Donna
di Evelyne Sullerot
Donna
sommario: 1. Introduzione. 2. Psicologia. 3. Condizione sociale della donna. 4. Posto della donna nell'istruzione e nel mondo del lavoro. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Donna: persona di sesso femminile. Sulla scia della grande Encyclopédie di Diderot, i dizionari e le enciclopedie, fino a data recentissima, hanno definito la donna come ‛la femmina dell'uomo'. Questa definizione è ormai scomparsa; la donna è considerata dalle società moderne come un essere autonomo: l'uomo non è più l'unico criterio di misura di tutte le cose umane.
Tuttavia, la donna viene ancora per lo più descritta, sia negli aspetti anatomici e fisiologici sia nei tentativi di rappresentazione di quella che si è convenuto di chiamare la ‛condizione femminile', prendendo come termine di confronto l'uomo. Con ‛condizione femminile' s'intende il posto, lo status e il ruolo della donna in una società data. La condizione femminile può essere considerata come una struttura mutevole, che comprende molteplici aspetti strettamente connessi tra loro e caratteristici di una società definita in un'epoca definita: stato giuridico (diritti e divieti peculiari delle donne); stato economico (condizione della donna rispetto alla proprietà, alla trasmissione, alla gestione e alla produzione dei beni); stato familiare (posto e ruolo della ragazza, della moglie, della madre e della nonna nella famiglia); stato sessuale (tolleranza e limitazioni dei comportamenti femminili in campo sessuale, atteggiamenti e comportamenti prevalenti nei riguardi della sessualità femminile, della prostituzione, della libertà di concepimento, dell'aborto, ecc.); stato politico (posto delle donne nella vita civile, atteggiamenti e comportamenti politici, ecc.). Sono questi alcuni degli aspetti (ce ne sono parecchi altri) che compongono la struttura anzidetta. Lo studio della condizione femminile e della sua evoluzione in una società è un modo eccellente, come scriveva già all'inizio del sec. XIX lo svedese Geiger, per ‟dare la misura esatta dello sviluppo di questa società".
Ogni studio dei vari aspetti della condizione femminile presuppone quasi automaticamente, lo si voglia o meno, il confronto con l'uomo. Ciò si verifica anzitutto perché la storia e la sociologia della donna non hanno costituito, sinora, campi di ricerca autonomi. Manca la disciplina e, a fortiori, i tentativi di interpretazione: non esiste ancora, infatti, una teoria della condizione della donna, e non per mancanza di ideologie (femministe o no), ma certamente per mancanza di ‛totalizzazione' delle conoscenze in materia. D'altra parte, il riferimento alla situazione dell'uomo consente spesso una migliore comprensione dei fatti femminili. Se, per esempio, si dice che il numero delle donne ingegneri è raddoppiato in Francia tra l'inizio e la fine degli anni sessanta, l'informazione è esatta; sarà però assai più completa aggiungendo che le donne rappresentano il 3,7% degli ingegneri francesi all'inizio degli anni sessanta e il 3,3% alla fine. Diviene allora evidente l'estrema modestia del numero degli ingegneri donne rispetto agli ingegneri uomini, e il senso di una evoluzione che, nonostante il raddoppiarsi degli effettivi in breve tempo, non costituisce un progresso reale. La stessa dimostrazione si potrebbe fare partendo, per esempio, dal numero di donne americane in possesso di un dottorato (Ph. D.) nel periodo 1930-1970, o dall'ammontare globale dei loro salari. Il riferimento alla ‛serie maschile' come termine di paragone non è soltanto il prodotto di un'abitudine, ma è spesso necessario per la valutazione dei dati acquisiti, in modo da situare la condizione della donna, oltre che rispetto al suo passato, anche all'interno dell'evoluzione della società in cui è inserita.
