Donna
di Simonetta Piccone Stella
Donna
sommario: 1. Introduzione. 2. Il coinvolgimento negli accadimenti mondiali. 3. L'evoluzione dell'istruzione. 4. Il rapporto fra occupazione e attività riproduttiva. 5. La rappresentanza politica. 6. Le modificazioni della sessualità. 7. L'aspettativa più lunga di vita. 8. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il profilo delle donne nello scorcio tra fine Novecento e inizio Duemila appare da un lato familiare e riconoscibilissimo, con i tratti amabili e rassicuranti di sempre, dall'altro meno riconoscibile di quello maschile e persino inquietante sotto alcuni profili, ad esempio sotto quello biologico. Il peso del cambiamento per la metà femminile dell'umanità risulta più marcato soprattutto perché il tempo che ha impiegato a manifestarsi, compresso e accelerato negli ultimi venti (forse anche quaranta) anni, contrasta con le scansioni lente dei secoli scorsi, inclusa la prima parte del Novecento, quando già il protagonismo e la mobilità del sesso femminile avevano visibilmente inciso nelle dinamiche sociali. Gli aspetti più evidenti del cambiamento, che ogni osservatore è pronto a citare in un approssimativo elenco di trasformazioni, vanno dall'aumento delle lavoratrici - un tratto ormai acquisito delle società moderne, emerso negli anni settanta e consolidatosi successivamente in molti paesi e in diversi settori - al progresso velocissimo della formazione scolastica e dei livelli d'apprendimento, che ha superato nei ritmi quello maschile; dall'inclinazione a procreare sempre meno figli, o a procrearli con procedure e tecniche nuove, fino alla conquista di tutti i diritti formali, dall'accesso alle professioni alla parità di trattamento con gli uomini nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni. Nella mentalità e nella comunicazione correnti questo rapido quadro racchiude le principali novità della condizione femminile agli inizi del Duemila.
Un'osservazione, tuttavia, s'impone immediatamente: il quadro abbozzato, a noi oramai così familiare, riguarda solo le donne occidentali che nascono e vivono nei paesi avanzati.
La prima novità di questo inizio millennio è che il discorso sulla popolazione femminile si è allargato alle donne che risiedono negli altri continenti - in Asia, Africa, America Latina - dove gli elementi prima elencati (acculturazione, lavoro retribuito, accesso ai diritti, procreazione contenuta e controllata) si riscontrano in dosaggi molto diversi, oppure mancano in larga misura, o si manifestano per il momento in una forma embrionale. Il mutamento d'orizzonte non è di piccolo conto: le donne cinesi e indiane, ad esempio, costituiscono un terzo della popolazione femminile mondiale (le cinesi superano le seicentomila unità, le indiane il mezzo milione), e il sessanta per cento delle donne vive in Asia (v. Véron, 1997). Il genere femminile occidentale, in altre parole, costituisce una minoranza.
Fatta questa premessa, un'avvertenza di metodo è indispensabile. Le donne costituiscono il 50% del genere umano; sono quindi presenti nelle élites, nelle masse e nelle classi medie, nelle eccezioni e nella normalità, nei gruppi di avanguardia e in quelli conservatori; sono avvocatesse, contadine, donne di casa, sposate e nubili. Di fronte a quest'ordine di grandezza è necessaria una selezione, anzi una selezione drastica. Le informazioni che verranno fornite in questo articolo riguardano, di volta in volta, gruppi molto diversi l'uno dall'altro, a seconda dell'interesse che presentano, in condizioni sociali disuguali e in luoghi diversi, senza alcuna pretesa di rendere conto della condizione media di vita di tre miliardi di persone. Infatti, secondo i dati della United Nations Population Division (UNDP), nel 2000 la popolazione mondiale - sei miliardi e 56 mila unità - risultava includere 3 miliardi 5.600 donne, con una sex ratio di centodue uomini rispetto a cento donne. La sex ratio varia naturalmente da paese a paese, con alcune sorprendenti sfasature e altrettanto sorprendenti simmetrie: in Marocco su cento uomini si contano cento donne e in Camerun 99; ma negli Emirati Arabi Riuniti, per ogni cento donne si contano 195 uomini, mentre in Ucraina gli uomini arrivano soltanto a 87 su ogni cento donne; l'equilibrio europeo si esprime con un indice di circa 94-96 uomini per ogni cento donne.
Se si trattasse di scrivere l'articolo 'Uomo' per un volume relativo anche soltanto agli ultimi quindici anni, questo dovrebbe articolarsi intorno a categorie come operai, disoccupati, pensionati, commercianti, finanzieri, bianchi, neri, asiatici, con spazi adeguatamente proporzionati. Un resoconto sul genere maschile, inoltre, coinciderebbe con l'esposizione dei principali accadimenti e delle principali dinamiche mondiali - guerre, mercati finanziari, regimi politici, processi su grande scala nei quali il sesso maschile domina - rivelando in questo modo la sua impraticabilità come voce unica e rendendo necessaria una serie di trattazioni specifiche. La differenza di proporzioni è evidente.
Qui si colloca un altro elemento di relativa novità. Da sempre si svolgono processi, viluppi di azioni e reazioni, ideazioni e riflessioni, nei quali i due sessi si mescolano e interagiscono malgrado la distinzione dei ruoli. I due generi hanno condiviso nel tempo esperienze fondamentali in molteplici tipi e luoghi di lavoro, nella gestione del denaro e della proprietà, nella protezione delle proprie famiglie, persino nei conflitti bellici e nel consenso o dissenso verso le forme dei governi, anche quando da parte femminile ciò era possibile solo in modo informale o indiretto. La relativa novità consiste nel fatto che negli ultimi vent'anni questi viluppi di processi si sono moltiplicati nel numero e nelle forme e il genere femminile ha recitato in essi una parte più visibile e più attiva. Il suggerimento fornito a suo tempo da una studiosa di storia moderna di scrutare le azioni dei due sessi insieme, nella loro complementarità, senza mai scinderli o separarli, anche quando uno dei due sembrava confinato nell'ombra, risulta confermato, anzi avvalorato dai venticinque anni trascorsi (v. Davis, 1976). Anche le forme recenti del protagonismo femminile appaiono sbilanciate a favore delle donne occidentali, ma a un'analisi più attenta proposte, tattiche, resistenze e tentativi sono rintracciabili anche fra i gruppi femminili meno conosciuti e più lontani.
L'inclinazione a presentare il genere femminile come relativamente o gravemente svantaggiato e svalutato, alla perenne rincorsa di un'uguaglianza che non gli viene concessa o che non riesce mai a conquistare, dotato di qualità preziose ma scarsamente apprezzate, dunque a presentarlo come un soggetto collettivo sempre bisognoso di difesa e valorizzazione, sottratto quasi di principio alla critica, è radicata da quarant'anni nella trattazione delle scienze storiche e sociali, e per ottime ragioni. Ingiustizie e discriminazioni nei confronti del sesso femminile si sono protratte nel tempo, e in molti casi rimangono gravi. Un ritratto disegnato interamente su questi toni sarebbe tuttavia incompleto. Nelle pagine che seguono saranno quindi registrate, quando sarà il caso, anche le debolezze, le incertezze, i limiti e i difetti che il genere femminile manifesta nelle azioni, nelle abitudini, nelle opinioni, partendo dalla convinzione che del soggetto donna si possa oramai discutere senza salvacondotti, senza pregiudizi a favore o contro. In alcune circostanze la corsa compulsiva del genere femminile al consumo, lo stile educativo pervasivamente protettivo nei confronti delle figlie e dei figli, o visibilmente distorto, la complicità e la collusione con il malcostume, la corruzione e i crimini maschili, la stessa autorepressione delle proprie potenzialità e ambizioni, rivestono un peso cospicuo e, anche se non appaiono pubblicamente fallaci quanto le prevaricazioni e i torti del genere maschile, colpiscono in modo consistente l'opinione comune, sia femminile che maschile. Si tratta di debolezze e difetti sui quali generalmente si sorvola, nell'intento benevolo di riequilibrare l'asimmetria secolare tra i sessi, ma che contribuiscono a creare, in quanto omissioni, l'impressione che il genere femminile non sia in grado di elaborare una visione lucida e autocritica di se stesso.
Considerando i processi complessivi nei quali il cambiamento delle donne si profila più spiccato ne abbiamo selezionati alcuni, che appaiono tra i più importanti in corso, anche perché dotati di maggiori potenzialità di sviluppo nell'immediato futuro: il coinvolgimento negli accadimenti mondiali, la crescita dell'istruzione, il rapporto tra procreazione e attività lavorativa, la rappresentanza politica, le modificazioni della sessualità, la durata più lunga della vita. Ognuno di essi presenta una fisionomia diversa a seconda della sua collocazione geopolitica, della quale si cercherà di tenere conto, per quanto possibile.
Un interrogativo di fondo lega i capitoli di questa voce: i mutamenti di cui si è riportato l'elenco contengono i germi di un'innovatività, di un'originalità, in altre parole, di un valore aggiunto, o corrispondono ai passi prevedibili di un percorso di parificazione con il genere maschile, del quale si seguono le orme? Via via che guadagnano punti sul terreno della parità, le donne prendono in prestito i modelli maschili o propongono fini, prospettive, stili di comportamento propri?
2. Il coinvolgimento negli accadimenti mondiali
La recente irruzione nel mercato editoriale di pubblicazioni sul significato dei diritti umani per i due sessi, sulle vicende delle popolazioni femminili nei conflitti bellici e sulle organizzazioni non governative animate da donne mirano in primo luogo a rilevare i silenzi di alcune celebri dichiarazioni universalistiche (come quella originaria dell'ONU nel 1948: v. Società Italiana delle Storiche, 2002), a mettere in luce aspetti delle guerre locali ed etniche trascurati in epoche precedenti, a rendere nota l'esistenza di reti femminili collettive. Ma non solo: tali pubblicazioni costituiscono un segnale dell'interesse 'disinteressato', per così dire, delle donne verso il mondo. I contatti con popolazioni di continenti lontani, femminili e maschili, intensificatisi dagli anni novanta in poi con il tramite delle conferenze internazionali dell'ONU, hanno stimolato un primo passo verso questa apertura. Molto rapidamente, nella fase successiva, una congerie di movimenti femminili eterogenei, non concordati né promossi da una leadership ufficiale e riconosciuta, hanno mostrato di voler estendere il loro sguardo e le loro energie al di là degli interessi immediati del sesso femminile, per quanto bisognose d'intervento appaiano ancora le sue condizioni: il mondo stesso è diventato un oggetto d'interesse. Gli spunti cui ci riferiamo provengono da comportamenti osservabili, da iniziative di gruppi grandi e piccoli, non ancora composti in un organismo unico né inquadrati in una cornice teorica coerente, né in un progetto univoco, ma messi a tema in modo esplicito, visibile, attivo, quantunque la comunicazione mass-mediatica non offra loro la dovuta attenzione. Nelle organizzazioni non governative e nelle istituzioni preposte alla cooperazione e allo sviluppo, donne e uomini si occupano dei livelli e dei modelli globali del consumo, dei flussi migratori internazionali, dei problemi umani che accompagnano i conflitti (come ad esempio la sorte dei rifugiati e dei profughi) e dello sviluppo sostenibile, ossia di una modalità di crescita che punta a soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
I problemi della mondializzazione - con le sue interdipendenze simultanee, complicate e convulse, con le sue tensioni tra sensibilità ecologica e sviluppo economico, con la disputa irrisolta tra crescita o attenuazione delle disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri - stanno appassionando molti gruppi di donne, inducendoli a intraprendere l'analisi dei nodi macrosociali del cambiamento nei quali si trovano in gioco le sorti femminili come quelle maschili. All'analisi segue in molti casi l'intervento diretto. Donne e femministe sono fisicamente presenti in alcuni luoghi caldi dei conflitti e degli scontri in corso, dove esistono interessi e bisogni femminili da tutelare (ma non solo quelli), organizzate in associazioni di vario carattere (iniziative di lavoro congiunte, ad esempio, accomunano donne israeliane e palestinesi coinvolte in un confronto armato che dura dal 2000). Si tratta di attiviste che si impegnano nei medesimi paesi per le necessità dei periodi postbellici; talvolta vi si recano in anticipo, insieme agli uomini, proponendo una linea di resistenza crudamente corporea (si pensi alla presenza di donne nei gruppi degli 'scudi umani' partiti per l'Iraq nel gennaio 2003). In molti casi si tratta di donne occidentali, ma nelle organizzazioni non governative persone di tutti i paesi collaborano, come nei movimenti pacifisti, o nelle numerose aggregazioni dei movimenti no global. Ciò nonostante, non tutti i rapporti tra donne occidentali e non occidentali si svolgono all'insegna della trasparenza e della cooperazione.
