GIANNOTTI, Donato
Primogenito di Lionardo, di mestiere orafo, e di Alamanna Gherardini, nacque a Firenze il 27 nov. 1492.
Il suo primo maestro fu Marcello Virgilio Adriani, discepolo del Landino e del Poliziano, quindi successore di quest'ultimo allo Studio fiorentino e cancelliere della Repubblica. Il secondo fu il filosofo Francesco Cattani da Diacceto, discepolo di Ficino e figura di spicco nell'ambiente culturale cittadino. L'apporto specifico del Diacceto al platonismo rinascimentale fu, come è noto, lo sforzo di armonizzare Aristotele con Platone (e i neoplatonici), e proprio l'aristotelismo esercitò un'influenza durevole sul Giannotti. Alla scuola del Diacceto egli rimase in contatto con i giovani aristocratici già conosciuti presso l'Adriani: Alessandro Pazzi, Filippo e Lorenzo Strozzi, Pietro Vettori (suo corrispondente per più di quarant'anni), Luigi Alamanni e Antonio Brucioli. Momento decisivo della sua formazione fu la partecipazione al secondo periodo (1512-22) dei celebri incontri degli Orti Oricellari, dominato dalla figura di N. Machiavelli. La presenza del G. a questi raduni dell'élite culturale della Firenze postrepubblicana (vi si trovavano poeti, storici, politici: Zanobi Buondelmonti, Pietro Martelli, Giovanni Corsi, Palla, Giovanni e Cosimo Rucellai, Antonfrancesco Albizzi, Iacopo Nardi, Filippo Nerli) non è comprovata dai documenti, ma si può inferire dal fatto che i partecipanti fossero i suoi stessi compagni di studi. Per le medesime ragioni si può ipotizzare che egli facesse parte, nello stesso periodo, della Sacra Accademia Medicea, attiva tra il 1515 e il 1519, alla quale appartennero sia il Diacceto sia parecchi dei personaggi sunnominati.
Il primo frutto di tale formazione e clima spirituale fu un epigramma latino scritto in onore di Lorenzo de' Medici duca di Urbino, successivo quindi al giugno 1516. Di qualche anno più tardi (1520) è la commedia in terzine Milesia, i cui modelli sono l'Eunuchus di Terenzio e i Menaechmi di Plauto. Queste prime prove letterarie si intrecciano subito con forti interessi politici. All'ordine del giorno in quel giro d'anni erano la crisi più recente dello Stato fiorentino (crollo della Repubblica popolare e avvento del nuovo potere mediceo) e le conseguenti discussioni di riforma costituzionale. Sui problemi del governo di Firenze stavano allora lavorando sia F. Guicciardini (Dialogo del reggimento di Firenze) sia il Machiavelli (Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze). Il primo orientamento politico del G. fu influenzato, da un lato, dal contatto e dall'iniziale consonanza con gli ottimati moderati, dall'altro, dal forte stimolo della personalità del Machiavelli, con il quale egli fu in dimestichezza nel 1520-21, quando questi si accingeva alla composizione delle Storie fiorentine, il cui manoscritto fu nelle mani del Giannotti. Intanto egli continuava a usufruire di importanti appoggi e del favore mediceo: la sua prima epistola latina conosciuta (XXXII, ed. Starn), scritta a nome di un amico nel novembre-dicembre 1523 e diretta al neoeletto papa Clemente VII, combina la competenza retorica di un abile segretario con i toni di un'accorta adulazione.
Grazie a tali amicizie importanti e ai suoi meriti di letterato, il G. fu nominato (13 giugno 1521) insegnante di retorica, poetica e lettere greche all'Università di Pisa. Ricoprì tale incarico, con un salario annuo di 90 fiorini, almeno fino al 1525, quando ottenne un congedo temporaneo dall'insegnamento e raggiunse a Padova il genero di Niccolò Capponi, Giovanni Borgherini.
