VELLUTI, Donato
VELLUTI, Donato. – Nacque a Firenze il 6 luglio 1313 da Lamberto di Filippo e da Giovanna di Piccio Ferrucci (La cronica domestica..., a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, 1914, pp. 54 e 154).
Secondo quanto egli stesso scrisse (in età avanzata; cfr. infra), la famiglia per tradizione orale proveniva da Semifonte – il castello valdelsano distrutto da Firenze nel 1202 – e si era certamente inurbata prima del 1244, come dimostrava un documento in suo possesso relativo al bisnonno Bonaccorso di Piero e ai tre fratelli, «i quali insieme stavano, e loro era il torrione ch’è nella via dal Canto de’ quattro Paoni, la seconda casa da mano ritta andando in piazza a casa Guicciardini; e faceano alcuna mercantia, e teneano alcuno fondaco, in Borgo Sa’ Iacopo: però che allotta non era via Maggio nè accasato, anzi era orti, e chiamavasi Casellina» – ovvero si erano insediati nell’allora sesto di Oltrarno, poi quartiere di Santo Spirito, nella zona delle attuali via Maggio, via de’ Pavoni, via Velluti e via Vellutini, di presso al ponte di Santa Trinita – «e moltiplicando in avere e persone venne volontà [...] d’abitare meglio e fare altrove fondaco; e comperarono il terreno dove è il palagio oggi in Via Maggio [...] e ’l terreno di dietro ove sono le case mie [...] il quale costò poco, però che ogni cosa era orto, e chiamavasi Casellina per una casellina sola ch’era ivi presso, ed era fuori delle mura della città» (cfr. rispettivamente La cronica domestica..., cit., pp. 4-8 e p. 5 nota 4; Pirillo, 2007, pp. 83-126).
Donato abitò sempre in queste case, edificate alla fine del Duecento dopo il matrimonio dei genitori, e che a seguito della morte di parenti e consorti per la peste del 1348 divennero poi tutte di sua proprietà (ibid., pp. 7, 37, 59, 79, 91, 112). E non molto distante, nelle campagne di Arcetri e di San Miniato al Monte, possedeva anche campi e prati, che nel 1364, al tempo della guerra tra Firenze e Pisa, ebbe la sventura di vedere devastati da una scorreria nemica (pp. 237 s.).
Proseguendo l’attività di famiglia, il bisnonno Bonaccorso di Piero si era associato i nipoti e aveva fondato una compagnia commerciale in grado di operare tanto sulle principali piazze italiane – Bologna, Genova, Milano, Pisa, Roma, Venezia – quanto all’estero – sia in Francia sia in Inghilterra (La cronica domestica, cit., pp. 8 s.). Il padre Lamberto di Filippo, nato nel 1268, era divenuto anch’egli un «grande mercatante», e aveva trascorso la maggior parte della vita lontano da Firenze, all’inizio lavorando per la compagnia di famiglia a Milano e in Francia, dopo il 1310 dividendosi dai fratelli e ponendosi in proprio o associandosi con altri, per trafficare ancora in Francia, precisamente a Carcassonne e ad Avignone, e quindi a Tunisi; si era sposato con Giovanna di Piccio Ferrucci, anch’ella figlia di un mercante, il 22 gennaio 1298, e da lei aveva avuto i figli Donato, Filippo, Piccio, fra Lottieri e Romolo; divenuto vedovo negli anni Venti, e risposatosi con Diana di Marignano Bagnesi intorno al 1335, era morto nel 1340 (ibid., pp. 67, 105, 111 s., 114 s., 117-119, 121 s.).
La Cronica consente di seguire con ricchezza di particolari anche l’infanzia di Velluti, che annovera episodi singolari, come un rapimento a scopo di riscatto nel 1323 («essendo d’età di diece anni o quello torno»: ibid., p. 27); Donato fu condotto dopo varie vicissitudini presso Castruccio Castracani a Lucca, che lo restituì infine alla famiglia.