Un primo aspetto da sottolineare, in questo contesto, è l'apertura dell'interesse e dell'impegno del genere femminile verso problemi fino a ieri estranei alle sue tematiche abituali. Non va dimenticato, nel mezzo dell'attualità, che in periodi storici non lontani movimenti femminili precorritori si sono occupati di problemi sociali di prima grandezza, quali l'abolizione della schiavitù e del razzismo nel continente americano, per fare un esempio; analogamente, oggi una parte delle donne e delle femministe ha individuato negli accadimenti mondiali un terreno più vasto nel quale agire. È cambiata la scala: dalla comunità si è passati allo Stato-nazione e di qui ai circuiti mondiali.
Ciò non significa che esista un punto di vista 'di genere' sul modo di risolvere i nodi della globalizzazione e dello sviluppo sostenibile, o che si stiano ideando clamorose inversioni di rotta nella filosofia che li ispira. La novità, semmai, è che il genere femminile vi si appassioni, sforzandosi di sostenere e di negoziare una linea di politica economica e militare che non sfrutti e non danneggi le popolazioni e le risorse del pianeta.
È rimarchevole che il discorso su uno sviluppo ragionevole e sulla sopravvivenza del mondo naturale venga condiviso da uomini e donne con orientamenti simili e che la radiografia dei settori studiati indichi un nesso trasparente con la sensibilità e le preoccupazioni tipicamente femminili: la salute, l'ambiente, la povertà, l'infanzia, l'esclusione sociale. La presenza di organismi di donne negli incontri e nelle discussioni al vertice mondiale di Johannesburg nel 2002, le campagne di protesta contro le industrie farmaceutiche, l'appoggio alle reti che promuovono l'istruzione delle donne nei paesi con analfabetismo elevato confermano la coerenza di queste iniziative umanitarie.
Un secondo aspetto da segnalare riguarda quella che potremmo definire la sopravvivenza tenace della subalternità o del 'secondo piano', ossia di una collocazione femminile che non incoraggia l'autostima. Mi riferisco al fatto che le donne sono molto presenti, ma non in posizioni autorevoli. Non dirigono praticamente nulla: nessuna istituzione internazionale di rilievo, anche se i loro quadri migliori riescono a fare breccia e a essere apprezzati in molte importanti agenzie delle Nazioni Unite.
Il tentativo di controllare o di modificare la direzione delle scelte economiche mondiali, correggendone sprechi e sopraffazioni, di guadagnare punti a favore di necessità umane vitali, orientando scienza e ricerca deliberatamente in questa direzione, vede una concordanza di intenti e di ideali tra genere maschile e genere femminile, ma quest'ultimo trova difficoltà ad accedere ai luoghi decisionali e quindi al timone che regola la rotta, il quale rimane saldamente in mani maschili. "Il desiderio degli uomini di governare con noi non emerge", comunica una responsabile dei colloqui internazionali dopo la conferenza di Johannesburg (settembre-dicembre 2002). Le iniziative di donne kosovare, bosniache, brasiliane, africane, afgane, per la ricostruzione dei loro paesi o per l'edificazione di infrastrutture utili a intere popolazioni, non sono bastate perché fossero affidati nelle loro mani i compiti e le responsabilità di gestione delle organizzazioni. Persino il movimento dei giovani no global, che fornisce preziosi luoghi di incontro e di confronto, non riconosce ruoli direttivi alle sue componenti femminili, che pure hanno lavorato altrettanto duramente degli uomini nei progetti e nelle elaborazioni teorico-politiche.
Un terzo aspetto interessante è l'esistenza di un'ambiguità inconfessata ma crescente nel rapporto tra guerra (violenza) e genere femminile. Le donne hanno mostrato una chiara determinazione durante i conflitti recenti, in particolare in quello del Kosovo (1999), di fronte alle atroci sofferenze generate dalla 'pulizia etnica' e dagli stupri di massa, determinazione che è riuscita a sollecitare l'opinione pubblica mondiale fino a ottenere che tra i crimini contro l'umanità lo Statuto della Corte Penale Internazionale includesse le gravidanze forzate, lo stupro e le violenze sessuali di analoga gravità. Meno limpida è la linea che interpreta l'ingresso delle donne nei ranghi militari come una conquista non solo della parità, ma del pacifismo femminile.
A partire dai paesi nei quali la condivisione dei rischi e delle necessità difensive di un territorio era stata ritenuta fin dall'inizio un dovere collettivo (Israele), per arrivare ai paesi nordatlantici che per primi hanno inserito formazioni di donne in alcuni corpi delle forze armate, la pressione femminile per l'accesso al mestiere delle armi ha suscitato consensi e dissensi, ma è stata interpretata prevalentemente in chiave di servizio utile, a metà tra il civile e il militare. Uno stuolo di buone ragioni ha sorretto questa linea. Prendere parte ad attività necessarie per la collettività - come il controllo dei confini, il mantenimento dell'ordine, la disciplina, lo spirito di squadra, il soccorso e la protezione - è ritenuto un compito indispensabile in società con un'avanzata divisione del lavoro. L'accesso alle forze armate ha ottenuto il suo lasciapassare in nome della parità tra i sessi ed è stato annoverato fra i tratti della modernità di più tarda acquisizione.
Ma leggendo i molti bilanci che hanno fatto seguito alle conferenze internazionali dell'ONU, come quella di Pechino del 1995 (v. Presidenza del Consiglio dei ministri, 2000), si rimane perplessi di fronte al silenzio sulle contraddizioni implicite in questo riconoscimento: come se entrare a far parte di un esercito per il genere femminile fosse positivo e accettabile solo durante le missioni di pace, e impensabile - ma tracciare un confine è arduo - in missioni rischiose e aggressive. Si percepisce che il rapporto delle donne con la violenza non è soltanto di rifiuto - anche se sul piano collettivo sono proprio loro le vittime più frequenti -, ma che la filosofia etica del genere e il principio del pacifismo assoluto debbono avere la precedenza e rimanere indiscussi, almeno nelle dichiarazioni ufficiali. In effetti, un cambiamento innegabile si è manifestato negli ultimi anni nell'atteggiamento delle donne di fronte alla violenza armata e alla guerra, sia sul fronte del terrorismo che su quello dei conflitti nazionalistici. Le eccezioni comprovate alla ripugnanza femminile nel maneggiare le armi non sono così rare. Inquadrate negli anni settanta e ottanta nelle formazioni terroristiche (in Germania, negli Stati Uniti, in Italia), le militanti responsabili di attentati mortali appartengono a un passato assai vicino o sono a tutt'oggi in attività, latitanti, clandestine, ma irriducibili. Il clima di questo inizio millennio, inoltre, segnala una disponibilità femminile alla violenza collettiva, anonima, cieca, prima inconcepibile - basta citare le azioni delle kamikaze palestinesi in Israele o di quelle cecene in Russia - e perfino nei sondaggi d'opinione il pacifismo femminile, un tempo così compatto da sembrare congenito, si è incrinato. Appare sgradevole un vaticinio che fa transitare la strada della parificazione tra i sessi attraverso l'acquisizione da parte femminile dei più invisi e criticati fra i comportamenti maschili, né è il caso di parlarne per ora come di un percorso obbligato, ma quello appena riportato non è l'unico esempio.
3. L'evoluzione dell'istruzione
Il passo veloce dell'istruzione femminile, a fianco e perfino al di là di quello maschile, è testimoniato soprattutto dai livelli e dai titoli scolastici che le donne dei paesi avanzati hanno conseguito. Benché alcuni studiosi si riferiscano agli Stati occidentali come a un territorio unico, dove per esempio l'analfabetismo sembra debellato da tempo, anche qui la traiettoria dei due binari, scolarizzazione maschile e scolarizzazione femminile, mostra un andamento non perfettamente parallelo. Nei paesi dell'Europa meridionale (in Italia, in Spagna, ma soprattutto in Portogallo e in Grecia) risulta presente, ancora nel 2000, una piccola percentuale di analfabetismo femminile tra i membri della popolazione più avanti negli anni (nel 2000 risultavano analfabete in Italia il 2% delle donne, in Grecia il 4%, in Portogallo il 10%, mentre i maschi si attestavano su percentuali più basse); al contrario, le fasce d'età giovani, fra i quindici e i ventiquattro anni, appaiono del tutto esenti dal problema in ciascuno dei paesi e per entrambi i sessi.
Nel passaggio a una cultura più selezionata e più formativa (dalle scuole secondarie superiori alle università) i due generi procedono fianco a fianco nella crescita, ma assai spesso è quello femminile a raggiungere le posizioni più elevate, almeno sul piano quantitativo. Il record spetta al Canada, capofila assoluto, con un 95,3% di presenze femminili nell'istruzione superiore rispetto all'80,7% dei maschi. I dati, raccolti dall'UNESCO e dall'ONU su scala mondiale, risalgono al 1998 e quindi non sono aggiornati, ma rimangono comunque utili per la comparazione, considerata la presenza di tutti i paesi. Il Canada è seguito dagli Stati Uniti, con cifre simili (il 91,8% di donne e il 70,6% di uomini nell'istruzione terziaria), e dall'Australia, dove donne e uomini raggiungono rispettivamente l'82,9% e il 76,9%. Per l'Europa è sufficiente segnalare gli stacchi più marcati, in Norvegia con il 77% delle donne rispetto al 55% degli uomini, in Francia con il 57% contro il 45%, in Spagna con il 61% rispetto al 51%, in Italia con il 53% rispetto al 42%; e, naturalmente, in Svezia e in Danimarca, dove lo scarto corrisponde a dieci o quindici punti percentuali a vantaggio delle donne. Curiosamente il Giappone, che consideriamo allineato ai paesi avanzati, è in controtendenza, giacché gli uomini superano nell'istruzione superiore le donne con il 47% contro il 40%; mentre Israele ribadisce largamente il vantaggio femminile, con il 57% delle donne e il 40% degli uomini nei livelli scolastici più elevati.