Questo primo soggiorno veneto durò dal giugno 1525 al novembre 1526. Il G. si recò in Veneto non come agente della fazione antimedicea, come aveva supposto il Sanesi, ma per raccogliere informazioni precise sul funzionamento dello Stato veneziano. Il mito della esemplarità del governo veneziano (come costituzione mista: monarchia-oligarchia-democrazia) si era formato in ambiente umanistico già nel sec. XV. Tuttavia, indipendentemente dal modello ideale (improntato a Platone, Aristotele e Polibio) di Venezia, si apprezzava la libertà e la stabilità interna (il Machiavelli, come si sa, non condivideva però tali apprezzamenti). Gli ottimati moderati antimedicei avrebbero voluto adattare a Firenze un simile modello, e il G. in quel momento era assai vicino a tale prospettiva politica, come provano anche le sue frequentazioni.
Dall'esperienza del soggiorno a Padova e a Venezia nacque la prima stesura del Libro della Republica de' Vinitiani che, insieme con il De magistratibus et Republica Venetorum di Gasparo Contarini, rimane quanto di meglio sia stato scritto su Venezia in quel periodo (da parte del G. con particolare sistematicità e realismo). Ritornato in patria all'inizio del novembre 1526, il G. non restò molto tempo a Pisa (o a Firenze), ma sollecitò l'ambasciatore filomediceo Alessandro Pazzi a portarlo con sé a Venezia. Così, nel febbraio 1527 ripartì, forse senza essere neppure retribuito, visto che prima di partire chiese un prestito in denaro (contraeva spesso debiti, come ha documentato il Ridolfi). Durante la legazione le sue mansioni dovettero essere quelle di cancelliere dell'ambasciatore e ciò spiegherebbe la sua perfetta conoscenza dei carteggi segreti. Però è molto probabile che il Pazzi si servisse di lui anche per il disbrigo di altri incarichi di particolare fiducia. Intanto egli approfondiva la sua conoscenza del sistema di governo veneziano e ciò portò a una revisione della prima stesura dell'opera sulla costituzione veneziana, che assunse in tal modo la sua forma pressoché definitiva. Questa rielaborazione si concluse nell'estate del 1527; dopo il 1530 furono apportate altre correzioni, ma non di rilievo: l'opera - l'unica pubblicata vivente il G. - vide però la luce solo nel 1540 a Roma (per i tipi di A. Blado), con dedica a Francesco Nasi, uno dei capi della rivolta antimedicea.
La Republica de' Vinitiani, che ha la forma di dialogo umanistico, non va letta solo come risposta a determinati problemi pratici, quali la debolezza del potere mediceo e l'incertezza della situazione politica. Primo frutto maturo della riflessione politico-istituzionale del G., essa sanziona la superiorità di Venezia su Roma e opera un significativo rovesciamento del punto di vista machiavelliano, proponendosi come punto di riferimento importante dell'elaborazione successiva, non solo del Giannotti.
Il 16 maggio 1527 scoppiò la rivolta a Firenze: i Medici furono cacciati per la seconda volta e Niccolò Capponi venne eletto gonfaloniere. Questi scrisse al G. perché gli inviasse un "resunto" della costituzione veneziana, cosa che probabilmente il G. fece, ma la richiesta lo indusse a partire subito e a metà luglio arrivò a Firenze. Qui, il 23 settembre, divenne segretario dei Dieci della libertà e pace, occupando, per interessamento del Capponi e del suo entourage, quel posto che era stato del Machiavelli e venendo a gestire un grande potere, con compiti gravosi (come testimonia la lettera del 20 apr. 1528 a Niccolò Guicciardini, nipote di Francesco). La scelta del Capponi si spiega anche con altri motivi, che personalità ostili e pettegole, come G.B. Busini, non mancarono di sottolineare. Il G., infatti, si era adoperato per far sposare una figlia del Capponi al ricco Francesco Nasi; ma si trattava di un semplice ufficio di mediatore, che egli esercitò anche in seguito e che era abbastanza comune tra gli umanisti del tempo. Poco dopo il suo rientro a Firenze il G. aveva anche cominciato a comporre il Discorso sopra il formare il governo di Firenze, che fu presentato al Capponi e completato alla fine del 1528. Prima del 6 nov. 1528 lesse alla Signoria anche il Discorso di armare la città di Firenze.
