Abstract
La voce descrive, in maniera sintetica, la donazione, nelle sue forme tipiche e atipiche, contrattuali ed extracontrattuali, dirette e indirette. A partire dalla definizione data dall’art. 769 c.c., si ricostruisce la disciplina codicistica, soffermandosi sulle figure più dibattute in giurisprudenza e dottrina (donazione indiretta, donazione mista, preliminare di donazione, donazione di bene altrui). Da ultimo si affronta il tema della patologia del contratto.
La donazione è il contratto con il quale, «per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un obbligo» (art. 769 c.c.).
Il tenore della norma consente di inquadrare la donazione all’interno della categoria giuridica del contratto, nonostante la sua collocazione sistematica nel libro II del codice civile (artt. 769-809 c.c.). Da ciò deriva che la donazione, pur rientrando tra gli atti a titolo gratuito, se ne distingue, poiché richiede, per perfezionarsi, il consenso del donante e del donatario, prestato anche attraverso un mandatario (art. 778 c.c.). Proposta e accettazione possono essere contestuali, o avvenire in momenti diversi; anche in tale evenienza, la donazione non può essere definita correttamente come un atto unilaterale, né come un contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, poiché si perfeziona solo con la notifica dell’accettazione al donante e, sino a quel momento, può essere revocata (fa eccezione a questa regola la donazione propter nuptias).
Sul piano dell’elemento soggettivo, a caratterizzare la donazione è lo spirito di liberalità (cd. animus donandi), che costituisce la causa propria dei negozi liberali in genere, e vale a distinguerli dai negozi a titolo gratuito tipici (quale è il comodato) oppure atipici (quali la locazione senza corrispettivo).
Se, infatti, la gratuità si esaurisce nell’assenza di corrispettivo, l’animus donandi consiste nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, con un conseguente depauperamento del patrimonio del donante.
Lo spirito di liberalità è lo scopo tipico e costante perseguito dal disponente. Esso prescinde dai motivi particolari che ne abbiano accompagnato la determinazione volitiva, i quali, invece, possono rilevare in talune circostanze e a taluni effetti nelle cd. ‘donazioni motivate’ (v. infra, § 3).
La distinzione tra gratuità e liberalità è dibattuta ampiamente in dottrina, ma oggi viene ribadita con forza sempre maggiore dal giudice di legittimità (Cass., sez. I, 5.12.1998, n. 12325 e, più di recente, Cass., sez. I, 4.11.2015, n. 22567).
Nelle sue forme tipiche e atipiche, la donazione esaurisce tutti i negozi di liberalità tra vivi (per un approfondimento di queste nozioni si rinvia a Conte, G., Il contratto di donazione tra liberalità e gratuità, in Tratt. Bonilini, VI, Milano, 2009, 3 ss.).
La donazione è un contratto a titolo gratuito, unilaterale, che si perfeziona con il consenso delle parti. Fa eccezione a questa regola la donazione di modico valore, per la quale è richiesta la traditio del bene. Si tratta di un negozio a forma solenne, per la cui validità sono necessari l’atto pubblico (art. 782 c.c.) e la presenza di due testimoni (art. 48, l. 16.2.1913, n. 89).
Secondo il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale, la donazione richiede la sussistenza di un elemento soggettivo ed uno oggettivo; il primo, consiste nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti; il secondo, impone la verifica di un incremento economico altrui (arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (impoverimento del donante).
Pur essendo un contratto normalmente traslativo, la definizione codicistica, nella sua ampiezza, è atta a ricomprendere ogni forma di donazione (reale, liberatoria e obbligatoria).
Sotto il profilo soggettivo, vale la regola generale che le parti abbiano la piena capacità di disporre; è tuttavia valida la donazione fatta dal minore e dall’inabilitato nel contratto di matrimonio, secondo le norme contenute negli artt. 165 e 166 c.c., come pure quella effettuata dal minore emancipato autorizzato all’esercizio dell’impresa (art. 774 c.c.).
Si caratterizza per un rigore maggiore, invece, rispetto alla disciplina generale dettata per la validità del contratto, la norma sulla donazione conclusa da chi versava in stato di incapacità naturale: in tale evenienza, infatti, il donante può ottenere l’annullamento senza dover provare la mala fede dell’altro contraente, in contrapposizione a quanto previsto dall’art. 428 c.c.