Il 'sorpasso' femminile si realizza tuttavia nei parametri puramente quantitativi, poiché le carriere universitarie si diramano in direzioni diverse per i due sessi. Permane costante la separazione tra i percorsi di alta formazione, la preferenza pronunciata delle donne per discipline e competenze professionali con scarse componenti scientifiche o tecnologiche, la propensione a segnare il passo fra le schiere delle studiose umanistiche e delle future insegnanti, la resistenza a intraprendere con audacia itinerari di studio esigenti e impegnativi. Si tratta di una divaricazione da non trascurare, proprio perché avviene ai piani più alti della formazione ed è quindi preludio di ingressi molto diversificati nel mercato del lavoro: si pensi, in proposito, alle osservazioni delle persone impegnate negli ambiziosi progetti della cooperazione e dello sviluppo, menzionati nel capitolo precedente, circa l'insufficienza delle competenze femminili in campi nuovi che richiedono rigore e specializzazione scientifica. Sono ancora d'aiuto le riflessioni di Pierre Bourdieu (v., 1998) su questo strano fenomeno di attardamento e di autocostrizione femminile: sembra che nulla impedisca alle donne oggi di scegliere la propria strada nella sfera scolastica, che non esista alcun divieto formale. Pure, una libertà completa sulla carta viene esercitata in modo limitato. Porre l'interrogativo in maniera così netta forse è precipitoso e non tiene conto di variabili complesse; ma infine il problema è capire se le donne 'non osano' perché non hanno osato per tanto tempo o se l'intera società, a partire dalla famiglia d'origine e dalla scuola elementare, 'impedisce' loro a tutt'oggi di osare.
Partendo dal basso, dunque dall'analfabetismo, le informazioni disponibili su Stati e territori non occidentali disegnano un divario fortissimo. In Bangladesh e in India il tasso di donne analfabete raggiunge rispettivamente il 60% e il 35% fra le più giovani (15-24 anni), mentre tra i maschi del Bangladesh, alla stessa età, scende al 39% e in India al 20%. Considerata nel suo insieme, la popolazione femminile indiana segnala un indice del 70% di analfabetismo ancora nel 2000 (in tutte le età). In Cina l'analfabetismo femminile si trova ancora al 26% e nello Stato arabo dello Yemen al 78,6%.
Va comunque sottolineato che negli ultimi dieci anni un miglioramento nell'acculturazione femminile è documentato in tutti i territori del pianeta. In base ad abitudini mentali sedimentate nella nostra tradizione scolastica (non più lunga di due secoli per le donne, a ogni modo), coltiviamo una visione compassionevole per la sorte del sesso femminile non occidentale nell'ambito dell'istruzione, quando questa è stata loro preclusa o procede ancora stentatamente. Ma è bene precisare che le popolazioni femminili con cui solidarizziamo non sono né inerti, né arrendevoli, né incapaci di aiutarsi. Le reti delle donne impegnate nell'assistenza alle profughe (v. AIDoS, 2001, p. 3), da un lato, e l'associazione rivoluzionaria delle donne afgane o quella per l'assistenza umanitaria alle donne e ai bambini afgani, dall'altro, hanno dato avvio a una scuola femminile informale (con l'aiuto di fondi privati provenienti da gruppi femminili spagnoli e italiani) dove fanno fronte ai bisogni dell'alfabetizzazione di base, all'esigenza di unire di nuovo nelle aule bambine e bambini, di riannodare tradizioni culturali e scolastiche un tempo abbastanza solide nello Stato afgano, prima dell'involuzione fondamentalista. La maniera con la quale queste minoranze hanno segretamente e industriosamente continuato a riunirsi e a concentrarsi sui testi che avevano a disposizione, a trasmettere informazioni le une alle altre, riprendendo curricula di studio interrotti e aiutando le bambine a seguire il loro esempio è stata documentata anche durante il periodo bellico del 2001 (ibid.).
Non c'è da stupirsi che la popolazione femminile paghi un pedaggio elevato anche nella ridotta fascia dell'istruzione superiore che i territori e gli Stati africani e una parte di quelli asiatici ospitano. Gli uomini studiano decisamente più a lungo in Egitto e in generale nel Medio Oriente; superano le donne anche nel Sudafrica (i maschi sono il 18% rispetto al 16,5% delle femmine), uno Stato nel quale molti gruppi femministi avevano collaborato attivamente e per anni alla liquidazione dell'apartheid, e perfino nell'occidentalizzata Turchia, dove il 26,5% degli uomini e solo il 15,2% delle donne risultano studenti universitari. Vi sono tuttavia un paio di eccezioni rimarchevoli: il Qatar, piccolo paese arabo, presenta uno scarto a favore delle donne del 40,9% rispetto al 13,6% degli uomini; e l'Arabia Saudita, un suo meno brillante 21% di donne e 16% di uomini nella stessa fascia. Le Filippine, in questo quadro, dovrebbero occupare il primo posto: le donne superano nettamente gli uomini con il 32% rispetto al 25,2%.
Ma in quasi tutti gli Stati mediorientali, africani e asiatici, quote crescenti di donne studiano, apprendono le basi essenziali della conoscenza, si spingono avanti nel curriculum scolastico, si specializzano, conquistano un titolo di studio elevato. Le cifre illustrano ovviamente un panorama assai meno brillante ed esteso rispetto a quello della minoranza occidentale.
Non è fuori luogo ricordare, a questo proposito, le osservazioni avanzate qualche anno fa da Amartya Sen (v., 1996) nel suo lavoro di scrutinio attento, territorio per territorio, regione per regione, dei grandi Stati asiatici e africani. Dopo aver sottolineato come le tradizioni e le politiche culturali per uomini e donne divergessero a seconda dei luoghi e delle leggi, lo studioso indiano individuava due fattori propizi a una sex ratio paritaria per la sopravvivenza fisica dei due sessi: il grado di istruzione cui le donne erano in grado di giungere e l'opportunità femminile di accedere a un lavoro retribuito al di fuori dell'ambiente familiare.
4. Il rapporto fra occupazione e attività riproduttiva
In un seminario intorno ai temi della globalizzazione, tenutosi all'Istituto Goethe di Roma nel 2001, alcuni studiosi hanno rimarcato come la diversa attitudine delle donne verso il lavoro e la riproduzione abbia radicalmente trasformato, negli ultimi trent'anni, il panorama occidentale. Il rapporto fra produzione e riproduzione nella vita dell'intera popolazione si è modificato, attraverso un significativo potenziamento, in termini quantitativi, della prima sfera. Nei paesi occidentali la crescita demografica è drasticamente diminuita, mentre la presenza delle donne nel lavoro retribuito è aumentata. Una scelta femminile considerata abitualmente individuale e privata ha così cambiato lo stile di vita di due continenti, l'Europa e il Nordamerica. Tra le conseguenze macrosociali di questo fenomeno, oltre al calo del tasso di natalità in paesi dell'area mediterranea una volta prolifici (Spagna, Italia, Grecia, Portogallo), gli studiosi sottolineano lo svilupparsi di un processo immigratorio dal Sud e dall'Est del mondo verso i paesi avanzati, che spesso i demografi leggono come 'compensativo' rispetto all'invecchiamento delle popolazioni autoctone, anche in virtù della maggiore prolificità delle donne che immigrano da territori non occidentali. La relazione tra le due tendenze - aumento del lavoro retribuito femminile e calo delle nascite - è stata quindi presentata come diretta e autoevidente. Essa merita tuttavia molte precisazioni.
Innanzitutto il contenimento del numero dei figli è un fenomeno che ha almeno due secoli di storia, e che ha cominciato a manifestarsi, a seconda dei paesi, per motivi che non erano legati all'esistenza di un'occupazione femminile extradomestica, ma a un orientamento delle donne e delle coppie verso una pianificazione più ragionata della vita familiare (v. D'Amelia, 1997). Il massimo calo aveva già avuto luogo quando Jacques Véron notava, sorvolando su un intero secolo, che dall'inizio degli anni sessanta del Novecento la fecondità nel pianeta era scesa a circa 3 figli per donna, calcolando quindi una media di 2 bambini per donna in meno rispetto a trent'anni prima. L'ottica regionale, avvertiva l'autore, tende a cancellare le disparità: "all'interno di ogni regione un certo numero di paesi ha conosciuto abbassamenti spettacolari della fecondità" (v. Véron, 1997; tr. it., p. 144). Persino l'Africa subsahariana nel 1997 sperimentava l'inizio di una fecondità in declino, entrando nella seconda fase della sua transizione demografica. La mappa della natalità, una volta disordinatissima, eterogenea e disuguale, si mantiene ancora eterogenea, ma con oscillazioni meno marcate: in Cina, dove la dura campagna demografica a favore del figlio unico ha ottenuto i suoi risultati, il tasso si è mantenuto identico dal 1995 in avanti: l'1,80% (in prospettiva fino al 2005); in India il decremento è più contenuto, dal 3,32% al 2,97%, sempre dal 1995 in avanti; rimangono alte le percentuali delle nascite nei paesi arabi e nel Medio Oriente, con piccole contrazioni (nel Bahrein la fertilità è scesa dal 2,63% al 2,28%; in Afghanistan molto meno, dal 6,90% al 6,80%).
In Europa sono divenuti capofila di bassissimi tassi di natalità non solo i paesi che nel passato avevano sperimentato per primi questa tendenza - come la Francia (1,80% di figli per donna), l'Inghilterra (1,70%), il Belgio (1,55%) e la Svezia (1,51%) - ma anche paesi come la Grecia e l'Italia (1,20%). Al confronto, il tasso degli Stati Uniti si colloca tra i più elevati: 2,04% figli per donna.
A parte gli elementi forniti dalle serie demografiche, l'istituzione di una correlazione inversa tra occupazione e procreazione non è verificabile in modo puntuale neppure ai giorni nostri. Molte coppie fanno meno figli anche quando le donne non lavorano (né intendono farlo), perché mettere al mondo meno figli non costituisce sempre l'esito di una volontà o di una pianificazione (del resto neppure la decisione di cercare un'occupazione retribuita fuori di casa è sempre frutto, per una donna, di una scelta). Il contenimento delle nascite sembra piuttosto il sintomo di un'inclinazione femminile a procreare comunque meno figli, come se si fosse accolto un dettato, un passaparola della modernità (v. Oppo e altri, 2000). Il vecchio modello è tramontato nell'immagine di sé femminile, quantunque non sia stato sostituito definitivamente da un modello diverso. Nel nostro paese, le giovani donne meridionali che si sposano sono psicologicamente pronte alla maternità, ma si arrestano molto spesso al primo figlio, anche se non sono vincolate da orari e occupazioni retribuite.