I suoi rapporti con i discendenti di Castruccio restarono comunque buoni, se una trentina di anni dopo, intorno al 1360, un nipote del Castracani si rivolse a Donato perché facesse da mediatore nella cessione delle sue terre in Garfagnana al Comune di Firenze (ibid., p. 227).
La formazione di Donato Velluti fu adeguata al suo rango. Fu posto infatti dai genitori al trivio – «apparai grammatica, e poi logica» –; ma in seguito decise di non seguire la tradizione familiare, preferendo alla mercatura lo studio del diritto, per il quale si trasferì, ancora adolescente, a Bologna nel 1329, risiedendovi per quasi un decennio – «ove stetti da otto a nove anni» –. Ne fuggì una prima volta in occasione della caduta del regime del cardinale Bertrando dal Poggetto, nel marzo del 1334; vi rientrò forse nel 1335 («tornai uno anno a Firenze. Ove stetti da sei mesi»), e la abbandonò definitivamente al tempo del primo interdetto sulla città, nel maggio del 1338, per la conseguente interruzione dell’insegnamento universitario (cfr. rispettivamente La cronica domestica..., cit., pp. 67, 91, 131, 144, 157).
La sospensione dell’attività dello Studio bolognese rovinò i programmi di Donato, il quale doveva aver già superato il tentamen ed essere ormai baccalarius ad privatam admissus, perché aveva già provveduto alle spese della privata: «checchè male avessi da spendere, e’ danari della privata essaminazione, ch’erano fiorini XL, m’avea mandati mio padre: ma veggendo, che già la maggiore parte degli scolari erano partiti, e questo si fa per onore, per tanto non mi essaminai»; lontano dai maestri bolognesi si ridusse a studiare privatamente, frequentando assieme al compagno messer Ugo di Piero Altoviti la casa di Gherardo Manetti a Careggi, ove terminò l’analisi del «libro si leggea in quello anno a Bologna, che si chiama Digesto vecchio» (ibid., pp. 157 s.; Bellomo, 1991, pp. 438 s.).
Interrotta senza colpa la carriera universitaria – ma Altoviti seguì il celebre maestro Ranieri Arsendi da Forlì trasferitosi a Pisa – Donato si ritrovò a esercitare, bon gré mal gré e in modo del tutto casuale, la professione giuridica. Il consorte Piero di Gherardino, che era stato eletto capitano del Popolo di Colle Valdelsa per la fine del 1338 e i primi mesi del 1339, lo convinse a seguirlo e a svolgere la funzione di giudice nel castello valdelsano ai suoi ordini, e dopo il ritorno in città «n’andai a Palagio, ove da’ giudici e notari fui veduto e onorato: e così praticando a Palagio e in Comune, era assai richiesto» (La cronica domestica..., cit., pp. 158 s.). Questa frequentazione di Palazzo Vecchio, unita all’esercizio delle numerose magistrature cittadine, gli dette visibilità, procacciandogli una nutrita clientela.
Pur lamentandosi che gli incarichi pubblici sottraevano tempo alla sua attività di professionista del diritto e che rappresentavano una rimessa in termini di entrate economiche, tanto da essere indotto spesso a rifiutarli adducendo come scusa i ricorrenti attacchi di gotta, lui stesso riconobbe che dopo tutto «è vero, che in un’altra parte mi furono gli onori del Comune assai utile, imperò che fu’ per essa cagione, e per mio procaccio, Savio quasi del continuo de’ sindachi de’ Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli e Bonaccorsi, e di molti altri, con buoni salarî e provvisioni [...] sì che, per essa cagione, del danno e sconcio ricevea di mia arte, mi ristorava, ma non dello isviamento» (ibid., pp. 154, 189 s.).
Fu certamente grazie ai guadagni ottenuti con le sue consulenze giuridiche che poté separarsi dai fratelli, dividendo il patrimonio comune alla metà degli anni Quaranta, e in seguito riacquistarne varie porzioni (pp. 190-192).
A partire dai primi anni Quaranta, si dedicò anche, con impegno e con successo, alla vita politica e amministrativa.
