D'ASTI, Donato Antonio
Nacque a Bagnoli Irpino (Avellino) da Giambattista e Laura Pallante il 13 giugno 1673 (secondo altri il 15 giugno 1677). Di famiglia modesta, ma non digiuna di lettere - l'omonimo zio canonico, morto nella peste del 1656, aveva fama di dotto - si trasferì a Napoli in giovane età con il fratello Andrea, il quale entrò a bottega dal Solimena, divenendo poi discreto pittore. Qui il D. compì gli studi giuridici, ma nel silenzio delle fonti letterarie e archivistiche non è possibile precisare né date né circostanze della sua formazione. Svolse in seguito attività forense con un certo successo, benché sia rimasta notizia di una sola sua allegazione a stampa, preparata nel 1725 per l'Università di Bagnoli contro quella confinante di Nusco.
Frattanto, a partire dal 1720, su presentazione dell'autorevole consigliere Magiocco, egli aveva ospitato per qualche tempo Giovanni Pallante, suo conterraneo venuto a Napoli appena quindicenne per seguire gli studi di legge, il quale si sarebbe rivelato più tardi uno dei critici più acuti degli ordinamenti giudiziari e amministrativi del Regno. Presso di lui il Pallante trovò non solo una guida per la propria formazione e per la pratica nell'avvocatura, ma anche un ambiente erudito interessato e benevolo verso i suoi giovanili fervori poetici.
Alla stessa data, pubblicando il suo fortunato libretto, il D. si fregiava del titolo di avvocato presso la Real Camera di S. Chiara. Tuttavia non sembra ch'egli avesse un ruolo di spicco nella vita civile e professionale della città: il suo nome non compare nelle cronache della capitale, né nei superstiti archivi delle famiglie nobili, che pure ricorsero largamente al patrocinio dei legali più in vista per le loro frequenti contese giudiziarie.
Sfornito di beni di fortuna e d'"infermiccia complessione", come ricordò egli stesso (Dell'uso, II, Epist. dedic.), trascorse molti anni nella routine del foro, tormentato da "perigliosi malori" e assorbito da minute incombenze (ibid.), prima d'intraprendere, piuttosto tardi, la strada del ministero. Difatti l'inchiesta condotta sugli uffici centrali nel 1734. all'avvento di Carlo di Borbone, non solo non lo registra tra i magistrati, ma neppure tra gli avvocati da considerare per eventuali nomine. Vero è però che in quell'anno egli doveva trovarsi lontano da Napoli, come caporuota nell'Udienza di Matera.
Il 9 luglio 1735 fu nominato giudice della Vicaria civile, dove compare per la prima volta l'11 dello stesso mese. Sedette ininterrottamente nel tribunale fino al 18 luglio 1738, svolgendo una notevole quantità di lavoro e guadagnandosi considerevoli appoggi, anche attiaverso una pratica giudiziaria non sempre ineccepibile.
Una consulta della Real Camera di S. Chiara del 27 nov. 1737 (Arch. di Stato di Napoli, R. Camera di S. Chiara. Bozze di consulte, 18, cc. 309r-311 v) reca qualche traccia di una vicenda in proposito significativa. Per ordine del Tanucci, i consiglieri avevano esaminato la supplica di un tal Giordano, querelatosi contro il D. nel giudizio di sindacato che lo riguardava, per la parzialità dimostrata nel decidere di una sua causa. Il Giordano precisava che sia il proprio avversario sia il giudice D. "sono protetti da persone potenti, che occupano i migliori posti di questa Città", e domandava perciò "commettersi la causa a persone indipendenti". La Camera, esaminata "una distinta e voluminosa relazione della causa del sindacato del detto Giudice D'Asti, nella quale i Consultori, che conclusero il voto favorevole a detto Giordano, si sforzarono per tutte le vie giustificarlo, e rispondere ai motivi addotti in contrario dall'Avvocato del Giudice D'Asti", votò unanimemente che cessasse la sospensiva contro di lui e gli venissero rilasciate le lettere liberatorie; che fosse anzi comminato un "castigo" al Giordano ed al suo avvocato, con licenza però di esperire i rimedi di legge per ottenere un riesame della controversia.