Dunque, la scelta di generare un bambino solo o due non corrisponde sempre a una volontà deliberata (così come generarne molti non corrispondeva a una volontà deliberata nelle precedenti generazioni). La necessità, l'interesse o il piacere del lavoro assorbono giornalmente una quantità elevata di energie e sono pochi i paesi nei quali le istituzioni, le classi dirigenti e il ceto politico hanno messo a fuoco la necessità di agevolare la formazione delle famiglie approntando politiche sociali adeguate. Ricerche regionali e nazionali italiane (v. Trifiletti, 1984) riportano un desiderio o un progetto di maternità che va al di là del figlio unico; ma i provvedimenti per sostenere coppie e madri (detrazioni fiscali, asili nido, congedi parentali, agevolazioni abitative) hanno mietuto successi a livello locale in pochi casi, nei comuni e nelle regioni con una buona tradizione civica, o negli Stati che hanno fatto del benessere familiare un problema strategico nazionale (Francia e paesi scandinavi, ad esempio).
Le ragioni che inducono a fare meno figli sono differenziate anche in relazione al contesto. Nei paesi occidentali i motivi della resistenza alla maternità vengono individuati dagli studiosi soprattutto nell'aggravio delle occupazioni femminili più pesanti o nelle aspirazioni alla carriera delle donne. Mentre il bassissimo tenore di vita che caratterizza le famiglie dei paesi dell'Est europeo è probabilmente alla radice del record di bassa natalità che tali paesi hanno oramai strappato all'Italia: l'1,1% in Russia e in Bulgaria, l'1,2% in Ungheria e in Ucraina. Accanto a questa tendenza va considerata anche quella a una diminuzione della fecondità fra le coppie e le donne immigrate nei paesi ricchi, dove gli stili di vita degli ambienti e delle famiglie con i quali vivono a contatto o le circostanze nelle quali lavorano influiscono sui modelli procreativi tradizionali.
Negli ultimi venti anni, alla curva discendente della natalità si è accompagnata una parabola nelle interpretazioni degli studiosi e in parte dell'opinione corrente. Alle sue prime avvisaglie, il declino delle nascite era stato interpretato come un sintomo preoccupante per tutte le società dell'Occidente, per il nostro paese in particolare ("Italia, sterili sponde", "sempre più piccole le famiglie italiane" proclamavano i commenti ai bollettini dell'ISTAT). Ma una persuasiva controargomentazione è stata avanzata dagli studiosi della famiglia, in particolare da quelli di formazione laica, che sostenevano come la qualità del rapporto intrattenuto con i figli o il figlio già nati fosse il vero architrave della maternità moderna e riflettesse la consapevolezza che prodigare un'attenzione più intensa e continua ai bisogni e alla personalità di ciascun bambino costituisse il vero significato dei comportamenti procreativi. Lo scopo della fecondità e della genitorialità (materna) era diventato il bambino stesso, l'essere umano nel quale si sarebbe trasformato con gli anni. 'Consapevolezza' e 'scelta' erano i termini guida con i quali una parte dei sociologi della famiglia valutava positivamente la più oculata procreazione delle donne. Critiche e segnali di allarme provenivano in abbondanza da studiosi di altro orientamento e da ambienti diversi (fra questi ultimi, il Comitato nazionale per la popolazione e il Movimento di aiuto alla vita, i quali, come è stato fatto notare, censurano nelle loro stesse denominazioni ogni menzione dei soggetti umani che la vita la generano, madri e coppie); da queste sponde arrivavano ammonimenti all'egoismo femminile, cieco di fronte all'ineludibile funzione-chiave delle donne rispetto ai destini dell'umanità. Ma quantunque le opinioni risultassero divise, molto veniva detto e scritto in difesa e in lode di una maternità contenuta e vigile.
Negli ultimi dieci anni questi pronostici ottimistici sulla qualità del rapporto madri (genitori)-figli - variamente smentiti - hanno cominciato a sgretolarsi. Da un lato, il fenomeno simmetrico e opposto della maternità 'a qualunque costo' e delle tecniche di procreazione assistita - sulle quali si dibatte intensamente - ha indotto a riflettere su alcuni aspetti del desiderio riproduttivo mai prima intravisti e assai difficili da vagliare; dall'altro lato, le strade percorse oggi dalle madri e dalle coppie nell'allevare ed educare i propri figli mostrano molteplici smagliature ed eccessi. Psicologi, pedagogisti e insegnanti hanno spesso criticato lo stile educativo adottato con le figlie femmine. Anche se il valore intrinseco della figlia 'femmina' (che non viene più 'dopo' il figlio maschio) è cresciuto straordinariamente nelle nostre società (e persino nelle aspettative paterne), e sebbene si elargiscano alle figlie femmine attenzioni, opportunità, libertà di movimento una volta impensate lo stile educativo è rimasto improntato a un modello di femminilità tradizionale, strettamente legato a rituali, stereotipi e formule linguistiche che convogliano messaggi più o meno diretti di rinuncia e di subordinazione, oppure molto espliciti, come il primato indiscutibile dell'aspetto estetico fra le risorse di cui le giovani donne debbono dotarsi.
Non meno perplessi lasciano - in contrasto con l'attenzione al figlio unico che supponevamo partecipe e costante - l'incuria, la distrazione, le ore concesse per guardare la televisione nei più diversi momenti della giornata, così come l'avallo morale ed economico a consumi costosi e superflui (dalla play station alla motocicletta) cui i piccoli e i giovanissimi vengono spensieratamente abituati. È così forse terminata la fase nella quale il tempo guadagnato da una diminuzione dei compiti più faticosi di assistenza materna veniva destinato a una cura vigile della crescita e dell'apprendimento dei figli, o alla coltivazione delle relazioni sociali, o al cosiddetto 'tempo per sé', l'espressione che ha costituito una parola d'ordine per la prima generazione di donne dalla "doppia presenza" (v. Balbo, 1978). Si fatica oggi a riconoscere questi progressi e questi arricchimenti nei rapporti madre-figlio/a; anzi, ci si interroga sulla consistenza dei valori e degli esempi che vengono comunicati, e non solo dalle madri ovviamente.
Quanto alle tecniche di procreazione assistita, un ambito di discussione tra i più controversi, ci limiteremo a riportare alcune significative osservazioni (su tutto ciò, v. Pizzini, 1997). Anzitutto, lo stato in cui versano le relazioni tra le donne e le figure mediche professionali, o la scienza medica, è alquanto incerto e delicato; in secondo luogo, la pubblica opinione è disorientata perché le informazioni specialistiche (fornite in modo sommario e a volte ermetico) e dei mezzi di comunicazione non mettono nelle condizioni di formarsi un proprio motivato convincimento, cosa che è invece avvenuta per altre questioni preoccupanti sulle quali la legislazione e le politiche sociali si esprimono con minore ambiguità (immigrazione, sicurezza sociale, droga, microcriminalità).
D'altra parte, le dimensioni psicologiche, esistenziali ed etiche derivanti dalla 'scomposizione corporea' della maternità (uteri in prestito, contratti di gravidanze a scopo di profitto, riduzione della donna a puro contenitore del bambino che deve nascere: v. Saraceno, 1997) rappresentano novità impreviste e sconvolgenti (viene oltretutto da chiedersi: sono le professioni mediche a generare la domanda sul mercato o sono le donne ad avanzarla spontaneamente?). Le recentissime notizie sulle molteplici richieste femminili di clonazione (gennaio-febbraio 2003), cioè di feti progettati su misura, aprono uno squarcio stupefacente e imbarazzante sulla celebrata sensibilità e sul buon senso innato delle donne: anche qui l'etica dell'appagamento, la smodata rincorsa al consumo e la trasformazione di ogni valore, di ogni aspirazione, in un oggetto da comprare e consumare sembra dominare su tutto.
Sul versante del mercato del lavoro - l'ambito nel quale il sesso femminile ha investito di più rispetto ai suoi compiti tradizionali - l'uguaglianza tra i sessi non ha compiuto molti passi avanti nella qualità, nella stabilità, nello status professionale, "rimanendo incompleta e fragile" (v. Bihr e Pfefferkorn, 2002). Come quello maschile e giovanile, il mercato del lavoro femminile è andato incontro, nell'ultimo decennio, alle sfide della trasformazione produttiva.
In tre Stati extraeuropei l'occupazione femminile registra percentuali elevate - negli Stati Uniti 67%, in Canada 66%, in Australia 62% - ma i picchi più alti sono raggiunti dal gruppo europeo scandinavo: la Svezia e la Norvegia con il 73%, e la Danimarca con il 71%. Seguono il Regno Unito, la Finlandia e l'Austria, che superano o sfiorano il 60%, e la Francia insieme all'Irlanda, che oltrepassano il 50%. Buona ultima arriva l'Italia con il 41,1% (v. OECD, 2001). Tassi di attività e dinamiche occupazionali appaiono complessivamente in crescita, ma accanto alle rilevazioni statistiche positive permangono una serie di difficoltà che ostacolano l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro, individuabili nella condizione femminile, nel tempo, nell'età, nello stato civile e nel grado d'istruzione (v. Schizzerotto e altri, 1996).
La progressiva crescita dell'offerta delle donne sul mercato del lavoro - in Italia nel 2001 intorno al 46% (pari al tasso di partecipazione) - aiuta a spiegare anche le cifre consistenti della loro disoccupazione. Per l'Italia, al termine di un andamento sfavorevole iniziato nei primissimi anni novanta, quando la disoccupazione femminile si attestava sul 17,7%, l'indice è sceso, nel 2001, al 13,1%. Buon segno, ma si tratta di una percentuale comunque più elevata rispetto alla media europea, che si aggira attorno al 9%, e che rimane doppia rispetto a quella maschile, il 7,4% (le donne in possesso di un elevato grado di istruzione, come vedremo, non vengono risparmiate del tutto dal fenomeno della disoccupazione). Sono cifre che celano un andamento non lineare: l'occupazione maschile, che aveva perso quota alcuni anni fa, ha recuperato nel 2001 il suo peso precedente, mentre l'occupazione femminile, benché aumentata, conserva il suo svantaggio relativo, fornendone la controprova con un'offerta ben superiore alla domanda.
Il titolo della laurea o della specializzazione premia sicuramente le donne in cerca di occupazione, soprattutto nella fascia d'età fra i 35 e i 44 anni, anche se il tasso di disoccupazione rimane superiore a quello maschile (v. ISTAT, 2001). Ciò detto, un elevato titolo di studio non basta più ad assicurare rapidamente un lavoro, tanto meno un lavoro di buona qualità. Va infine rimarcato che il pedaggio più alto in termini di disoccupazione è pagato dalle donne giovani con sola licenza elementare, tra i 25 e i 34 anni di età (v. Presidenza del Consiglio dei ministri, 2000; v. ISTAT, 2001).
