel corso del Seicento e del Settecento ritenuto un reperto antico, e il celebratissimo David , o Mercurio secondo un’altra interpretazione, anch’esso al Museo Nazionale del Bargello. Qui il cimento antichizzante tocca vertici di assoluto lirismo, non sorprende che la statua sia stata per lungo tempo il simbolo del potere mediceo. Infatti, l’eleganza quasi astratta del David bronzeo appare in sintonia con la corte fiorentina, animata dai fermenti che daranno vita all’Accademia platonica di Careggi e agli studi di Marsilio Ficino. È forse questo clima a suggerire l’iconografia del David completamente nudo, dalla posa flessuosa che ben poco ha di combattivo.
Il soggiorno padovano
Nel gennaio del 1444 Donatello è a Padova per realizzare il Crocifisso che, nato come opera a sé, diverrà poi il fulcro votivo dell’altare della basilica di Sant’Antonio, la chiesa più importante della città. Il soggiorno in terra veneta durerà circa un decennio e sarà gravido di conseguenze per lo sviluppo dell’arte settentrionale italiana, che proprio da Donatello apprenderà l’espressività dolente che caratterizza gli esiti artistici in area padana e veneta. A Padova Donatello, più che una bottega, ha un vero e proprio cantiere, attivo su due opere fondamentali: il Monumento equestre al Gattamelata e l’ Altare del Santo nell’omonima basilica.
Con quest’ultimo, una grandiosa macchina bronzea approntata tra il 1447 e il 1450, Donatello realizza il capolavoro della vita. Ciò che vediamo oggi è il frutto di vari rimaneggiamenti; in origine agli elementi bronzei doveva unirsi una costruzione architettonica che conteneva le statue a tuttotondo e i bassorilievi. Così, le statue della Vergine con il Bambino e dei sei santi erano alloggiate in una sorta di baldacchino posto su un alto basamento, ornato su tutti i lati dai rilievi con le Storie di sant’Antonio. Questi ultimi rappresentano il nuovo punto di approdo nell’incessante ricerca donatelliana del tumultuoso rapporto tra figura e ambiente: le scene sono affollate di personaggi che si accalcano nella parte inferiore del riquadro, secondo linee di moto fortemente dinamiche, mentre, l’ambiente è dominato dai fondali architettonici profondissimi e costruiti sul canone brunelleschiano. Lo stiacciato è confinato nei fondali, mentre le figure umane possiedono un rilievo maggiore, come si vede nel tumultuoso Miracolo del cuore dell’avaro. Nelle statue a tutto tondo, invece, Donatello sembra perseguire l’obiettivo di superare se stesso nel realizzare figure caratterizzate da masse compatte e, al tempo stesso, animate dalle tensioni dinamiche create dal modo in cui la luce scivola sugli aguzzi contorni.
Il ritorno a Firenze e il rapporto con Cosimo de’ Medici
Attorno al 1453 Donatello è uno degli artisti più richiesti d’Italia: il re di Napoli lo vorrebbe alla sua corte e così, da Mantova, Ludovico Gonzaga. Nonostante ciò, l’artista decide di tornare a Firenze, dove l’attendono la stima e l’affetto di Cosimo de’ Medici nonché un considerevole numero di commissioni per opere quasi esclusivamente bronzee.
Tra le poche opere non in bronzo spicca la commovente Maddalena in legno policromo (eseguita per il battistero di Firenze e ora al Museo dell’Opera del duomo), dove Donatello sottopone la figura a una vera e propria “scarnificazione”, al fine di renderne “al vivo” i patimenti fisici e spirituali. Questa immagine stride profondamente con il decorativismo neogotico allora imperante a Firenze grazie a Benozzo Gozzoli), pittore di corte mediceo, che nel 1459 decora la cappella di Palazzo Medici con il corteo dei Magi.
Questo mondo incantato, fatto di contrappunti compositivi e decorativi è lontano anni luce anche dalle due opere commissionate direttamente da Cosimo il Vecchio: Giuditta e Oloferne (1455 circa), e i due pulpiti tuttora nella chiesa di San Lorenzo (1463-1466 ca.).
Nella Giuditta, Donatello si misura con la rappresentazione di due figure in un’unica scultura. L’opera è articolata sulla sproporzione interna fra i due personaggi, con il corpo della figura femminile troppo esile rispetto alla testa: questo trasmette una sorta di squilibrio che accentua il movimento di Giuditta, pronta ad assestare il colpo definitivo sul collo di Oloferne. Non solo: Donatello fonde i due volumi, ponendo il corpo esangue dell’uomo tra le gambe della donna ed enfatizzando così la necessaria visione a 360° del gruppo scultoreo. Questo movimento elicoidale della visione, e quindi della significazione, è forse il lascito più importante di Donatello alle generazioni successive, anche se bisognerà attendere la scultura manierista del Cinquecento per averne la più compiuta attuazione. Il tutto è animato dalla consueta, sbalorditiva perizia tecnica nel rendere le vesti, i capelli, e persino la morbidezza del cuscino su cui poggiano le due figure, che evoca il letto in cui trova la morte Oloferne. Che quest’opera rappresenti per l’anziano scultore un punto di arrivo significativo è testimoniato dalla scelta di apporvi la firma OPUS DONATELLI FLO, cosa che l’artista non era solito fare.
Nel 1463, a circa 70 anni, Donatello avvia i lavori dei due pulpiti di tema cristologico per la chiesa medicea di San Lorenzo elaborando, con l’aiuto di Bertoldo di Giovanni e Bartolomeo Bellano, un lancinante poema della disperazione, dominato dalla foga e dall’espressività di figure tormentate che ben poco hanno di umano.
Né il committente, Cosimo de’Medici, né l’artista avrebbero mai visto il completamento dell’opera. Il grande scultore si spegne nel dicembre del 1466. L’ultimo sopravvissuto alla stagione esaltante del primo umanesimo fiorentino viene sepolto in San Lorenzo, in prossimità della tomba dell’antico amico Cosimo, con “esequie onoratissime” cui partecipano commossi “tutti i pittori, gli architetti, gli scultori, gli orefici e quasi tutto il popolo di quella città” (Vasari).