Nel primo dei due scritti l'individuazione dei massimi poteri (Consiglio grande, Senato, gonfaloniere a vita, Dodici procuratori) è vicina alle tesi del Guicciardini del Dialogodel reggimento di Firenze e in linea con gli orientamenti della discussione politico-teorica fiorentina dal 1494 in avanti. L'idea della "quarantia", inoltre, rimanda direttamente al modello veneziano. Il discorso di materia militare è un caldo appello a formare una milizia cittadina per rafforzare la difesa della città contro l'armata imperiale. Malgrado le diffidenze dei moderati, la proposta del G. passò e furono riprese anche molte sue indicazioni di dettaglio. I due discorsi, uniti alla Republica de' Vinitiani, formano nell'insieme un programma politico unitario, il cui apparato concettuale e modello costituzionale, illustrato sistematicamente nell'opera maggiore, sono destinati a informare buona parte dell'opera successiva del Giannotti.
Nelle vicende drammatiche dell'ultima Repubblica fiorentina il G. seppe tenere una condotta retta, anche dopo che, il 17 apr. 1529, fu allontanato dal potere il moderato Capponi (egli disapprovò la sua esautorazione e seguitò a rimanergli legato). Rimase segretario dei Dieci, pur non condividendo la politica troppo "popolare" dei gonfalonieri successivi (Francesco Carducci e Raffaello Girolami), e si adoperò con estrema energia alla difesa di Firenze contro gli assedianti. Mise Francesco Ferrucci a capo del corpo di spedizione che quasi riuscì a spezzare l'assedio e lavorò a stretto contatto con uno dei più abili capitani, Stefano Colonna. Sempre in questa occasione strinse amicizia con Michelangelo, che faceva parte dei Nove della milizia. Dopo la capitolazione di Firenze, nell'agosto 1530, i Dieci furono allontanati e sostituiti con gli Otto di pratica. Anche il G. fu estromesso e non ebbe alcun posto nella nuova Cancelleria. Alla fine del settembre 1530 presentò a Iacopo Salviati, molto influente alla corte pontificia, una lettera di raccomandazione di G. Benivieni; ma fu tutto inutile e il 17 ottobre fu imprigionato durante l'epurazione condotta con la segreta approvazione di papa Clemente VII. Non se la cavò senza tortura e, secondo la testimonianza del Varchi, a stento ebbe salva la vita. Il 17 dicembre fu condannato a tre anni di esilio, da scontare entro un raggio di 20 miglia da Firenze dietro cauzione di 500 fiorini, che fu pagata per lui da N. Ardinghelli. Il 31 dicembre fu rilasciato e subito annunciò al cugino Gherardo Gherardini che si sarebbe diretto verso Prato in osservanza della sentenza. Tra "speranza e paura" arrivò alla sua villa di Le Poggiora (oggi Le Poggiolla) vicino a Comeano, proprietà che aveva in comune con il fratello Giannotto, di mestiere orafo, come il padre. Lì lo raggiunsero la madre e la sorella. Cominciò a condurre una vita precaria (anche per l'esiguità del suo patrimonio), consolandosi con gli studi e cercando di rifare i conti con il proprio passato.