La formula del prestito d'onore per chi si dichiara disoccupato, istituita nel nostro paese nel 1996, costituisce la versione italiana di un'invenzione che ha fatto scuola, il 'microcredito'. Viene concesso per un limitato progetto imprenditoriale, seguito dall'avvio di un'attività di lavoro in proprio, che in Italia alcune agenzie create ad hoc si incaricano di monitorare nelle sue diverse fasi. Mohammed Yunus (v., 1997), il 'banchiere dei poveri', ha fondato in Bangladesh la Grameen Bank molti anni fa, sotto forma di un istituto di credito indipendente, che concede piccoli prestiti senza garanzie. L'esperimento ha avuto successo in paesi meno sviluppati di quelli europei (in India, ad esempio), con popolazioni femminili poco abituate a iniziative di autopromozione e meno mobili nel mercato del lavoro formale. "Perché prestare denaro alle donne invece che agli uomini" viene spiegato in una interessante argomentazione di Yunus che sottolinea la forza economica delle donne in generale e la loro affidabilità nel rimborsare i prestiti ottenuti (ben il 94% dei membri della Grameen Bank sono di sesso femminile). Agenzie statali, banche, catene di istituti di credito si sono persuase a finanziare questa nuova e particolare corsia verso l'indipendenza economica femminile.
Un elevato tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro, quale in alcuni paesi si riscontra, è quasi sempre sostenuto da una presenza consistente dei contratti di lavoro part time. Una tipologia che scarseggia in Italia e forse proprio a tale scarsità è dovuta la bassa percentuale di donne occupate o aspiranti a diventarlo. Ma le donne, dal canto loro, preferirebbero il lavoro part time? In un'indagine dedicata a giovani donne neolaureate (quindi a persone che si suppone abbiano sperato in un vantaggio occupazionale derivante dal titolo di studio) molte intervistate si sono pronunciate a favore di esso. I maschi laureati non esprimevano una così netta preferenza (v. Santi, 2001).
Nel dibattito sulle disuguaglianze di genere nel mondo della produzione, il tema della discriminazione, già ricordato a proposito delle barriere che ostacolano l'ingresso femminile nel mondo del lavoro, viene ripreso con riferimento alle fasi successive, al fenomeno della 'segregazione occupazionale', degli avanzamenti di livello o di carriera e delle differenze salariali a parità di credenziali educative. La differenza tra le remunerazioni maschili e quelle femminili (generalmente le donne si laureano in età più giovane e con voti più alti) varia a seconda dei percorsi di studio e dei profili professionali, ma si attesta in media su una cifra non indifferente (di poco inferiore a 200 euro) a vantaggio degli uomini. Nello studio in questione, il gruppo femminile superava di gran lunga quello maschile fra gli occupati con contratto a termine.
Nei lavori a tempo definito o a part time la remunerazione è sempre più bassa: particolare che aggrava il gap retributivo, dato che in questi settori si incontrano soprattutto donne. Donne in possesso di laurea si trovano numerose anche negli impieghi esecutivi, di amministrazione o di gestione; mentre i maschi laureati entrano rapidamente in ruoli di consulenza, nell'imprenditoria o nei ranghi del libero professionismo. Lo scarto salariale fra uomini e donne, nei bassi come negli alti livelli professionali, non è una pecca soltanto italiana. Lo ricordano per la Francia i sociologi francesi sopra citati; lo si ritrova più o meno pronunciato in molti altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, solo una spinta sociale determinata e tenace ha ottenuto, dopo anni, che il gap si riducesse rispetto al decennio settanta-ottanta. Ciò nonostante è tuttora elevato: i dati del 1998 rivelavano che le donne guadagnavano in media il 78% di quanto percepivano gli uomini (v. Santi, 2001).
Da parecchi anni uno dei campi di studio più affollati, che al suo attivo vanta già una vasta letteratura di ricerca e di interpretazioni sociologiche, è dedicato ai lavori atipici (v. Signorelli, 2000; v. Bianco, 1997). Alcune ipotesi iniziali (v. Accornero, 1999) avevano intravisto un'associazione promettente tra la libertà o flessibilità del nuovo ordinamento produttivo e la tradizionale duttilità delle donne (frutto di mille ripieghi più che di scelte) a impiegare il proprio tempo in maniera composita e creativa insieme. Le nuove modalità di lavoro avrebbero potuto mettere in evidenza il vantaggio produttivo e relazionale di quelle qualità, come se una nuova strutturazione del mercato avesse interpretato, casualmente ma virtuosamente, le esigenze tipicamente femminili di un intreccio fra tempi di vita e tempi di lavoro. A distanza di un decennio, l'insoddisfazione strisciante, corroborata dalla prova dei fatti (indagini, comparazioni salariali), ha messo a fuoco uno scenario meno incoraggiante. L'intermittenza o flessibilità lavorativa può privare da un momento all'altro le donne di un introito indispensabile; la collocazione negli impieghi atipici rallenta il riconoscimento delle qualifiche, la remunerazione delude anche quando le credenziali educative sono elevate.
Poco alla volta il genere femminile ha assorbito un rapporto con il lavoro - necessità, dovere, vocazione - quasi altrettanto robusto di quello maschile, ma le differenze rimangono. Il punto cruciale è che il timing dell'attività del lavoro produttivo non è stato scalfito, come non lo sono stati i tempi e i ritmi di nessuna delle attività/occupazioni/organizzazioni trainanti della società capitalistica. L'ingresso del genere femminile nel mondo della produzione non ha generato alcun 'indotto'. Alcuni fra i più giovani studiosi dei processi produttivi hanno rimarcato come le grandi organizzazioni abbiano adottato un linguaggio 'democratico' e tutto sommato paritario: in esso si esaltano l'orizzontalità, la cooperazione, la non competitività, la mancanza di gerarchia, le capacità relazionali - tutte preziose qualità femminili (v. Piva, 1994). Ma la rappresentazione, l'immagine e il linguaggio, da un lato, e la realtà, dall'altro, rimangono assai distanti tra loro. I tempi erano e sono rimasti maschili. Salvo che, come viene fatto osservare, nei paesi scandinavi, ossia nei luoghi e nelle culture in cui la frenesia dell'orario illimitato e della competizione accanita non hanno mai messo radici, o sono state domate per tempo da stili di vita comunitari ordinati, abitudinari e consolidati, per entrambi i sessi, al ritmo più pacato del part time.
Basta aggiungere che nell'economia quotidiana governata privatamente dalle coppie, l'elemento più noto è la ripartizione disuguale delle mansioni familiari fra i coniugi, rimasta quasi intatta, non modernizzata, né ritoccata in presenza del lavoro femminile fuori di casa (v. ISTAT, 2002). Anzi, il nuovo fenomeno dell'immigrazione dall'estero ha aperto frequentemente le case degli autoctoni al lavoro delle donne straniere, perlomeno in regioni con abitudini alimentari tradizionali o in ambienti sensibili all'immagine della casa ordinata e pulita. Necessità che aumentano con i doveri della presenza attiva accanto a una persona malata o anziana e della sorveglianza di bambini piccoli. Nelle coppie la rinegoziazione di questi compiti essenziali - con accordo sui tempi, attribuzione di responsabilità tradizionalmente femminili ai membri maschili della famiglia, magari a rotazione - risulta un'ipotesi scartata a priori, a favore della delega, retribuita, a persone non di famiglia, che risparmiano agli uomini un surplus di lavoro sgradito e alle donne la fatica di far accettare ai loro compagni un patto di genere più equo (v. Leonini, 2001).
Un argomento ricorrente - sostenuto dai dati ottenuti in ricerche relative a imprese private, aziende e uffici pubblici (sistema accademico incluso), e ancor più da quelli concernenti le sedi del potere politico - è che i vertici e i luoghi di comando sono quasi del tutto preclusi alle donne, con sporadiche eccezioni, e che il percorso per attingere ai gradi elevati del management aziendale e del potere decisionale sia intralciato da una miriade di ostacoli. Ma è possibile sostenere che, nei rari casi nei quali le responsabilità direttive siano state affidate alle donne, lo stile del management sia significativamente cambiato? Che il genere femminile abbia trasformato l'esercizio del comando, svolgendolo con modalità diverse, umane, meno competitive, meno prevaricatrici, guidato da strategie d'azione volte al riequilibrio dei tempi di lavoro e di vita della collettività nel suo insieme? Le risposte non appaiono univoche, ma quasi sempre alludono a una conferma dei moduli tradizionali, a un'imitazione inconscia, o lucidamente consapevole, o fatalistica, del modello maschile. Anche in questo caso, come si è accennato a proposito della violenza, quando le donne hanno 'il coltello dalla parte del manico' pare non si comportino in modo molto diverso dagli uomini. Una nota controargomentazione (v. Moss Kanter, 1977) assegna gran parte della responsabilità di ciò al fatto che le donne ai vertici sono troppo poche e che la pressione del numero di colleghi dirigenti maschi sul loro stile di lavoro è determinante nello spingerle a mutuare formule e linguaggio ormai collaudati dal genere maschile.
Non esiste, insomma, un esempio storico cui ispirarsi, un contromodello già consolidato. Le donne non hanno potere, a tutt'oggi, ma non sanno proporre, quando accade loro di disporne, una maniera alternativa di gestirlo.
5. La rappresentanza politica
A conquistare il diritto di votare per le assemblee rappresentative il genere femminile è arrivato solo nel secolo scorso (pionieri del suffragio allargato sono stati i paesi anglosassoni dell'emisfero australe, Nuova Zelanda e Australia), ma ormai da circa ottant'anni quasi tutti gli Stati democratici (alcuni dopo la seconda guerra mondiale, come l'Italia, o le democrazie ex coloniali, ad esempio l'India, la Svizzera soltanto nel 1971) l'hanno suggellato. A partire da queste date le donne hanno acquisito il titolo formale per entrare in parlamenti, governi, municipalità, amministrazioni locali e commissioni governative, ma la loro capacità di imporsi ha proceduto a strappi e nel complesso esse risultano tuttora sottorappresentate. Gli ottocentoventi membri del Parlamento europeo, per citare un esempio del contesto più vicino, includevano solo 194 donne nel 2000. Questa persistente posizione di minoranza, anche nei paesi più avanzati, non ha impedito a singole donne di raggiungere cariche di alta responsabilità, in veste di capi di governo e primi ministri, o di occupare ruoli in importanti organi istituzionali; ma l'ipotesi che tali conquiste garantissero, come prevedibile conseguenza, un'ampia partecipazione femminile a parlamenti e a governi si è rivelata fallace. Golda Meir, Indira Gandhi, Margaret Thatcher sono state ben più che semplici simboli, avendo governato con mano ferma e operato con pieni poteri, ma non molte donne le hanno seguite e la filiera femminile nella sfera pubblica ha faticato molto a mantenersi visibile e soprattutto a irrobustirsi.