Si applica una disciplina peculiare anche nel caso in cui la donazione sia stata compiuta da un soggetto inabilitato, poiché è prevista la possibilità di impugnare anteriormente alla sentenza di inabilitazione, e alla nomina del curatore provvisorio (art. 776 c.c.).
Il particolare rilievo attribuito alla volontà del donante impone di escludere che la donazione possa farsi per procura: così, è nullo il mandato a donare con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto dell’attribuzione (art. 778 c.c.). Per quel che, di converso, attiene alla capacità del donatario, pur in assenza di una previsione normativa esplicita, bisogna saper distinguere la capacità di acquistare quel che è oggetto di donazione dalla capacità di accettare la donazione: solo in questo ultimo caso, infatti, la capacità giuridica non è sufficiente e l’ordinamento richiede quella di agire.
La differenza è ricavabile dal dettato normativo in tema di attribuzione liberale in favore di nascituro (anche non concepito, purché figlio di una determinata persona vivente al tempo della donazione, ex art. 784 c.c.): questi può infatti essere destinatario di una donazione, che si perfezionerà con la nascita.
Sotto il profilo degli effetti, la dottrina suole distinguere le donazioni che costituiscono o trasferiscono un diritto reale, o di credito (donazioni ad effetto reale) da quelle con le quali si rinunzia ad un diritto (donazione ad effetto abdicativo, o liberatorio). Più controverso è il caso della donazione con cui si assume un’obbligazione (donazione ad effetto obbligatorio): mentre è pacifico che essa possa avere ad oggetto un dare, sorgono dubbi in merito ad un obbligo di fare o non fare, poiché per tradizione la donazione ha effetti traslativi-reali. In particolare, l’esecuzione dell’obbligazione assunta non costituirebbe donazione, ma adempimento di obbligo già contratto validamente; circostanza che giustifica la nullità di un contratto preliminare di donazione, come pure affermato dalle Sezioni Unite, giacché «la promessa di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito viene a costruire un vincolo giuridico a donare, in contrasto con il principio secondo cui l’arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità» (Cass., S.U., 15.10.1975, n. 4153).
Oggetto del contratto di donazione possono essere, oltre alla proprietà di beni mobili e immobili, anche diritti reali di godimento (con una previsione particolare nel caso di nuda proprietà, ex art. 796 c.c.); le universalità di cose (art. 771, co. 2, c.c.); l’eredità (così è permesso ricavare dal combinato disposto degli artt. 447 e 1547, co. 2 c.c.); i crediti. Anche i titoli di credito e le partecipazioni societarie possono costituire oggetto di donazione, nei limiti in cui è ammesso il loro trasferimento e con una attenzione particolare alla forma.
Al contrario, non possono essere donati validamente i beni futuri, intesi tanto oggettivamente (beni inesistenti in natura) quanto soggettivamente (beni non appartenenti al donante), a meno che non si tratti, beninteso, di frutti non ancora separati (art. 771 c.c.).
A tal proposito, una questione che ha impegnato lungamente la dottrina riguarda proprio la donazione di bene altrui (Biondi, B., Le donazioni, in Tratt. Vassalli, XII, 4, Torino, 1961, 340 ss.), ipotesi non contemplata dal legislatore, ma ritenuta tradizionalmente nulla alla stregua della disciplina complessiva e, in particolare, dell'art. 771 c.c., poiché il divieto di donazione di beni futuri riguarda tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante.
Sul piano giurisprudenziale, in realtà, i precedenti si incentrano su un aspetto assai specifico della problematica, vale a dire se la donazione di cosa altrui (ove il donante non sia consapevole dell’altruità) possa costituire titolo idoneo all’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. Sul punto non c’è vero contrasto: la giurisprudenza propende per l’affermativa, sulla considerazione che il titolo richiesto dall'art. 1159 c.c. debba essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale (Cass., 23.5.2013, n. 12782.).
Con ordinanza 23.5.2014, n. 11545, tuttavia, la Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite due questioni: la prima, se il divieto di donazione di beni futuri di cui all’art. 771 c.c. possa essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante sia titolare in comunione ordinaria; la seconda, se la categoria dei ‘beni futuri’ sia equiparabile, quoad effecta, a quella di ‘beni altrui’. Intervenuta di recente, la sentenza (Cass., SS.UU., 15.3.2016, n. 5068) ha chiarito che la donazione di bene altrui, cui deve ricondursi anche la donazione, da parte del coerede, di quota di un bene indiviso compreso nella massa ereditaria, è nulla non ex art. 771 c.c., ma per difetto di causa, poiché la titolarità del bene è elemento essenziale del contratto e ne determina la funzione. Non vi è nullità se il donante è consapevole dell’altruità e ciò emerga dall’atto.