Le epistole I-XV (ed. Starn), scritte tra gennaio e maggio 1531, descrivono ansie e aspettative dei primi tempi dell'esilio a amici e protettori, sia a Roma, sia a Firenze. Tra i primi vi erano i cardinali Benedetto Accolti e Andrea Della Valle (presso costui si dava da fare in favore del G. anche il fratello Giannotto), Antonio Suriano (ambasciatore veneziano a Roma), Giovanni di Alessandro Pazzi (governatore papale), Braccio Martelli (vescovo di Fiesole). Tra i secondi vanno ricordati: Gherardini (che lo teneva informato delle intenzioni del nuovo regime), Giovanni Borgherini e N. Ardinghelli. Quest'ultimo sondava gli umori di alcuni aristocratici (Alessandro e Matteo Strozzi) che, già favorevoli al Capponi, si erano poi estraniati dalla Repubblica durante la sua fase più "radicale" e si erano quindi riavvicinati ai Medici. Chiaramente, su costoro il G. non avrebbe potuto fare affidamento (comunque a Niccolò Guicciardini chiese - epistola del 22 gen. 1531 - di non dover pagare nuovi tributi). Attese deluse furono pure quelle riposte nel papa, a cui scrisse tre volte, fiducioso nella sua clemenza, sperando invano che almeno fosse resa giustizia al suo disinteresse.
Intanto, fra il gennaio e il marzo 1531 il G. compose i primi due atti della commedia Ilvecchio amoroso, pensando di dedicarla ad Alessandro de' Medici. Scritta in prosa e finita solo nel 1536, fu invece dedicata a Lorenzo Strozzi.
La trama, imperniata sull'amore senile dell'agiato Teodoro e sulla sua crudeltà nei confronti della moglie e del figlio, non è solo il pretesto di un divertimento umanistico, ma l'occasione per una realistica descrizione dei conflitti generazionali.
Gli interessi letterari del G. (che sempre avvertì la tensione tra vita contemplativa e vita attiva, secondo la celebre dicotomia umanistica) si esplicarono, in questo periodo, negli studi dedicati alle Categorie e alla Topica di Aristotele, nella traduzione del Quadripartitum di Tolomeo (la passione per l'astrologia lo portò a interessarsi in seguito anche all'Almagesto) e dei Memorabilia di Senofonte, nei progetti di tragedie su Bruto e sulla Passione di Cristo e negli studi danteschi ("tanto mi diletta questa vita solitaria, accompagnata, oltre agli studi, da infiniti piaceri rusticani", così nella lettera a Marcantonio Michieli del 30 giugno 1533). Ma egli non dimenticava i suoi interessi teorico-politici. Il 14 nov. 1531 completò la prima stesura del grande trattato in quattro libri Della Repubblica Fiorentina, pensando di dedicarlo a papa Clemente VII (il lavoro ebbe in realtà tre stesure e, compiuto nel 1538, fu dedicato al cardinale N. Ridolfi).
L'opera comincia con lo stabilire, sulla scorta di Aristotele, i fondamenti teorici del governo "misto". Le città più adatte ad applicare tale tipo di costituzione sono quelle "nelle quali sono pochi grandi, pochi poveri, assai mediocri" e Firenze è tra queste. Vi sarebbero dunque tutte le condizioni per un buon governo, a patto di correggere i difetti delle magistrature repubblicane precedenti, oscillanti tra "tirannia" e inefficienza (il G. condivise con F. Nerli, B. Varchi e B. Segni la paura degli eccessi contrari: la "licenza" popolare e la "tirannide" del despota). Solamente il Consiglio grande e il gonfalonierato a vita si erano mostrati, secondo il G., all'altezza della situazione, e andavano quindi conservati anche nella costituzione della nuova repubblica da lui auspicata. Il lungo lavorio di correzione (gran parte del libro I e il capitolo finale del libro IV sono aggiunte posteriori) testimonia, da un lato, una sempre maggiore presa di distanza dagli ottimati, dall'altro, la coscienza più o meno oscuramente avvertita dell'esaurirsi della mediazione politica dinanzi all'acutizzarsi dei conflitti sociali. La piramide istituzionale teorizzata dal G. (dal Consiglio grande al gonfaloniere) dovrebbe distribuire e bilanciare i poteri, rimediando ai difetti delle costituzioni precedenti. È interessante notare che egli prevedesse una estensione del Consiglio grande oltre la limitazione tradizionale ai soli cittadini "beneficiati" (a cui apparteneva lui stesso). Tuttavia, l'evoluzione irreversibile di Firenze verso il principato, il cristallizzarsi della situazione economica (dipendenza dei gruppi aristocratici da rendite parassitarie) e il quadro internazionale (preponderanza assoluta in Italia di Francia e Spagna) rendono utopici molti aspetti del trattato.