I Velluti potevano vantare una lunga tradizione di impegno nella politica: Mico di Donato fu catturato assieme ad altri consorti nella celeberrima battaglia di Montaperti del 1260, mentre Filippo di Bonaccorso combattè in quella di Campaldino tra le fila dell’esercito fiorentino, il che indica l’adesione della famiglia alla parte guelfa almeno dalla seconda metà del Duecento (ibid., pp. 27 e 75). Sebbene fossero popolani, sempre Filippo di Bonaccorso favorì la cacciata di Giano della Bella – il fautore degli Ordinamenti di Giustizia contro i magnati – nel 1295, ricavandone un’imperitura inimicizia, che accomunava l’intero lignaggio, perché qualche anno dopo, esule alla corte di Filippo il Bello re di Francia, il della Bella si adoperò per far condannare a morte Donato di Mico, colpevole di un omicidio (ibid., pp. 29 s. e 75).
Donato percorse dunque un’ottima carriera negli uffici di governo della città: fu gonfaloniere di Giustizia nel 1351 e 1370, priore delle Arti nel 1342 e 1356, buonuomo tra il 1347 e il 1348 e nel 1352 e 1366, gonfaloniere di Compagnia nel 1349 e 1361. Ricorda queste cariche con precisione nelle sue memorie, laddove sorvola su quelle relative alla semplice amministrazione, probabilmente sia per la minore importanza sia per il loro alto numero: «succedendo in molti altri ufici di Comune, come de’ Dodici da Pistoia e d’Arezzo, e in più altri [...] fui all’uficio della Grascia, de’ Difetti, e Gabellieri grossi e molti altri ufici» (Archivio di Stato di Firenze, Priorista di Palazzo, ad annos; La cronica domestica..., cit., pp. 20 s., 160-162, 193, 197, 213, 221, 224, 241, 246).
Gli incarichi nei quali riscosse la massima fiducia dei concittadini, però, furono quelli diplomatici. Evidentemente nelle ambascerie e nelle legazioni emergevano appieno le sue capacità e competenze.
È lui stesso a ricordare di essere stato inviato a Siena e Perugia dal 1343 al 1345 per trattare con aretini e perugini della guerra seguita alla perdita di Castiglion Fiorentino; a San Miniato al Tedesco nel 1346 per definire gli accordi di pace con i pisani; a Bologna nel 1350 per la guerra contro gli Ubaldini; a Siena nel 1351 per costituire un’alleanza con aretini, perugini e senesi contro i milanesi; a Pisa e Siena nel 1356 per ripristinare gli accordi commerciali. Ma si conoscono anche sue ambascerie a Pistoia e Verona nel 1345, e a Pisa nel 1353.
Fece inoltre parte delle legazioni incaricate di trattare con i magnati di Oltrarno nel 1343, di ricevere gli ambasciatori dell’imperatore nel 1352, e di applicare gli accordi di pace con Pisa nel 1364 (La cronica domestica..., cit., pp. 166, 168 s., 182, 194 s., 210-212, 218-220, 241; Soldini, 1780, pp. 29-31).
A dispetto della sua riconosciuta abilità di mediatore, Donato aveva idee politiche molto nette, anche molto peculiari, che talora espresse o mise in atto con coraggio e senza troppi timori per le conseguenze. Particolarmente significativo fu, all’inizio della sua carriera, il suo atteggiamento in occasione del biennio di governo di Gualtieri di Brienne, duca d’Atene e signore di Firenze (1342-43).
Afferma infatti di essere rimasto inizialmente intimorito – «ebbi grande paura» – dalla nomina a priore delle Arti presentatagli da Gualtieri; ma in seguito non esitò a prestargli spontaneamente 400 fiorini d’oro, all’epoca tutto o quasi il suo capitale, per sovvenire alle spese militari (La cronica domestica..., cit., pp. 161 s.). L’anno successivo fece peraltro parte della balìa seguita alla cacciata del duca, e come rappresentante del sesto di Oltrarno sostenne la nuova ripartizione di Firenze dai sestieri ai quartieri, «considerando che nella città avea disuguaglianza d’essere al presente male partita» (pp. 164 s.).