Intorno alla ristretta presenza femminile nei parlamenti dei paesi democratici e ai modi per renderla più equilibrata si è accesa da anni una discussione vivace nelle sedi istituzionali, nei movimenti, fra i politici e i politologi. I partiti storici di grosso calibro (o anche i nuovi, più permeabili) hanno ricevuto ripetute sollecitazioni da comitati misti, dalle commissioni di pari opportunità e da gruppi femminili organizzati perché assicurassero un congruo numero di candidate nelle liste elettorali e ne favorissero in tal modo l'approdo negli organi rappresentativi. Il Trattato di Amsterdam del 1999 ha ratificato l'impegno da parte dell'Unione Europea ad ampliare l'immissione delle donne nei principali centri politici e decisionali (gender mainstreaming è l'espressione convenzionalmente usata, dietro alla quale si celano buone intenzioni e ideali convincenti, ma molto difficili da tradurre in pratica). Quantunque la sproporzione tra i sessi in questa sfera particolare costituisca il residuo più tenace di un'asimmetria profonda, il genere femminile gode almeno di un vantaggio: il numero delle donne è così considerevole da occupare, in via di principio, il primo posto tra i gruppi candidati a esigere una rappresentanza proporzionale o quantomeno una rappresentanza matematicamente uguale: è questo ragionamento, appunto a favore del 50% delle candidate donne, che ha ispirato il movimento della parità in Francia dal 1996 fino a oggi. Prima di chiarire l'approccio del movimento francese e quelli seguiti in altri Stati, sono tuttavia utili alcune informazioni generali sulle dinamiche elettorali più conosciute.
La presenza femminile negli organi rappresentativi italiani si è mantenuta molto bassa (intorno al 10%) per decenni, sia nel corso di legislature propizie all'innovazione, sia nel corso di quelle più tradizionali, malgrado le donne abbiano assaporato in occasioni diverse riconoscimenti lusinghieri, come la presidenza della Camera e alcuni ministeri. Le donne hanno raggiunto il miglior risultato elettorale durante il primo governo di centro-destra nel 1994, con una percentuale del 14% tra i parlamentari.
I brillanti esempi dei paesi del Nordeuropa, per contrasto, vengono citati sovente in modo indifferenziato, ma in realtà soltanto la Svezia supera il 40% delle rappresentanti femminili, seguita dagli Stati scandinavi più piccoli, che toccano in ogni caso una percentuale superiore al 30% di donne elette. Anche la mediterranea Spagna ha conseguito posizioni migliori di quelle italiane e conta pressappoco un 20% di elette, regolarmente, nei diversi schieramenti politici. L'apertura all'apporto del genere femminile nelle sedi politiche istituzionali si è manifestato in Gran Bretagna solo dopo il 1997, superando una stagnazione molto lunga; ancora adesso un esiguo 18,4% risulta far parte degli organi rappresentativi. Eppure si è trattato dell'esito di una mobilitazione ben organizzata da appositi comitati, che hanno puntato all'obiettivo di eleggere, gradualmente, almeno il doppio delle rappresentanti femminili già affermate (la lista Emily ha provveduto a raccogliere fondi, sempre prescindendo dal colore politico delle donne candidate). Da alcuni anni la Germania è riuscita a mantenere un tasso del 31% di rappresentanti femminili, confermandolo e migliorandolo nel 2002.
Quali tipi di cariche ricoprono le rappresentanti elette? Partiti e governi attingono in genere al serbatoio delle qualità ritenute femminili, seguendo le orme di una concezione essenzialista, ancorché aggiornata, della donna: alle elette viene affidata la responsabilità di alcune funzioni sociali, talvolta molto rilevanti come quelle riguardanti la salute pubblica o la politica migratoria, e le questioni, sempre meno facili da sbrogliare, gravitanti intorno alle istituzioni familiari; in più, il peso non lieve di un Ministero per le pari opportunità, dotato di ambizioni e possibilità elevate, di una presa simbolica debole perché poco legittimata e di una scarsissima autonomia finanziaria e decisionale. Le aree dotate di un peso politico superiore o quelle responsabili di scelte economiche cruciali - le hard areas, come le definiscono opuscoli e dibattiti sull'argomento - quali gli affari interni, gli affari esteri, la giustizia e la difesa sono raramente affidate a ministri donne.
Le vicende politiche del genere femminile in Francia e in Belgio vengono illustrate in modo diverso (v. Del Re, 2003). In Francia, dove la percentuale delle rappresentanti stazionava da tempo intorno allo stesso tasso italiano, la forza della mobilitazione, anche maschile, a favore di una riserva del 50% di candidate donne nelle liste elettorali ha ottenuto prima (nel 1999) un ritocco della Costituzione francese, poi un'affermazione lusinghiera nelle elezioni amministrative del 2001 (circa il 48% di donne elette). Il successo è stato tuttavia bruscamente ridimensionato nelle elezioni politiche del 2002, quando il numero delle candidate e delle elette ha subito un drastico taglio.
La filosofia politica del Mouvement de la parité concepisce l'ambito della rappresentanza come bisessuato o asessuato: quindi obbligato a ospitare sia femmine che maschi alla pari, proprio al fine di essere considerato neutrale e universalistico (v. De Clementi, 2003); esclude quindi, in modo aggressivo e determinato, con una sua logica affascinante, stringente e rischiosa, ogni calcolo di quote elettorali da negoziare in anticipo e ogni considerazione per le minoranze nazionali dello Stato francese; nel linguaggio di Joan W. Scott (v., 1997), intende evitare il 'differenzialismo' anglosassone, pragmatico e confusionario, in nome di un'identità francese unitaria e abitata per principio da entrambi i sessi. L'approccio federalista dello Stato belga è maturato come conseguenza di premesse nettamente diverse (v. Del Re, 2003; v. Martiniello, 2000). Lo Stato belga aveva già fatto i conti con le proprie minoranze nazionali (Valloni, Fiamminghi, Tedeschi) sul piano della rappresentanza politica e delle istituzioni sociali e il ceto politico ha potuto perciò acconciarsi più facilmente all'adozione di quote elettorali per le candidature femminili, che da un iniziale 20% sono andate progressivamente aumentando. I gruppi etnici, in questo caso, si sono trovati su un piano parallelo a quello del genere femminile (o viceversa), rendendo praticabile una formula che ad altri paesi piace meno, o che non può fare leva su analoghe premesse nazionali.
Molte variabili del sistema politico-elettorale giocano un ruolo nel panorama appena abbozzato. La differenza fra un sistema elettorale proporzionale e uno maggioritario influisce sensibilmente sugli esiti del voto; aiuta a spiegare, ad esempio, lo scarto fra il primo ottimo risultato ottenuto dalle donne francesi nelle elezioni amministrative (gestite con il meccanismo proporzionale) e il secondo, deludente, scaturito dalle elezioni politiche. Il voto maggioritario non consente la fissazione a priori di quote o la rende assai ardua. È possibile che i parlamenti e i governi offrano un sostegno finanziario ai partiti politici disposti ad aprire uno spazio al meccanismo delle quote e quindi alle candidature femminili; dal canto loro, le organizzazioni partitiche sono libere di rifiutarlo. Una decisione del Senato italiano, favorevole alla revisione dell'articolo 51 della Costituzione, offre ai partiti la possibilità di aprire uno spazio alle quote, possibilità precedentemente esclusa (v. Valentini, 1997). Rimane tuttavia problematica la trattativa delle potenziali candidate con partiti strutturati e refrattari, caratterizzati da una folta presenza di solidi candidati e di rappresentanti maschi ripetutamente eletti.
Le analisi dei politologi e delle commissioni per le pari opportunità concordano nell'indicare uno degli ostacoli che intralciano il cammino del genere femminile verso una maggiore presenza nella sfera della rappresentanza. Più che la penuria di competenze e di credenziali educative è la mancanza di esperienze pregresse - insomma della formazione incrementale di un curriculum nel campo strettamente politico o pubblico - che penalizza il genere femminile: "l'accesso agli incarichi di responsabilità si basa su meccanismi cumulativi [...] più il curriculum è ricco di incarichi prestigiosi, più aumentano le probabilità di assumerne di nuovi" (v. Presidenza del Consiglio dei ministri, 2000, p. 115).
Rimangono comunque fermi due principî, che i politologi richiamano a scanso di equivoci o di derive ideologiche: il genere femminile deve essere in grado di rappresentare gli interessi di tutti, quindi anche del genere maschile e degli schieramenti politici di tutto l'arco parlamentare; in secondo luogo, le donne non dispongono del diritto di esprimersi in nome dell'intero genere femminile, che è eterogeneo e differenziato a seconda delle appartenenze sociali, delle ispirazioni etiche, dei punti di vista e degli interessi. Questa capacità di mediare tra la propria eredità storica di genere e le eredità storiche di altri esseri umani è un requisito sempre più chiaramente richiesto per prendere parte all'arricchimento dell'universo politico.
6. Le modificazioni della sessualità
Dopo la straordinaria rivoluzione liberalizzatrice degli anni sessanta, mentalità, linguaggio e abitudini dei due sessi si sono aperti a pratiche e fantasie precedentemente censurate, apertura che a sua volta si è riflessa nel cinema, nelle tecniche pubblicitarie, negli spettacoli e nei mass media, dando luogo a forme di esibizione talora disturbanti, che richiamano gli aneliti delle avanguardie artistiche del primo Novecento. Quasi una rincorsa a chi osa di più, a come traumatizzare il pubblico, come superare i limiti, quale ulteriore gesto iconoclastico compiere. Ma la conoscenza particolare della sessualità femminile, con le sue incognite e le sue complicazioni, non ha fatto molti passi avanti. Stranamente, il movimento femminista ha messo la sordina al tema del sesso, dopo averlo collocato tra i simboli più emblematici della sua diversità.
Le originali intuizioni di Carla Lonzi (v., 1971) avevano avuto il coraggio di introdurre nell'analisi dell'erotismo femminile 'l'imprevisto' della donna clitoridea (v. Boccia, 1990). La sofisticata elaborazione teorica seguente (Luce Irigaray, Hélène Cixous, ecc.) è riuscita a coprirla con un manto di simboli raffinati, di allusioni, di ipotesi filosofiche e psicanalitiche sottili, così disperatamente (e anche comicamente) distanti dalle esperienze reali che ha finito col dissolvere la sessualità come oggetto concreto di ricerca. La sensibilità erotica delle donne ne è emersa pubblicamente esaltata, ammirata, inseguita, come un bene in fondo facile da catturare, ma difficile e forse inutile da conoscere, non meglio compresa o rispettata di una volta. Da tempo, quindi, la sessualità femminile paga il prezzo di un arretramento maschile in direzione dell'insicurezza e dell'ansia da prestazione, o verso una reazione furibonda e aggressiva che è alla base delle numerosissime violenze maschili, private e pubbliche, contro il corpo femminile.
L'accento posto sul 'fare sesso' nel modo più soddisfacente, come tema centrale dei nostri tempi, e i prodotti collaterali della liberalizzazione sessuale abbondano, dagli anni sessanta in poi, nel linguaggio, nello stile della comunicazione pubblica, nella spettacolarità del corpo nudo maschile e femminile. Ma una conoscenza più genuina e approfondita dei desideri maschili e femminili (o dei bisogni, la differenza non è piccola) e dei loro modi di trarne piacere sembra ancora lontana. Qual è il significato implicito, ad esempio, di un manifesto per preservativi "non fare mai aspettare una donna", se non l'ovvio fraintendimento della distanza tra tempi maschili e tempi femminili nell'esperienza del piacere? La difficoltà delle donne a operare una scissione istantanea fra il piano emozionale e quello fisico, scissione caratteristica della sessualità maschile tradizionale, viene considerata irrilevante o superata dalla caduta dei tabù sessuali. Sono passati i tempi in cui si discettava, come di un vero problema medico-psicologico, della frigidità femminile, tramontata insieme all'isteria di freudiana memoria.