A qualche studioso (Cantimori) il G. è sembrato accademico e dottrinario, mentre qualcun altro lo ha rivalutato, sul lungo periodo, come precursore di idee liberali. Egli sembra, piuttosto, un autore che, a conclusione di un ciclo illustre di elaborazione teorico-politica, apertosi a Firenze nel 1494, sposta ormai l'asse del discorso dal piano dei fondamenti della teoria del potere (Machiavelli) a quello dell'ingegneria istituzionale. Ciò rispecchia sia mutamenti di fatto (fine della funzione della città-Stato), sia delusioni personali e la lealtà ai valori del repubblicanesimo cittadino.
Nel 1533 il G., insieme con altri esuli, si vide inasprire il confino e si ridusse a Bibbiena. Qui si trovò peggio e per consolarsi pensò anche di scrivere la storia di Firenze dal 1527 al 1530 (lettera a B. Varchi del 16 giugno 1547). Però, non potendo disporre della documentazione originale, non ne fece nulla. Solo tre anni dopo poté ritornare a Comeano, grazie all'interessamento dei cardinali Della Valle, P.E. Cesi e Ridolfi. Nel 1535 i fuorusciti fiorentini e i cardinali di parte antimedicea (Ridolfi e G. Salviati) si appellarono a Carlo V a Napoli per allontanare dal governo di Firenze il duca Alessandro, reo di vessazioni e condotta scandalosa. Il proposito non andò a effetto, ma nel marzo 1536 fu concessa un'amnistia per i condannati al confino. Il G. ebbe quindi facoltà di tornare a Firenze, ma preferì risiedere per la maggior parte del tempo in campagna. Tra i frutti del periodo di esilio bisogna ancora annoverare il Discorso delle cose d'Italia al santissimo padre e nostro signore papa Paolo III, del 1535.
L'imperatore aspira al dominio assoluto in Italia e questa corre, secondo il G., "pericolo di non venire nell'ultima subiezione". L'unica possibilità di spezzare questo processo sarebbe un'alleanza degli Stati italiani - Papato, Genova, Siena, Firenze, Venezia - insieme con Francia e Inghilterra contro l'imperatore. Mentre riconosce realisticamente che dai principi italiani c'è ben poco da aspettarsi, il G., come esule, seguita a sperare che si possa cogliere questa "occasione" per rovesciare la tirannia e restaurare la Repubblica a Firenze.
Fra il novembre 1536 (partenza per Roma) e il gennaio 1537 rinsaldò l'amicizia con il cardinale Ridolfi e il fratello di questo, Lorenzo. Sicuramente dovette ricevere dal Ridolfi incoraggiamenti a continuare la sua riflessione per un diverso assetto dello Stato fiorentino. Dopo l'uccisione del duca Alessandro (7 genn. 1537) il G. seguì a Firenze l'amico cardinale per contestare l'elezione di Cosimo de' Medici e favorire il ritorno della Repubblica. Tale iniziativa non ebbe esito, anche per i dissensi scoppiati tra gli esuli, e il G. passò a Bologna (marzo 1537), ormai unitosi apertamente ai fuorusciti. Agli anni del fuoruscitismo militante, e comunque prima del 1540, sembra doversi datare il Discorso intorno alla forma della Repubblica di Firenze.