Nel 1356 fu poi uno dei membri del governo che tolse la rappresentanza politica alla corporazione dei macellai, e pur essendo personalmente contrario, «di che a me ne portarono grande nimistà» (p. 222).
Particolare e molto articolato fu il suo rapporto con le fazioni cittadine. Di certo si sentiva guelfo, e avverso ai ghibellini, la cui azione stigmatizzò nelle memorie; ma al tempo stesso rifiutò l’estremismo degli oligarchi riuniti nella Parte guelfa, e avversò toto corde la partigianeria delle sette raccoltesi attorno ai lignaggi rivali degli Albizzi e dei Ricci – che oltretutto a suo dire non si peritavano di reclutare ghibellini tra le loro fila (Mazzoni, 2010, pp. 72 s., 80-84, 110 s.). Diversi episodi, soprattutto degli anni Cinquanta e Sessanta, testimoniano questo suo approccio pragmatico e riconducibile, in ultima analisi, al senso civico e alla consapevolezza degli interessi della città nel suo insieme.
Nel 1351, mentre ricopriva il gonfalonierato di Giustizia, si era anche impegnato assieme ai colleghi del priorato delle Arti per risolvere i contrasti e le differenze tra albizzeschi e ricciardi, ma la sua iniziativa era naufragata davanti alle divisioni insanabili fra i rami del lignaggio dei Medici (La cronica domestica..., cit., pp. 241 s.). Nel 1358 sostenne la ratifica di una nuova legge contro i ghibellini – che ricorda voluta inizialmente dai Ricci per colpire gli Albizzi, di cui si favoleggiava fossero ghibellini originari di Arezzo – soprattutto però nell’intento di ostacolare l’assunzione di ghibellini, o presunti tali, alle magistrature cittadine, e in considerazione del fatto che lui e i consorti non erano più selezionati per gli uffici di governo: «e quanto che la detta riformagione io abbia assai favoreggiata sanza dispiacere a niuna singulare persona, non per piacere o dispiacere ad alcuna delle parti, ma per favoreggiare Parte [guelfa], veggendo tutti schiudere i Guelfi dagli uficî e crescere i Ghibellini, o non veri Guelfi [...] De’ quali schiusi Guelfi siamo stati noi di casa; però che nello scruttino del 1351 non vi rimase niuno di casa, e simile in quello del 1354, altri che Piero [di Gherardino]» (ibid., pp. 242 s.; Mazzoni, 2010, pp. 80 s., 154 s.). Nel 1366 fu uno degli otto cittadini chiamati a consigliare il governo sulle misure utili a frenare la campagna di proscrizioni messa in atto dagli oligarchi della Parte guelfa, e in tale occasione non ebbe remore ad appoggiare una legge contraria agli interessi dei guelfi massimalisti (La cronica domestica..., cit., pp. 243-247; Mazzoni, 2010, pp. 135-137, 210-212). In quello stesso anno però, essendo uno dei Buonuomini, difese l’autonomia della Parte guelfa, suggerendo di modificarne l’ordinamento interno in concordia con gli ufficiali guelfi, invece che per forza di una legge promossa dal capofazione dei Ricci (La cronica domestica..., cit., pp. 247-251; Mazzoni, 2010, pp. 135-137, 210-212).
Donato sposò in prime nozze nel gennaio del 1341 Bice, figlia di messer Covone Covoni e di Bartola di Berto Cerchi, dalla quale ebbe: prima del 1348 Bartolomeo, Giovanni, Lamberto (19 marzo 1342-16 dicembre 1363), Niccolò (20 giugno 1344-14 luglio 1348) e Piccio; in seguito Biagio, Filippa, Michele e Tommaso (La cronica domestica..., cit., pp. 145, 160, 200, 292, 306, 309 s., 313). Dopo la morte di Bice nel luglio del 1357, sposò in seconde nozze Giovanna, figlia di Federigo di messer Ardovino da Signa e di Salvestra di Guido Perini, nel 1358, dalla quale non ebbe figli (pp. 223 s., 306).