Da ultimo, giova sottolineare che l’art. 797 c.c. enumera i soli casi in cui la garanzia per evizione è dovuta, in deroga alla norma contenuta nell’art. 1487 c.c., che la prevede come effetto naturale del contratto, salvo clausola contraria.
Dalla donazione discende pure l’obbligo del donatario di prestare gli alimenti al donante, con alcune eccezioni (donazione obnuziale e remuneratoria) e, in ogni caso, entro il valore dell’attribuzione.
Le donazioni sono soggette ad azione di riduzione e collazione.
In ossequio al dogma della volontà, vi è chi riconduce la causa del contratto di donazione allo spirito di liberalità, il cd. animus donandi; chi, al contrario, pone l’accento sullo spostamento patrimoniale dal donante al donatario, e trova la causa del negozio nell’arricchimento di questo ultimo.
La giurisprudenza insiste sulla prima ricostruzione, affermando che l’animus donandi partecipa «della causa del contratto come qualificazione in senso oggettivo della gratuità» (Cass., 16.10.1976, n. 3526).
In dottrina, però, si avverte che accogliendo la tesi dell’intenzione di donare la distinzione tra causa e motivo diventa quasi impalpabile; tanto che la causa della donazione andrebbe a sovrapporsi, sempre più spesso, con il motivo che ha spinto il donante a compiere l’atto di liberalità (Alpa, G., Atto di liberalità e motivo dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 1972, 354 ss.). In tale prospettiva, pur accordando al motivo una accezione oggettiva, vale a dire quella di circostanza esterna alla psicologia del donante, la distinzione tra motivo e causa resta difficile.
Si è già detto che lo spirito di liberalità costituisce elemento soggettivo e, secondo alcuni, causa del contratto di donazione. Ad esso devono essere contrapposti i motivi, i quali rilevano in caso di illiceità o in caso di erroneità, se sono espressi nell’atto (o ricavabili in via interpretativa) e se costituiscono l’unica ragione che ha indotto il donante ad operare l’attribuzione.
Talvolta, però, il motivo può penetrare nello schema tipico del contratto di donazione, con implicazioni sul piano disciplinare: è quel che avviene nelle donazioni motivate, in cui il legislatore prende in considerazione, oltre alla causa dell’arricchimento, anche la causa dell’attribuzione.
Così accade nelle ipotesi di donazione remuneratoria (art. 770 c.c.), ravvisabili laddove il donante abbia agito spinto da «riconoscenza, o in considerazione dei meriti del beneficiario o per speciale remunerazione». La donazione remuneratoria non può essere revocata, non comporta l’obbligo di corrispondere alimenti e obbliga il donante a prestare garanzia per evizione, sebbene entro i limiti di quanto è stato attribuito.
Poiché presuppone la consapevolezza di agire spontaneamente, e non per un obbligo di natura giuridica, morale o sociale, la donazione remuneratoria deve essere distinta dall’adempimento dell’obbligazione naturale.
Allo stesso modo, occorre individuare un confine solido tra donazione remuneratoria e liberalità d’uso, negozio informale caratterizzato da una correlazione con i servizi resi dal beneficiario, o dalla conformità agli usi di un determinato luogo (art. 770, co. 2, c.c.). Sebbene la terminologia imprecisa della norma contenuta nel secondo comma dell’art. 770 c.c. possa «condurre il lettore a porsi il quesito dell’esistenza di ... liberalità che non sono donazione la liberalità d’uso è un atto a titolo gratuito, poiché manca la spontaneità dell’erogazione» (Carnevali, U., Donazione (dir. civ.), in Enc. dir., XIII, 1964, 985).
Dottrina e giurisprudenza individuano il criterio distintivo tra donazione remuneratoria e liberalità d’uso nel rapporto tra il valore del bene donato e il costume familiare o sociale, tenuto conto delle potenzialità economiche e sociali del donante (Cass., 18.06.2008, n. 16650).