2. Psicologia
Si è tentato in ogni tempo di delineare una psicologia femminile. Per lo più i tentativi non sono andati molto al di là dell'impressione soggettiva o della definizione normativa, e i loro risultati, se forniscono materia a eccellenti romanzi e a svariate etiche, sono spesso contraddittori. In realtà, le donne differiscono molto non solo tra loro, ma anche da una società all'altra: taluni modi di essere donna possono essere semplicemente il riflesso passeggero di una certa epoca e di un certo paese. È quindi rischioso tentare di tracciare un quadro universale e permanente dei ‛difetti' e delle ‛qualità' delle donne, tentativi ai quali indulgevano i nostri antenati. Certe descrizioni della psicologia della donna nelle enciclopedie del sec. XIX, a rileggerle oggi, suonano quasi comiche. Rimane estremamente difficile stabilire una lista di caratteristiche psicologiche fondamentali, che possano essere attribuite alle donne piuttosto che agli uomini. Le descrizioni della psicologia femminile dovute alla psicanalisi, che spesso (v. Deutsch, 1945-1946) conducono alla formula trinitaria: passività, narcisismo e masochismo, restano ipotesi interpretative di una certa scuola; non sono diventate verità universalmente riconosciute o irrefutabilmente stabilite.
I lavori degli psicologi miranti a stabilire scale metriche d'intelligenza (Binet-Simon, Terman-Merrill, ecc.) hanno permesso importanti constatazioni: a) l'intelligenza non ha sesso; b) tuttavia in certi tipi di prove - e, fatto significativo, con esperimenti reiterati e svolti in differenti paesi - riescono proporzionalmente meglio le donne che gli uomini o viceversa. Ad esempio, le ragazze riescono nettamente meno bene nelle prove in cui interviene la percezione spaziale o la riproduzione di disegni; in compenso, esse distinguono i colori meglio dei maschi, e alcuni autori scoprono in loro una maggiore facilità verbale.
Le prove che avvantaggiano o svantaggiano troppo le ragazze sono in genere eliminate dalle scale d'intelligenza in uso. Quando le prove proposte sono equilibrate per entrambi i sessi, i quozienti risultano dunque simili, con l'unica differenza che le donne ottengono un maggior numero di risultati medi (quozienti intellettuali intorno al valore 100), mentre tra gli uomini si annovera un maggior numero di ipodotati (quozienti molto bassi) e un maggior numero di superdotati (quozienti molti alti).
È interessante segnalare che, nell'insieme, le ragazze si adattano alla situazione scolastica meglio dei ragazzi e ottengono risultati globali migliori in tutti i gradi dell'insegnamento primario e secondario, fin verso i 18 anni. Soprattutto la loro applicazione è maggiore; rimangono di rado indietro negli studi, e sono più spesso avanti. Anche nei campi in cui rivelano da principio un'inferiorità, come in matematica, fisica, ecc., recuperano spesso con l'applicazione il ritardo iniziale. Gli esami orali, d'altra parte, permettono spesso di constatare una loro superiorità in fatto di scioltezza verbale. I loro interessi però non le spingono verso i campi tecnici. Tali differenze di interessi non sembrano derivare dall'educazione ricevuta nell'infanzia, ma piuttosto da tendenze legate al sesso, ancora mal chiarite; anche se non sono frutto dell'educazione, esse possono essere nondimeno in parte corrette con un'educazione appropriata, che permetta alle ragazze di sviluppare quelle attitudini scientifiche e tecniche che non manifestano spontaneamente. L'esempio dell'URSS è, a questo riguardo, rivelatore; con un orientamento autoritario e una formazione appropriata, questo paese è arrivato a formare mezzo milione di ingegneri donne. Vediamo quindi che i fattori culturali, se non modificano le tendenze iniziali, sono però capaci di mutare gli stereotipi.