Il 31 maggio 1537 il G. compì una missione ufficiale presso Cosimo per trovare un compromesso, ma anche questo tentativo fallì. Nei due anni seguenti si impegnò a cercare di mediare i contrasti, nel campo dei fuorusciti, tra gli aristocratici (specialmente quelli più conservatori, di cui era leader il cardinal Salviati) e i democratici ("popolani", come l'amico Iacopo Nardi). I suoi movimenti come agente del Salviati erano segnalati, però, da un informatore segreto dei Medici, che forse era A. Brucioli (come ipotizza lo Starn), nei cui Dialogi il G. compare come personaggio. Comunque, finì per sentirsi progressivamente disgustato degli intrighi e dei dissensi dei fuorusciti e deluso degli aristocratici (incluso il cardinal Salviati). Dopo il fallimento della spedizione degli antimedicei a Montemurlo, il 1° ag. 1537, espresse la sua contrarietà nelle lettere al Varchi e si ritirò nel Nord Italia, passando da un centro di fuorusciti all'altro. In seguito, e per tutto il resto della sua vita, rimase coerente con le sue idee repubblicane e non si adattò mai al principato mediceo, come fecero il Varchi e, soprattutto, l'Alamanni. Nel 1538 accettò l'invito del Salviati a Venezia e vi rimase fino a metà del 1539. Infine, rifiutato il posto di precettore alla corte di Ferrara procuratogli dal Bembo, nell'autunno del 1539 passò a Roma al servizio del cardinal Ridolfi, nel quale ormai riponeva le sue speranze sia per il proprio avvenire, sia per quello repubblicano di Firenze.
Grande aristocratico fiorentino (nipote, per parte di madre, di Lorenzo il Magnifico e cugino di Clemente VII), arcivescovo di Firenze e vescovo di Vicenza, Niccolò Ridolfi era grande protettore di lettere e arti. Più della metà delle Epistolae del G. edite dallo Starn sono collegate a lui, e dalla XVIII alla XXVIII sono dirette allo stesso cardinale. Il G. fu anche amico personale di Lorenzo, fratello del cardinale, e appianò spesso i contrasti tra i due fratelli grazie alla mitezza del suo carattere e alla piacevolezza del suo parlare.
Impegnato nel lavoro di segreteria, negli oltre dieci anni che fu al servizio del cardinale, il G. risiedette in generale a Roma, ma lo seguì spesso in diversi viaggi: a Bagnaia (dove era la magnifica villa del Ridolfi), a Vicenza (è bellissima la descrizione dell'entrata trionfale del cardinale nella città festante e ricoperta di iscrizioni celebrative che il G. dà nella lettera del 21 sett. 1543 a Lorenzo Ridolfi), e a Venezia. Consigliere politico del cardinale, che cercava di mettere Cosimo "in sospetto dell'imperatore" (degli intrighi del Ridolfi il G. parla nella lettera dell'11 maggio 1540 a Silvestro Aldobrandini), poteva contemporaneamente giovarsi della sua ricchissima biblioteca e frequentare letterati e studiosi (G.M. Molza e G. Della Casa tra gli altri, mentre i rapporti con P. Giovio erano freddi). Dunque, malgrado qualche lamentela sulla sua condizione, si può dire che questo fu uno dei periodi più felici della vita del Giannotti. Le numerose lettere a P. Vettori, che si giovava della sua consulenza, e le Epistolae, mostrano un uomo pieno di fervore intellettuale. Coltivava ancora l'ideale repubblicano (in una epistola al cardinal Ridolfi, forse dell'agosto 1541, fa l'elogio di Lorenzino de' Medici che "saevissimum tyrannum interfecit", ed. Starn, XXVIII, p. 142), ma la sua attività prevalente diventò quella letteraria.