È una donazione qualificata dal motivo anche la donazione obnuziale, o propter nuptias, compiuta con riguardo ad un matrimonio ben individuato, o dagli sposi stessi, o da altri soggetti in favore dei nubendi o dei figli nascituri di questi (art. 785 c.c.). Peculiare sotto il profilo strutturale, la donazione obnuziale è l’unico tipo di donazione qualificabile come atto unilaterale recettizio (art. 785 c.c.), in deroga alla regola generale della contrattualità della donazione tipica, e si perfeziona senza accettazione, nel momento in cui la volontà del donante viene portata a conoscenza del donatario.
Infine, il motivo rileva come interesse non patrimoniale del donante nella configurazione del modus donativo (art. 793 c.c.). L’inserimento di un modus, vale a dire di un onere o peso a carico del donatario, non importa la corrispettività del negozio: il modus resta un elemento accidentale, che limita l’attribuzione liberale per perseguire una finalità ulteriore, senza snaturarne la causa.
Che la donazione modale non sia configurabile come un contratto oneroso, misto o a prestazioni corrispettive è desumibile anche dal dato normativo: l’art. 794 c.c. prevede che l’onere impossibile o illecito si debba considerare non apposto, a patto che non sia stato il solo motivo determinante (nel qual caso esso vitiatur et vitiat, così che la donazione è invalida); inoltre, il donatario è tenuto ad eseguire l’onere solo nei limiti del valore della cosa donata (art. 793 c.c.).
Gli artt. 809 e 737 c.c. (rispettivamente «liberalità risultanti da atti diversi» e «soggetti tenuti alla collazione») costituiscono il fondamento normativo della categoria giuridica delle liberalità atipiche, o indirette.
Con questa formula, piuttosto ampia, si indicano tutti quegli atti diversi dalla donazione contrattuale (spesso disciplinati tipicamente da disposizioni autonome) che possono servire per conseguire, in via mediata, gli stessi effetti economici prodotti da un contratto di donazione.
La donazione indiretta viene posta in essere attraverso un negozio oneroso che produce, insieme all’effetto tipico che gli è proprio, l’effetto ulteriore, animo donandi, dell’arricchimento senza corrispettivo del destinatario della liberalità.
Da ciò deriva che la distinzione tra donazioni dirette e donazioni indirette non deve essere rinvenuta nell’effetto pratico che da esse deriva, quanto piuttosto nel mezzo con il quale il fine di liberalità viene attuato; se, infatti, nel primo caso lo strumento utilizzato è il contratto di donazione, nel secondo è un atto che realizza la liberalità obliterando la causa tipica del negozio.
Pur nell’impossibilità di offrirne una elencazione esaustiva, la dottrina enumera tra i casi più ricorrenti di donazioni indirette l’intestazione di beni sotto nome altrui, la rinunzia adbicativa di un diritto (quali la rinunzia all’eredità senza indicazione di un beneficiario, la remissione del debito, la rinunzia a un diritto reale di godimento o alla quota di comproprietà), l’adempimento di un obbligo altrui, il compimento di atti materiali. Forniscono uno schema idoneo a conseguire il fine della donazione indiretta anche il contratto a favore di terzo e l’interposizione reale di persona.
Si tratta, com’è evidente, di un insieme eterogeneo, ma la definizione delle donazioni indirette nei termini di categoria giuridica unitaria persegue lo scopo pratico di applicare a tali atti una parte delle norme dettate per la donazione, attesa l'identità dell'effetto economico. Non si applica, invece, alla donazione indiretta la norma contenuta nell’art. 782 c.c., in materia di forma: sul punto, la giurisprudenza è costante nel ritenere sufficiente, ai fini della validità dell’atto, l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico impiegato per realizzare lo scopo di liberalità.
Sotto il profilo dell’inquadramento dogmatico della categoria, vi è un dibattito dottrinale e giurisprudenziale ancora acceso, soprattutto per quel che concerne il rapporto tra donazione indiretta e negozio indiretto. Un primo e diffuso orientamento, infatti, riconduce a tale categoria generale tutte le ipotesi di donazione indiretta (così che dovrebbe trovare applicazione la disciplina giuridica del negozio tipico adottato). Secondo altro orientamento, al contrario, solo alcune tra le donazioni indirette potrebbero qualificarsi come negozi indiretti: ne sarebbe escluso, soprattutto, il cd. negotium mixtum cum donatione (sul quale v. infra, § 4.2), da ricondurre alla ipotesi di negozio misto.