Nel dicembre del 1367 iniziò a scrivere le proprie memorie, che continuò sino alla morte. Progettò l’opera con un ordinamento genealogico, di modo che il susseguirsi di biografie di antenati, parenti, consorti, familiari, procedesse cronologicamente sino alla sua epoca, rappresentata dalla vita sua, del padre, dei fratelli, dei figli, dei parenti acquisiti. Il risultato però è un coacervo di dati, notizie, ricordi, per la gran parte disorganico e senza riferimenti cronologici, spesso lacunoso, e ciò non solo per mancanza di informazioni, ma per difetto della struttura compositiva stessa. Le memorie si inseriscono di diritto nel genere letterario delle ricordanze, sebbene vi occupino una posizione assolutamente eccentrica per la loro peculiare composizione: la prima metà del testo è occupata dalle notizie sugli antenati e da loro veloci schede biografiche, un po’ meno di un sesto dall’autobiografia di Donato, l’ultimo terzo nuovamente da schede biografiche, da cui il poco ortodosso titolo di cronica domestica dato all’ultima loro edizione (rispettivamente La cronica domestica..., cit., pp. 1-160, 160-200, 200-313). Il contenuto delle memorie tuttavia risulta del massimo interesse storico: vi si leggono informazioni preziose su molteplici figure di notevole importanza nella Firenze del secolo che va dalla seconda metà del Duecento alla seconda metà del Trecento, oltre alle più svariate notizie di vita materiale, dalla celebre vendetta contro i Mannelli all’introduzione in città dell’antenato del giuoco del tennis, a cerimonie religiose cadute in disuso, a un possibile caso di sifilide precedente ai contatti di europei con le popolazioni amerinde, e via discorrendo (pp. 10-21, 81, 310 e nota 2; Del Lungo, 1886).
Delle memorie è sopravvissuto il manoscritto autografo, cui si aggiungono la copia di mano di Paolo di Luigi Velluti con le sue Addizioni del XVI secolo, e altre sette copie stilate dal XVI al XVII secolo; le due edizioni integrali sono segnalate in bibliografia (Biblioteca Mediceo Laurenziana, Acquisti e Doni, 713; Anselmi - Avellini - Pezzarossa, 1980, p. 147; La cronica domestica..., cit., pp. XLI-XLVII).
Donato Velluti morì il 1° luglio 1370, durante il suo secondo gonfalonierato di Giustizia.
Non si conosce il luogo della sua sepoltura, atteso che la famiglia Velluti aveva sia un sepolcro nel chiostro vecchio di S. Spirito sia una cappella in S. Croce (Archivio di Stato di Firenze, Tratte, 762, c. 16r; La cronica domestica..., cit., p. XXIX e note 1, 26, 106).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Priorista di Palazzo; Tratte, 762; Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, Acquisti e Doni, 713; Cronica di Firenze di D. Velluti. Dall’Anno M.CCC. in circa fino al M.CCC.LXX., Firenze 1731, pp. 1-40; La cronica domestica di Messer D. Velluti, scritta fra il 1367 e il 1370, con le addizioni di Paolo Velluti scritte fra il 1555 e il 1560, a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, Firenze 1914.
F.M. Soldini, Delle eccellenze e grandezze della nazione fiorentina. Dissertazione storico-filosofica, Firenze 1780; I. Del Lungo, Una vendetta in Firenze il giorno di S. Giovanni del 1295, in Archivio storico italiano, s. 4, XVIII (1886), pp. 355-409; G.M. Anselmi - L. Avellini - F. Pezzarossa, La memoria dei mercatores. Tendenze ideologiche, ricordanze, artigianato in versi nella Firenze del Quattrocento, Bologna 1980; M. Bellomo, Società e istituzioni in Italia dal medioevo agli inizi dell’età moderna, Catania-Roma 1991; P. Pirillo, Creare comunità. Firenze e i centri di nuova fondazione della Toscana medievale, Roma 2007; V. Mazzoni, Accusare e proscrivere il nemico politico. Legislazione antighibellina e persecuzioni giudiziaria a Firenze (1347-1378), Pisa 2010.