Superato così l'incidente, il 27 luglio 1738 il D. fu promosso consigliere nel. Sacro Regio Consiglio. Prese possesso il 30, ma nel nuovo ufficio ebbe scarso impiego. Già il 6 apr. 1739 si dovette provvedere ad una supplenza per le poche cause a lui affidate; gli vennero tuttavia conservati gli emolumenti e la titolarità del ruolo, nel quale fu sostituito solo il 5 luglio 1742, alcuni mesi dopo la morte.
Probabilmente furono motivi di salute a tenerlo alquanto in disparte. Essi non impedirono comunque la nomina, nel 1741, a membro della giunta incaricata di ascoltare G. P. Cirillo due volte al mese, esaminare il lavoro svolto per il progettato codice carolino, discutere e riferire al sovrano. Il tentativo di codificazione procedette però in modo stentato e il suo contributo all'impresa fu modesto.
Morì a Napoli il 27 aprile 1742 e la successione in giunta, il 2 maggio, fu definita senza scosse, nei modi incolori di un burocratico avvicendamento.
La notorietà del D. è legata al suo breve e incisivo lavoro, Dell'uso e autorità della ragion civile nelle provincie dell'Imperio occidentale dal di che furono inondate da' barbari fino a Lotario II, pubblicato a Napoli presso Felice Mosca in due libri, rispettivamente nel 1720 e 1722, e dedicati il primo a G. Positano, il secondo a D. Almarz, entrambi reggenti a Vienna nel Consiglio di Spagna.
L'impulso all'indagine era venuto all'autore dall'esperienza di avvocato feudista, che l'aveva convinto come quella materia non potesse efficacemente affrontarsi senza una ricognizione accurata della storia giuridica medievale" delle "costumanze e leggi" dei popoli germanici insediatisi nei territori dell'antico Impero romano. Il primitivo progetto di "una distinta e compiuta storia della Ragion feudale" si era poi modificato e ridotto (Dell'uso, II, Epist. dedic.), ma era rimasto ben vivo il proposito di collegare il sapere giuridico con dei solidi fondamenti storico-critici. Con ciò lo scritto s'inseriva in una tradizione tipica della migliore giurisprudenza meridionale, a partire almeno da F. D'Andrea, e difatti proprio il D'Andrea, G. De Luca, G. V. Gravina e l'opera di A. Duck, alla cui fortuna napoletana molto aveva contribuito il D'Andrea, costituivano il riferimento costante del discorso del D., polemico quanto alle affermazioni sulla sorte del diritto romano nel Medioevo, ma non rispetto alla metodologia e alle ispirazioni culturali e ideali.
Sua tesi centrale era che il diritto giustinianeo fosse stato ininterrottamente osservato nell'età intermedia, certamente in Italia, ma anche altrove in Europa. La maestà della "ragion civile romana" non era mai caduta in completa "oblivione", quale che fosse stata, di epoca in epoca, la perizia nello studio delle sue fonti, sicché andava respinta la leggenda, già demolita da H. Conring circa cent'anni prima, ma tuttora tenace, di un suo ripristino ad opera d'una costituzione di Lotario Il il Sassone, e quella connessa con la prima di un dono da lui fatto ai Pisani dei manoscritto delle pandette ritrovato in Amalfi.