Infine, un terzo orientamento nega che le donazioni indirette possano rientrare nella categoria del negozio indiretto, atteso che, in ogni caso, lo scopo perseguito dalle parti non è ulteriore rispetto alla funzione oggettiva del negozio, e che invece il risultato di liberalità deriva direttamente da questo, come nel caso di remissione del debito. Di recente, la Corte di Cassazione ha abbracciato questa ricostruzione dottrinale (Cass. 21.10.2015, n. 21449).
Una figura particolare, emersa nella prassi, è rappresentata dalla donazione mista, o negotium mixtum cum donatione: l’espressione indica un contratto a causa onerosa, il cui intento commutativo è posto in essere per raggiungere una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella di scambio. Tale finalità si rinviene nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, di uno dei contraenti, attraverso una sproporzione voluta tra le prestazioni corrispettive.
La fattispecie che ricorre con maggiore frequenza è senz’altro la compravendita ad un prezzo inferiore o, al contrario, superiore rispetto a quello effettivo, ma potrebbe configurarsi anche in altri negozi a prestazioni corrispettive, come la permuta, la locazione, l’appalto.
Se è vero che il principio di autonomia contrattuale permette alle parti di fissare liberamente la misura dello scambio, e che il nostro ordinamento non accoglie il principio della equivalenza oggettiva delle prestazioni (sebbene per i casi di abuso preveda rimedi specifici come la rescissione o l’annullabilità), la natura giuridica della donazione mista è oggetto di dibattito vivo, con ricadute differenti nella individuazione della disciplina normativa applicabile (se quella della donazione oppure quella del negozio oneroso scelto).
Prima di tutto, occorre tenere distinta opportunamente la donazione indiretta dalle ipotesi di simulazione, in cui il contratto apparente non corrisponde alla reale volontà delle parti; queste, piuttosto, sotto la forma di un contratto oneroso intendono stipulare un contratto gratuito, così che la dichiarazione concernente il prezzo non corrisponde alla realtà (Cass., 27.12.2004, n. 4015).
Occorre, pure, tenere distinto il negotium mixtum cun donatione dalla vendita nummo uno, che si riscontra in presenza di un prezzo del tutto simbolico, inadatto a costituire un corrispettivo, seppur minimo, del trasferimento.
Da ciò discende che l’entità della sproporzione incide sulla qualificazione giuridica di una data fattispecie come donazione mista, oltre a rappresentare la misura della liberalità, il cui calcolo rileva ai fini di riduzione e collazione.
Sì è detto che la natura giuridica della donazione mista è ancora dibattuta; la tesi maggioritaria la colloca nel genus delle donazioni indirette, a loro volta riconducibili alla categoria generale controversa del negozio indiretto (Ascarelli, T., Contratto misto, negozio indiretto, negotium mixtum cum donatione, in Riv. dir. comm. 1930, II, 463). In tale ottica, la particolarità del negotium mixtum cum donatione risiederebbe solo nella circostanza che il fine liberale è raggiunto con il mezzo tipico di un prezzo volutamente sproporzionato. All’interno di questa corrente, altra parte della dottrina riconduce la donazione mista al negozio indiretto, ma non alla donazione indiretta.
Sebbene graduate negli esiti, queste ricostruzioni postulano tutte la necessaria unitarietà del negozio e della sua causa, individuata in quella propria del contratto oneroso stipulato, da cui consegue l’applicabilità della relativa disciplina (ma alcuni sostengono che dovrebbero trovare ingresso anche le norme cd, materiali in tema di donazione, come quelle su revocazione, riduzione e collazione).
Vi è, però, chi afferma che il negotium mixtum cum donatione sia volto a realizzare «un assetto di interessi composto, gratuito e nel contempo oneroso » (Cataudella, A., Successioni e donazioni. La donazione, in Tratt. Bessone, V, Torino, 2005, 60). Ciò porta a qualificare la donazione mista come contratto misto, sebbene particolare, giacché la mistione non ricorre tra le prestazioni ma tra le cause dei differenti negozi. In tal senso, la questione circa l’individuazione della disciplina applicabile deve essere risolta alla luce dei tre principali orientamenti (teoria dell’assorbimento, teoria dell’applicazione analogica e teoria della combinazione) che si registrano in tema di contratti misti.
