JAJA, Donato
Filosofo, nato a Conversano nel 1839 e morto il 15 marzo 1914 a Pisa, dove insegnava dal 1887 filosofia teoretica all'università. Venuto a Napoli verso il 1860, fu scolaro di Francesco Fiorentino, e lo seguì quando questi passò a insegnare all'università di Bologna, rimanendovi fino al 1868. Ivi conobbe l'hegeliano Angelo Cammillo De Meis, e per mezzo suo Bertrando Spaventa, la stima del quale si veniva facendo sempre maggiore anche nell'animo del Fiorentino. Ma solo più tardi il pensiero dello Spaventa cominciò a esercitare reale efficacia su quello dello Jaja. Egli divenne, così, uno dei più appassionati e acuti iuterpreti del pensiero hegeliano in Italia e a tali studî iniziò, negli ultimi anni del secolo, il suo scolaro Giovanni Gentile, che poi gli successe nella cattedra.
Già nella dissertazione di laurea, del 1869, Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant, il punto di vista critico è quello fichtiano, dell'esigenza che l'oggetto non sia dato allo spirito ma "si faccia" in esso: e sullo stesso piano è l'analisi del concetto kantiano di sintesi a priori contenuta nella critica del libro di A. Franchi Su la teoria del giudizio, che lo J. pubblicò nel 1872, e l'esame della Teosofia rosminiana, del 1878. Una piena adesione alla concezione hegeliana dell'essere e del divenire, nell'interpretazione gnoseologico-attualistica che di tale divenire aveva dato lo Spaventa, è invece già nella difesa degli Elementi di filosofia del Fiorentino, ch'egli fece, nel 1879, contro le critiche del Mamiani: e l'idea dell'assoluta apriorità del pensiero e dell'io si trova approfondita negli scritti seguenti: Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza (1883); L'unità sintetica kantiana e l'esigenza positivista (1885); Sentire e pensare (1886); La somiglianza nella scuola positivista e l'identità della metafisica nuova (1888); L'intuito nella conoscenza (1894); Teoria del conoscere, I (1894); Ricerca speculativa (1893). Torna in tutti questi scritti insistente l'esigenza di considerare il pensiero non come "fatto" ma come "farsi", e quindi di ritener suo prodotto lo stesso mondo oggettivo: esigenza che, rimasta incerta nello J., ha ricevuto poi completa soddisfazione nell'attualismo del Gentile.
Bibl.: G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, III, ii, Messina 1923, pp. 192-223.