Quest'ultimo punto, di natura filologica, ma implicante anche sottili questioni interpretative della storia giuridica meridionale, fu considerato principalmente dagli scrittori contemporanei. Si collegava infatti con una disputa accesa proprio nel 1720 da Hendrik Brenkman e proseguita, tra gli altri, dal Grandi e dal Tanucci. Il contributo dei D. non era senza meriti di rilievo: nella sua monumentale Geschichte des Rdmischen Rechts im Mittelalter il Savigny lo avrebbe utilizzato più volte e gli avrebbe riservato una menzione onorevole. Di diverso avviso era stato invece P. Giannone. Il suo generico parere a favore, espresso su richiesta del Collaterale il 12 luglio 1720 per la concessione del permesso di stampa alla prima parte (Dell'uso II, antiporta), si chiarì in altre occasioni come una divergenza sdegnosa che può comprendersi solo considerando la dialettica delle posizioni pesenti nel riformismo preilluministico napoletano. Se infatti per il D. la maestà del diritto romano, conservatasi per comune "volere dei popoli" (Il tema ripeteva la dottrina giusratonalistica del consensus gentiun), rappresentava un principio irrinunciabile, edava corpo a quell'elemento potestativo, a quel requisito di aucroritas necessario, insieme alla ratio, a fondare il diritto positivo" (Aiello, p. 83), propno contro di essa muovevano le ricerche storiche dei giuristi meridionali, dirette a svelare la reale sostanza politica degli ordinamenti. Il D. sottolineava come la sua "fatica" non si riducesse a "nuda erudizione": al contrario essa rispondeva o a conosciuta necessità legale al bisogno di confermare il primato della "ragion Comune", idenfificandosi in essa la categoria medesima dei diritto, la sua sacertà sottratta all'opinione di indocti. Mostrava in tal modo di appartenere a quell'area consistente di giureconsulti, cui dette voce per esempio F. Rapolla, aperta alle ragioni culturali dei "moderni", ma restia ad abbandonare il terreno consolidato della tradizione, a rinunciare alle promesse di stabilità e alle funzioni di mediazione che affidava loro il sistema dei diritto comune.
Fonti e Bibl.: Notizie biografiche, piuttosto scarne, si leggono in L. Giustiniani, Memorie istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787, I, pp. 90 a.; G. De Rogatis. Cenni biogr. degliuomini illustri di Bagnoli Irtina. Avellino 1914, pp. 45 a.; A. Sanduzzi, Mem. stor. di Bagnoli Irpino, Melli 1922, pp. 476 es. (che fornisce la data di nascita del 1677 senza indicazione di fonte); F. Nicolini, Saggio d'un repertorio biobibliografico di scrittori nati o vissuti nell'antico Regno di Napoli, Napoli 1966, pp. 723. L'attività di giudice della Vicaria può ripercorrersi agevolmente attraverso i registri del tribunale, nell'Arch. di Stato di Napoli. Trib. antichi. Gran Corte della Vicaria, 1389-1394. Per l'episodio del 1737 cfr.: Ibid., R. Camera di S. Chiara. Bozze diconsulte, 1 s. cc. 309-311 ; per l'ufficio di consigliere cfr.: Ibid., Trib. antichi. S. R. Consiglio, 1277 (Liber descendentiarum), n. 370. 1 documenti relativi alla partecipazione alla giunta per il codice carolino sono indicati da R. Aiello Arcana iuris. Diritto e Politica nel Settecento ital.: Napoli 1976, p. 97. il quale esamim, alle pp. 82-83, il significato politico-culturale del libro del D'Asti. Per il giudizio dei Giannone, oltre alla lettera al fratello Carlo dell'8 apr. 1724 (Roma, Bibl. nazionale, ms. Vitt. Emanuele 358. cc. 90v-91r), cfr. le Osserv. critiche sopra l'Historia... composta dal Sig. Grimaldi, in Opere, a cura di S. Bertelli e G. Ricuperati, Mimo-Napoli 1971, p. 571. Ulteriori valutazioni sull'opera sileggono soprattutto in.: F. C. von Savigny, Geschichto des Römischen Rechts im Mittelalter, I,Heidelberg 1834, p. 9; F. Ciccaglione, D. A. D. e la cosmenza stor. italiana, Campobasso 1916; C. Ghialberti, G. V. Gravina giurista e storico. Milano 1962, pp. 141-49; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 138-41; G. Costa. Le antichità germaniche nella cultura ital. da Machiavelli a Vico, Napoli 1977, pp. 316-22; D. Marrara. D. A. D. e la Polemica pandottaria tra il Grandi e il Tanucci, in B. Tanucci statista letterato giurista. Atti del convegno, a cura di R. Aiello, Napoli 1985, pp. 75-106.