La giurisprudenza sembra ormai accogliere la teoria del negozio indiretto, contemperata dall’applicazione delle norme materiali in tema di revocazione, riduzione e collazione, ma esclude che sia necessaria la forma solenne (Cass., S.U., 12.6.2006, n. 13524).
Al contratto di donazione sono applicabili le regole dell’invalidità negoziale, pur con alcune previsioni proprie, che l’avvicinano alla disciplina dettata in materia testamentaria.
Di taluni casi specifici si è già trattato (v. supra, § 2.1): è annullabile la donazione compiuta da minori, anche se emancipati ed autorizzati all’esercizio dell’impresa commerciale, ma fa eccezione l’ipotesi in cui si tratti di donazione da inserirsi nel contratto di matrimonio; è annullabile la donazione effettuata da soggetti interdetti, inabilitati, o che versavano in stato di incapacità naturale, con una disciplina di maggior rigore. Il termine di prescrizione è quinquennale.
A norma dell’art. 787 c.c., il motivo erroneo può essere causa di annullamento (v. supra, § 3), e l’assorbente natura liberale della donazione consente di attenuare la tutela dell’affidamento che si persegue in ambito contrattuale.
Il motivo illecito determinante che risulti dall’atto rende nulla la donazione, anche se non sia comune alle parti, deviando dalla regola generale dettata dall’art. 1345 c.c. È nulla la donazione cui difetti la forma dell’atto pubblico in presenza di testimoni (Cass., 13.03.2006, n. 5786).
Le donazioni nulle non possono essere convalidate; tuttavia, poiché sono assimilate all’attribuzione mortis causa, morto il donante possono essere confermate ad opera di eredi o aventi causa, ex art. 799 c.c. Accorta dottrina sottolinea che la previsione in esame non può essere indicata come sanatoria del negozio nullo, giacché permane la possibilità di far valere la nullità, da parte degli eredi non confermanti.
Dall’invalidità della donazione occorre tenere distinta l’inefficacia, originaria o successiva. Mentre il primo caso ricorre in presenza di una donazione sottoposta a condizione sospensiva o di una donazione obnuziale, l’inefficacia per causa sopravvenuta può dipendere dall’avverarsi di quanto dedotto in una condizione risolutiva, dal mancato adempimento dell’onere apposto che contempli la risoluzione, dalla revocazione (sulla quale v. infra, § 6). Talvolta, l’inefficacia può essere conseguenza dell’esperimento dell’azione di riduzione domandata dai legittimari, ma sul punto giova richiamare la norma contenuta nell’art. 555 c.c., che impone di ridurre le donazioni solo quando sia esaurito il valore dei beni di cui si sia disposto per testamento.
Le molteplici cause di inefficacia sopravvenuta (risoluzione, revocazione, riduzione, collazione), sebbene tipizzate e attentamente disciplinate dal legislatore, mettono in risalto la precarietà potenziale degli acquisti a titolo donativo. Nel caso di inadempimento contrattuale il donante risponde solo per dolo o colpa grave. (art. 789 c.c.).
Nel campo delle donazioni, le sopravvenienze assumono dei tratti particolari rispetto alla disciplina generale del contratto; esse non investono le obbligazioni assunte dal donante che abbiano già avuto esecuzione (ad eccezione del caso di donazione obbligatoria, donazione sottoposta a termine o a condizione sospensiva), ma piuttosto attribuiscono taluni vantaggi al donante, ai suoi eredi, nonché alle persone che abbiano diritto ad una quota di riserva nella successione del donante stesso (Carnevali, U., Donazione, cit., 980), attraverso la revocazione, la collazione e la riduzione.
Il legislatore ha previsto espressamente due ipotesi di revocazione, purché la donazione non sia remuneratoria o propter nuptias: la prima, si ha nel caso di ingratitudine da parte del beneficiario, con termine di prescrizione annuale; la seconda, per sopravvenienza dei figli, entro cinque anni «dalla nascita dell’ultimo figlio o discendente [legittimo], ovvero dalla notizia dell’esistenza del figlio o discendente ovvero dell’avvenuto riconoscimento del figlio [naturale]» (art. 800).