Nel 1541 compose la prima redazione di un'opera di erudizione storica, l'Epitome historiae ecclesiasticae, che dedicò al Ridolfi; seguitò a lavorarci fino al 1547 e la completò nel 1549, ma continuò a rimaneggiarla in seguito. A Roma nel 1542 aveva rinnovato l'amicizia con Michelangelo, che gli sottopose i suoi versi per una revisione. Nel 1546 scrisse i Dialogi de' giorni che Dante consumò nel cercare l'Inferno e 'l Purgatorio, nei quali, appunto, Michelangelo compare tra i personaggi.
Nel 1547 ottenne dal cardinale la prepositura di Crema (rendita di 300 ducati) senza dover prendere l'abito ecclesiastico. Dopo la morte del Ridolfi, nel 1550, entrò al servizio del cardinale François de Tournon e vi rimase fino al 1562. Il Tournon, che rappresentava gli interessi della Francia presso la Curia romana, fomentò la ribellione di Siena alla Spagna nel 1552. La "guerra di Siena" durò due anni e finì male per i Senesi e i loro sostenitori francesi. Per l'occasione il G. scrisse il Discorso sopra il riordinare la Repubblica di Siena (1552), delineando un governo libero, ma stabile, del tipo "misto". Al seguito del Tournon egli poté fare nuove esperienze sia letterarie, sia diplomatiche: si recò due volte in Francia (a Lione, ma non a Parigi, a causa di una malattia), poi a Venezia, quindi a Roma, dove seguì il conclave del 1559 da cui uscì eletto papa Pio IV.
Morto il Tournon nel 1562, si stabilì a Venezia in una casa di sua proprietà, acquistata grazie alle rendite lasciategli dal Ridolfi e dal Tournon. Da uomini come lui Venezia era ormai considerata la depositaria dei valori umanistico-rinascimentali della vita civilis contro il potere principesco. In questi anni scrisse la Vita di Girolamo Savorniano, contributo alla biografia militare, plutarchiana, moralistica e repubblicana, già sperimentata con il Sulla vita e sulle azioni di Francesco Ferrucci, del 1547, e rimaneggiò l'Epitome historiae ecclesiasticae. Nel 1566 si trovava a Padova, in contatto con gli studiosi di quella Università (tra gli altri, il grande erudito Giovan Vincenzo Pinelli). Le lettere degli ultimi anni, quelle a Filippo Ridolfi, nipote di Niccolò, a Pietro Vettori e a Stefano Colonna, abbondano più che altro di osservazioni erudite e filologiche sugli autori classici, di informazioni su libri, di commenti su edizioni di testi.
Nell'agosto del 1571 decise di trasferirsi, malgrado la tarda età, a Roma, forse pensando di ottenere un incarico in Curia, grazie all'interessamento dei cardinali Aldobrandini e M.A. Maffei. Giunto a Roma, nell'ottobre fu nominato da Pio V segretario ai brevi. A causa della salute malferma non poté però esercitare l'ufficio, e ne fu privato. Dopo la morte del papa, dedicò l'Epitome, ormai compiuta e ricopiata, al successore Gregorio XIII.
Di lì a poco, ormai aggravatosi, il G. morì a Roma il 27 dic. 1573.
Opere: Opere politiche e letterarie, a cura di F.L. Polidori, I-II, Firenze 1850 (a tutt'oggi l'edizione più completa delle opere del G.); Lettere a Piero Vettori pubblicate sopra gli autografi del British Museum, a cura di R. Ridolfi - C. Roth, Firenze 1932; Dialogi de' giorni che Dante consumò nel cercare l'Inferno e 'l Purgatorio, a cura di D. Redig de Campos, Firenze 1939; R. Starn, D. G. and his Epistolae; Biblioteca universitaria Alessandrina, Rome, Ms. 107, Genève 1968; Opere politiche, a cura di F. Diaz, I-II, Milano 1974 (il II vol. contiene le Lettere italiane); Repubblica Fiorentina, a cura di G. Silvano, Genève 1990.
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