Si è tentato, nei sondaggi e nei mass media, di porre alcune domande difficili a donne e uomini su come vivono la loro sessualità e su come la sperimentano quotidianamente nella normale vita di coppia; ma le risposte sono opache. Mai una traccia, un tentativo di capire quel che scelgono di fare le donne, quando si trovano a vivere da sole, supponiamo, per scelta o perché prive di un compagno fisso, nei momenti e nelle circostanze nelle quali percepiscono prepotentemente le proprie pulsioni sessuali. Un'ipotesi plausibile è che l'unico canale di comunicazione adatto per trasmettere contorsioni cariche di dubbi e di non detto, segreti difficili, desideri e frustrazioni siano le terapie psicanalitiche, per quella ristretta minoranza che è in grado di pagarle o che ha il coraggio e la determinazione per affrontarle.
Meritano di essere menzionati anche alcuni segni positivi del cambiamento. Tra i più visibili e apprezzabili degli ultimi anni, anche se molto discussi, vanno guadagnando terreno l'accettazione dell'omosessualità e della bisessualità, maschili e femminili (presso il Dipartimento per le pari opportunità si è costituita una Commissione "Parità dei diritti delle persone omosessuali"), un atteggiamento più tollerante nei confronti della masturbazione, l'autonomia crescente nei comportamenti sessuali fra le persone credenti rispetto alla precettistica religiosa (nel contenimento delle nascite, nei rapporti prematrimoniali). Meno rassicurante l'aumento in alcuni paesi del numero delle giovani adolescenti che diventano madri prestissimo, fuori dal matrimonio, quasi casualmente, senza tutelarsi, incorrendo in avversità e rovesci esistenziali e pratici che segnano la loro vita successiva.
Le forme di una modernizzazione sessuale tutta esteriore prevalgono: le pubblicazioni pornografiche si moltiplicano, insieme ai siti Internet adibiti allo stesso tipo di immagini; gli spettacoli e i programmi mediatici nei quali l'intimità corporea viene ostentata con una sorta di invito provocatorio allo striptease collettivo occupano le fasce orarie più diverse e alcune reti quasi per intero. Il successo iniziale di uno spettacolo come Il grande fratello era previsto come frutto sicuro del voyeurismo di massa.
Per un concorso di fattori e di circostanze inedite, la sessualità si trova oggi invischiata in una costellazione di nuove variabili. Le ricerche sul mercato del sesso, sulla tratta delle donne e dei minori, sul turismo a scopo sessuale, sulle facce nuove della prostituzione, comunicano un mutamento su grande scala collegato ai processi della globalizzazione (v. Besussi e Leonini, 2001). Due aspetti spiccano tra gli altri: da un lato, la prostituzione tradizionale cresce e prospera nel mondo occidentale; dall'altro, le donne e i transessuali, che vi entrano volontariamente o per coercizione, provengono sempre più da paesi africani e asiatici. Tratta e traffici a scopo di sfruttamento sessuale sono stati denunciati ed esplorati sotto più punti di vista (v. Carchedi e altri, 2000), e lo stesso è accaduto per il 'turismo sessuale', anche per le sue ricadute sulle economie di alcuni paesi (v. Leonini, 2001). Interventi mirati puntano a rompere il circuito della dipendenza e dello sfruttamento delle donne straniere, offrendo garanzie di protezione fisica, programmi di reinserimento in ambienti e in attività più sicure a chi riesce a sottrarsi al controllo delle organizzazioni. Si tratta molto spesso di iniziative di religiosi e di gruppi cattolici, condotte con discutibili metodi e obiettivi di 'redenzione', ma anche di iniziative laiche (v. Carchedi e altri, 2000).
Il mestiere più vecchio del mondo, è la tesi di Leonini (v., 2001), si è molto trasformato. A differenza di quanto sostengono da tempo alcune associazioni di prostitute autogestite, il lavoro sulla strada non è esattamente 'un lavoro come un altro', esercitato liberamente in un mercato libero. I protagonisti, le modalità di scambio, i rituali, il significato che la rete dei rapporti a pagamento riveste nella società occidentale contemporanea sono molto cambiati. La grande barriera demolita negli anni sessanta - i tabù della castità prematrimoniale, dei divieti familiari, del pudore femminile, la proibizione della propaganda contraccettiva, i sensi di peccato e di colpa - una volta rimossa avrebbe dovuto lasciare il posto a una libertà di rapporti tra donne e uomini, tra ragazze e ragazzi, da assaporare e condividere senza remore, se non quelle legate alle esigenze di maturazione soggettiva dei protagonisti. Non v'è dubbio che questo si sia ampiamente realizzato, esaudendo così almeno in parte le felici aspettative di Lina Merlin, che nel 1958, interrogata su come avrebbero fatto i nostri ragazzi privati delle case chiuse a diventare esperti amatori, aveva risposto "impareranno con le loro coetanee".
Pare tuttavia che la ricerca del sesso a pagamento da parte degli uomini (di tutte le età, di tutte le classi sociali) non sia affatto scemata. L'apertura di una strada del tutto sgombra da ostacoli per lo scambio sessuale tra maschi e femmine, svincolato da legami e promesse di impegno reciproco, rimane un fatto a sé, parallelo e separato: esso non ha influito significativamente sul flusso dei clienti delle prostitute, del quale è stata viceversa registrata una crescita, né sull'ampiezza del mercato sessuale (v. Tatafiore, 1994 e 1998; v. Leonini, 2001). Per la verità, le scienze sociali si interessano poco di questo fenomeno, mentre alcuni gruppi di femministe cercano di seguirne gli sviluppi; il resto è affidato alle forze dell'ordine, ai disegni di legge, ad abbozzi di risposte al disagio della popolazione.
Il rimescolamento dell'offerta sessuale nello spazio pubblico, compiutosi negli ultimi quindici anni, ha rivoluzionato le emozioni degli uomini, modificato il loro gusto della trasgressione con l'introduzione nel mercato di donne di colore, diverse, straniere. L'attrazione dei maschi verso la femminilità subordinata non è un fenomeno nuovo (basta pensare ai rapporti con le donne indigene nelle colonie, o con la servitù); nuovo è l'ordine di grandezza nel quale i nuovi sviluppi si manifestano, il sapore particolare che l'atto del consumare, ai nostri giorni, insinua in tutti i comportamenti. Le ricerche sui clienti della prostituzione (poche ma rivelatrici) registrano la scomparsa della relazione fissa cliente-prostituta, di quella complicità particolare con la donna prezzolata, in uno stile rovesciato rispetto a quello solidale con la moglie ufficiale. L'influenza che la pratica sessuale tra donne e uomini liberi ha avuto sulla relazione matrimoniale, dagli anni sessanta in poi, è divenuta più chiara.
La relazione tra un uomo e una donna, entrambi indipendenti, implica una coscienza della parità, una consapevolezza della dignità femminile, delle sue esigenze intime, molto meno represse di una volta, della sua libertà di frequentare sessualmente altri uomini, che grava sul maschio, lo sbilancia, richiedendogli una cautela, un'attenzione e una riflessione delle quali preferisce fare a meno. L'alternativa della donna di strada pagata, che non avanza pretese, essendo le sue esigenze per definizione nulle, può apparire comoda e attraente.
Le reazioni delle partners - ragazze, fidanzate, mogli (quando ne siano consapevoli) - costituiscono un'espressione dell'ambiguità e delle debolezze femminili cui si alludeva all'inizio. Indignazione debole, incredulità, distacco rispetto alle inclinazioni e all'agire maschili che ci si rifiuta di esplorare. Insomma, una sopportazione accomodante per timore di rischi anche peggiori cui si potrebbe andare incontro, un impasto di timore, ipocrisia, miopia o calcolo arrendevole del proprio tornaconto. Come se una divisione del lavoro sessuale fosse ancora possibile e infine accettabile, nello stile dei vecchi tempi, quando tra compagna della vita e donna di strada la polarizzazione era netta e una riflessione sulla diversità tra donne e uomini in questo campo neppure tentata. Il patto di genere non viene messo seriamente in discussione; né, come osservano ricercatori e ricercatrici, le donne occidentali si rendono conto che la loro parità e il maggior rispetto che incutono vengono compensati o svuotati dall'assenza di emancipazione e dalla sottomissione di donne provenienti da aree nelle quali l'uguaglianza di genere non è per il momento pensabile (colpisce peraltro la coesistenza di due mondi di donne che si ignorano largamente a vicenda). Difficile sottovalutare la gravità dello sfruttamento ai danni di una parte della popolazione femminile, difficile chiudere gli occhi su questa acquiescenza delle donne libere e 'normali', che arretrano o si arrendono di fronte all'humus insondato della sessualità maschile.
Vari indizi segnalano peraltro che le donne cominciano a prendere l'iniziativa nel mondo del sesso maschile a pagamento o a mostrare curiosità verso le sollecitazioni della comunicazione pornografica. Atteggiamenti come questi (che vantano in realtà parecchi precedenti storici) vengono volentieri classificati sotto il segno di un'imitazione del modello maschile: è il maschio a fare da guida in un mondo di trasgressioni che la femmina mai oserebbe esplorare da sola.
Tramandata oralmente e documentata da diari e testimonianze maschili sembra invece ben forte la tradizione dei viaggi delle donne bianche, nordiche, attraverso tutto il Novecento, in località particolari delle isole caraibiche, dei paesi tropicali, delle enclaves africane, delle spiagge italiane, alla ricerca di avventure con maschi latini e di colore (la letteratura afro-americana sulle relazioni tra uomini neri e donne bianche è assai ampia). Anche a proposito del turismo sessuale femminile, osservazioni analoghe vengono proposte, come se la pratica della débauche (l'espressione prediletta di Gustave Flaubert) potesse essere appresa dalle donne solo attraverso l'imbuto obbligato dell'esempio maschile e ripetendo modalità sperimentate dagli uomini in avanscoperta. È un discorso complicato, che sotto un certo profilo richiama quello abbozzato sul diverso rapporto nell'uso del potere da parte dei due sessi. Con la differenza che gli impulsi sessuali, a differenza della vocazione al potere, sono propri delle donne come degli uomini, anche se la morale e il costume hanno imposto per lungo tempo agli uni e alle altre di governarli in modo diverso.