La revocazione consente al donante di rivalutare l’opportunità dell’atto già compiuto; poiché si inscrive in un momento successivo rispetto a quello del perfezionarsi della donazione, non appare corretto parlare di patologia genetica, come per i casi di invalidità o rescissione del negozio, ma dovrebbe, piuttosto, farsi rientrare nell’ambito della inefficacia sopravvenuta (Carnevali, U., Donazione, cit., 981; Id. Le donazioni, in Tratt. Rescigno, 6, II, 2 ed., Torino, 1997 523, inserisce la revocazione nel quadro dell’inefficacia, accanto alla risoluzione; Santoro-Passarelli F., Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1970, 263, la definisce un difetto funzionale della causa liberale.).
Autorevole dottrina (Santoro-Passarelli F., Dottrine generali del diritto civile, cit., 263) trova il fondamento dell’istituto in una presupposizione legale che, nei casi previsti dalla legge con valutazione tipica, considera il negozio subordinato ad una particolare situazione di fatto (vale a dire la gratitudine del donante o la mancanza di figli) così che, al venir meno di tale presupposto, anche il contratto perda efficacia.
La teoria prevalente accorda alla revocazione il carattere di una vera e propria revoca.
Le revocazione per ingratitudine non può che aversi nei casi tipizzati dalla legge all’art. 801 c.c., in considerazione della natura contrattuale della donazione ed in logica contrapposizione alla libertà di revoca del testamento. In termini generali, l’ingratitudine si può definire come quel comportamento che rechi «all’onore e al decoro del donante un’offesa suscettibile di ledere gravemente il patrimonio morale della persona, si da rilevare un sentimento di avversione ... che ripugna alla coscienza comune» (Cass., 28.5.2008, n. 14903).
La revocazione prevista dalla norma contenuta nell’art. 803 c.c., invece, appare volta alla salvaguardia dei figli, indipendentemente dai loro diritti successori e dai rimedi offerti dalla collazione e dall’azione di riduzione. È interessante notare come, anche in questo caso, la natura contrattuale della donazione comporti una differenza di contenuto notevole rispetto a quanto previsto in ambito di revocazione testamentaria, poiché, a norma dell’art. 803, la revocazione non interviene ope legis, ma deve essere chiesta entro il termine di prescrizione quinquennale da parte dei soggetti indicati.
Senza dubbio, la disciplina particolare descritta sin qui trova giustificazione e si ancora alla tutela di interessi superiori, di ordine morale e familiare; poiché si tratta di una normativa di ordine pubblico, l’ art. 806 c.c. ne esclude la rinuncia preventiva.
Infine, resta da dire degli effetti parzialmente retroattivi della revocazione, che impone al donatario di restituire i beni in natura, se essi esistono ancora, e i frutti relativi, a partire dal giorno della domanda; se il donatario ha alienato i beni, deve restituirne il valore (art. 807 c.c.).
La revocazione non opera in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi in data anteriore alla trascrizione della domanda.
Artt. 769-809 c.c.; l. 16.2.1913, n. 89, e successive modifiche.
Alpa, G.,. Atto di liberalità e motivo dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. e proc. civile, 1972, 354 ss; Ascarelli, T., Contratto misto, negozio indiretto, negotium mixtum cum donatione, in Riv. dir. comm. 1930, II, 463 ss.; Ascoli, A., Trattato delle donazioni, Milano, 1933; Biondi, B., Le donazioni, in Tratt. Vassalli, XII, 4, Torino, 1961; Bonilini, G., a cura di, Trattato di diritto delle successioni e donazioni, VI, Milano, 2009; Carnevali, U., Donazione (dir. civ.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 966 ss.; Id., Liberalità (atti di), Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 215 ss.; Id. Le donazioni in Tratt. Rescigno, VI, t. II, II ed., Torino, 1997; Cataudella A,, Successioni e donazioni. La donazione, in Tratt. Bessone, V, Torino, 2005; Del Prato, E. – Costanza M. – Manes, P., a cura di, Donazioni, atti gratuiti, patti di famiglia e trusts successori, Bologna, 2010; Palazzo, A., Le donazioni, in Comm. c.c. Schlesinger, II ed., Milano, 2000; Id. I singoli contratti, atti gratuiti e donazioni in Tratt. Sacco, Torino, 2000; Palazzo. A. – Sassi, A., a cura di, Trattato della successione e dei negozi successori, II, Torino, 2012; Rescigno, P., diretto da, Trattato breve delle successioni o donazioni, II, Torino, 2010; Santoro-Passarelli, F., Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1970.