7. L'aspettativa più lunga di vita
La fascia d'età al di là dei sessant'anni o, ai nostri giorni, al di là dei settantacinque (Peter Laslett - v., 1989 - si è occupato per tempo di Una nuova mappa della vita) viene studiata quasi sempre a parte, come un oggetto fragile e poco gratificante, meritevole di un'attenzione particolare, gravato da eventi e da mutamenti biologico/esistenziali che ne destinano la trattazione agli specialisti. La narrativa e la saggistica, come accade per altre esperienze sociali indicibili o difficili da comunicare, riescono a convogliare con la loro libertà esplorativa ed espressiva il senso della vita negli ultimi stadi, della decadenza fisica e dei mutamenti interiori che accompagnano la vecchiaia. Per il versante femminile, la narrativa e la saggistica hanno contribuito prima con Simone de Beauvoir (v., 1949 e 1970), poi con la produzione romanzesca di Doris Lessing (v. The diaries ..., e Impertinent ..., 1984, e 1985) - e, in una chiave diversa, con l'autobiografia di Sibilla Aleramo (v., 1978). Anche in questi casi, salvo l'ultimo, è attraverso altri occhi, quelli di una donna adulta in buona salute, che la vita quotidiana all'età di novant'anni - con le umiliazioni dell'incontinenza e dell'immobilità - è stata investigata. Le testimonianze più penetranti provengono da chi, come de Beauvoir, descrive direttamente e con maggiore spietatezza il proprio corpo a corpo con l'età ("guardo e riguardo questa cosa che da anni mi serve da faccia").
In realtà ciò che spontaneamente facciamo è sperimentare e percepire l'aspettativa più lunga di vita, non la sua durata. È il prolungamento del tempo che abbiamo incorporato nei comportamenti e nel ciclo dell'esistenza, fin dalle prime fasi del suo percorso: nel posponimento delle decisioni matrimoniali, nel rinvio della procreazione dei figli, nei lunghi archi temporali programmati per i periodi formativi. Molto cambia quando l'età anagrafica avanzata produce tangibilmente i suoi guasti, ma l'aspettativa di vita - affievolita, zoppicante - protrae tenacemente la sua presa nel tempo. È poco scandagliato il vissuto quotidiano e individuale di questa lunga fase protratta. Le età anagrafiche si erigono come paletti, ma il mutamento, quando non colpisce in modo repentino a causa di una malattia, è graduale, impercettibile; uno spostamento, giorno per giorno, anno per anno, di quello che si può fare e di quello che non si può fare. Il genere femminile ha accettato di abitare in questa dimensione crepuscolare con più ottimismo di quello maschile, proprio perché il disfacimento del corpo tocca intimamente le donne, cui oppongono una disperata resistenza. Non si spiegherebbe altrimenti il ricorso così frequente, per chi ne ha i mezzi, ai molteplici interventi di chirurgia estetica. Le donne continuano a vedersi con gli occhi degli uomini per un tempo incalcolabile. L'industria dei cosmetici, che ha conquistato anche una parte del sesso maschile, ne è pienamente consapevole e tiene conto di questa protratta centralità del corpo: i suoi prodotti, destinati alle donne giovani e alle anziane in uguale misura, stanno inseguendo stagione dopo stagione le generazioni in declino, le cinquantenni, le sessantenni di cui si sa che, potendo contare su una lunga aspettativa di vita, prenderanno cura del proprio corpo fino a quando ne avranno la forza ('entra in un futuro senza età', consiglia la pubblicità nelle vetrine accanto a visi giovani e splendenti).
È un'esperienza nuova, per entrambi i sessi. Le scienze sociali hanno lavorato sotto il pungolo della ineludibile scoperta che i demografi avevano comunicato per tempo intorno all'allungamento della vita (chiamata anche 'speranza di vita'); e hanno filtrato nelle loro analisi la sollecitazione proveniente dalla fatica inedita di almeno due generazioni che, negli anni centrali della maturità, si sono trovate a vivere parallelamente o anche accanto a genitori molto anziani ('mia madre ha novant'anni' è una comunicazione che sorprende sempre meno).
La speranza di vita, per entrambi i sessi, differisce da un paese all'altro. La media, a livello mondiale, è di 66 anni. Il Giappone batte tutti i paesi occidentali con una durata di vita che supera gli 81 anni (le cifre si riferiscono al quinquennio 2000-2005), subito seguito dalla Svezia, la cui durata media è di 80 anni. Sullo stesso piano si collocano i paesi europei, il Regno Unito, la Francia, l'Italia, la Grecia, con una speranza di vita di circa 78-79 anni per uomini e donne. Nel continente asiatico, la Cina e l'India hanno raggiunto una durata media di vita di 71 e di 64 anni, rispettivamente. Molto meno a lungo si vive nei paesi africani, per i quali bastano pochi esempi: lo Zambia, con una speranza di vita di 42 anni, il Mozambico, con 38 anni (in calo dal quinquennio precedente), e persino il Senegal, non certo il paese più povero dell'Africa, dove la speranza di vita si aggira sui 54 anni.
Nei nostri paesi benestanti, dotati di abbondanti risorse, di apparati sanitari decorosi, di cure disponibili fin dalla prima infanzia, la durata della vita è praticamente raddoppiata nel giro di un secolo e, come è noto, la longevità femminile supera quella maschile, in media di sette o otto anni. A questa cifra vengono aggiunti i tre che tradizionalmente separano le età delle coppie quando contraggono matrimonio, definendo in circa dieci anni il periodo che le donne, se coniugate, sono presumibilmente destinate a trascorrere in condizione di vedove dopo la scomparsa del marito - il che non significa, necessariamente, in solitudine o in isolamento assoluti. Fra le popolazioni occidentali le donne costituiscono oltre il 63% delle persone al di sopra dei settantacinque anni (è per questo che si parla di femminilizzazione della vecchiaia).
Tutte le informazioni di cui disponiamo al 2003 fotografano la condizione di generazioni giunte a tarda età nell'ultimo quinquennio, nostre coeve, alle cui spalle si sono dipanate lunghe vite intessute di consuetudini, scadenze e riti che hanno completamente cambiato faccia, decennio dopo decennio. I segnali di allarme possono manifestarsi anche precocemente, ma si concretizzano sicuramente dopo i 70 anni, quando cominciano a operare i condizionamenti strutturali preesistenti, che si aggravano, o i nuovi, aggiuntivi, che esplodono all'improvviso. Può esservi benessere e prosperità, ma non accompagnati da buona salute e buona compagnia. Molta importanza viene assegnata all'ambiente di vita, al contesto urbano, alla comunità solidale e ristretta, in sostanza a una condizione rurale, o a quella isolata della grande e anonima città.
Molta parte della fetta aggiuntiva di vita conquistata dalle popolazioni più fortunate viene condivisa da uomini e donne insieme. I contributi di ricerca di cui disponiamo hanno raccolto molti elementi a questo riguardo, sottolineando tuttavia precise differenze tra i generi. Si è divaricato, secondo le ricerche degli studiosi (v. Facchini, La specificità ..., 2000), il modo nel quale uomini e donne trascorrono i loro ultimi anni. Vanno richiamati innanzitutto i tre fattori - la salute, il tenore di vita o condizione economica e l'inserimento nelle relazioni familiari - il cui intreccio, a parere dei ricercatori, incide sul tipo di vita che donne e uomini anziani conducono dopo i 75 anni (ibid.). Non esiste una condizione di tarda età, oltre la soglia nominata, che non debba affrontare, sopportare, governare una di queste tare; tuttavia il divario tra i due sessi è netto. Un numero consistente di donne oltre i 75 anni si trova costretto a fronteggiare tutti e tre questi elementi negativi, mentre un numero abbastanza consistente di uomini ne rimane esente per un buon lasso di tempo.
Le donne vivono più spesso da sole (il 40%, a fronte di un 20% degli uomini), anche se in Italia le reti parentali le proteggono a lungo. Sette anni in più da impiegare possono non costituire sempre un privilegio. Lo scarto di età all'interno delle coppie non funziona a vantaggio del genere femminile; il procedere dell'età non opera mai a favore del sesso femminile, qualunque strategia o espediente esso riesca a escogitare (come quelli estetico-chirurgici sopra citati). Persino il vantaggio 'tecnico' di una sessualità senza barriere temporali per le donne - visto che solo la funzione riproduttiva si interrompe intorno ai quarant'anni (mentre la potenza sessuale maschile ha durata variabile, ma incontra a un certo punto un limite) - non si incarna in un vantaggio riconoscibile, sociale: "la propensione a contrarre secondi matrimoni è maggiore, doppia, per gli uomini che per le donne" (ibid.). A controprova, i dati indicano che gli uomini al di là degli 80 anni vivono nella maggior parte dei casi in coppia (il 48%), mentre la quota delle donne nelle stesse condizioni è assai più modesta (il 12%). Una caratteristica positiva della società italiana, sottolineata dagli studi sulla povertà e sulle classi di età anziane (v. Negri, 1991; v. Mingione, 1999; v. Micheli, 1999), è che il contributo familiare e affettivo al conforto e all'assistenza di chi vive in tarda età risulta tuttora robusto, come in altri paesi del Mediterraneo. Mentre le capabilities, secondo il linguaggio di Sen, corrispondono in genere, per queste fasce, alla povertà delle risorse relazionali più che economiche, indispensabili per far funzionare al meglio la stessa disponibilità economica.
Tra i vissuti meno indagati ma molto toccanti delle persone anziane, il più rivelatore è forse la difficoltà - indescrivibile e del tutto incomprensibile per una persona giovane e valida - a 'far passare il tempo', a occuparlo in qualche modo. Si sostiene che le donne, più indaffarate intorno alla casa e alla quotidianità degli uomini, abbiano sempre 'qualcosa da fare', ma questo non rimane vero per un tempo indeterminato. Le scienze sociali procurano dati essenziali e informazioni macrosociali, certo indispensabili per valutare e soppesare una condizione che riguarda numeri crescenti di persone, ma ciò che se ne ricava è una visione insieme crudele e asettica, che, appena possibile, separiamo da quella delle altre fasce d'età nel linguaggio scientifico come nelle emozioni che ci suscita. Manca l'analisi dei passaggi, delle transizioni (secondo il linguaggio di Glen Elder: v., 1985), la gradualità o la rapidità con la quale le persone fronteggiano il cambiamento, lo metabolizzano o lo esplorano con sapiente cautela. I confini fissati dalle statistiche parlano dei settanta anni, degli anni dopo i 75, di quelli tra gli 80 e i 95, cifre che risuonano come piccoli colpi di gong per chi le legge, ma che non descrivono nulla nei dettagli, né consegnano immagini realistiche e concrete, che evitiamo persino di evocare, visto che tendiamo a difendercene.
8. Conclusione
I traguardi più straordinari attinti dal genere femminile appartengono alla sfera intellettuale e dell'arte. Nella comunicazione artistica i talenti, le doti, il gusto, le capacità inventive, la creatività, la genialità sbocciano e fluiscono lungo una gamma sempre più variegata di espressioni e di stili. Sono i terreni nei quali appare più evidente come - una volta ricacciati indietro alcuni dinieghi, cambiata l'immagine di sé, invitate pubblicamente a poetare, narrare, dipingere, creare film, scrivere di filosofia e di storia - il serbatoio della fantasia e delle idee femminili si è dischiuso e ha trovato i suoi sbocchi, smentendo uno dopo l'altro i luoghi comuni che ne avevano circoscritto il perimetro e le potenzialità, e ponendosi continuamente nuove sfide. I due ambiti più refrattari al cambiamento rimangono la vita quotidiana e il rapporto con il potere. Il potere politico ed economico, insomma le leve, restano fermamente nelle mani degli uomini.
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