Sussistono comunque dei problemi imbarazzanti, quelli ad esempio legati alla creatività femminile. In certi campi la creatività maschile è stata sopravalutata: ad esempio, il dipingere un quadro è stato a poco a poco considerato come una cosa altamente artistica, mentre il ricamo, cioè una creazione in cui la lana o la seta sostituisce la pittura a olio, è stato considerato niente più che un'arte ornamentale. Evidentemente questo è soltanto un pregiudizio culturale: essendo l'ago e il filo legati al mondo femminile, i prodotti realizzati per loro mezzo venivano considerati come secondari. In altri campi, però, non è possibile spiegare la mancanza di creatività femminile con il condizionamento culturale. È il caso della musica. In ogni tempo e in tutte le civiltà le ragazze hanno ricevuto un'educazione musicale, spesso più profonda e accurata di quella dei ragazzi. Hanno sempre manifestato, a seconda della personalità, doti musicali e fornito interpreti eccellenti; ma, sebbene non si possa invocare alcuno sbarramento sociale - giacché le rarissime donne che si sono arrischiate a comporre sono state ben accolte e per nulla scoraggiate - non si può fare a meno di osservare l'estrema rarità delle loro creazioni. In tutte le civiltà i grandi compositori sono sempre stati uomini.
Le propensioni spontanee delle ragazze in materia di giuochi rivelano una preferenza per le attività tranquille e sedentarie. Non si osservano tuttavia giuochi esclusivamente femminili e, attualmente, gli psicologi constatano una più marcata predilezione delle ragazze per giuochi più vivaci. Le tendenze in materia di gusti, di letture, di spettacoli, che sono state oggetto di numerosi studi in tutti i paesi, rivelano la preferenza delle ragazze e delle donne per spettacoli e letture sentimentali piuttosto che avventurosi o violenti.
Le ragazze sono più sensibili dei ragazzi all'influenza dell'ambiente, il che aumenta, nel loro caso, l'importanza dell'educazione che è stata loro impartita; educazione che può accrescere o, al contrario, tentare di ridurre le differenze tra ragazze e ragazzi.
Uno studio assai interessante di Bianca Zazzo mostra che le ragazze, molto più dei ragazzi, si preoccupano del successo sentimentale (amore, amicizia) e della realizzazione di sé (ideali, felicità, senso della vita), e nettamente meno del successo sociale (pecuniario e professionale). Le ragazze stesse, richieste di tracciare un ritratto-tipo della donna, sottolineano questi tratti. Cionondimeno, quando si chiede loro, a ognuna personalmente, se somigliano a tale ritratto, si constata con sorpresa che l'80% risponde che, pur essendo certamente quello il ritratto della donna in generale, personalmente si sentono diverse e non aderiscono a questo stereotipo, che non amano. Questa reazione differisce da quella dei ragazzi, i quali, dal canto loro, dichiarano di somigliare al ritratto tipo dell'uomo, che essi stessi hanno delineato. Abbiamo qui la prova che lo stereotipo femminile, almeno nella nostra società attuale, si presenta come un qualcosa che sminuisce: la tendenza delle ragazze è quindi quella di prenderne le distanze, esprimendo così un disagio che investe tutto il mondo femminile, attualmente alla ricerca di nuovi modi di essere donna, più vicini ai valori moderni: efficienza, iniziativa, attività, intelligenza, indipendenza (valori dominanti imposti dagli uomini e sostenuti dai successi tecnici e scientifici).
Le giovani donne di oggi si trovano dunque in conflitto con la società o con se stesse. La società permette loro certe debolezze o riconosce loro di aver diritto a quelle che esse stesse considerano come debolezze e che tendono a rifiutare. È ben noto, ad esempio, quanto sia importante l'affettività per la donna, tanto più che la sua emotività tende ad aumentare con l'età adulta. Se è vero che tale emotività ha un fondamento biologico, non è meno vero che è stata rafforzata dalla pressione socio-culturale, che proibisce meno alla donna che all'uomo l'espressione delle emozioni: ad esempio, la vulnerabilità fisica della donna ne abbassa la soglia della paura, ma, oltre a ciò, la società ha mostrato maggiore tolleranza verso la paura nelle donne, sino a sorriderne con tenerezza. Di conseguenza le emozioni (riso, lacrime) sono state espresse più liberamente, sino al compiacimento narcisistico. Ai nostri giorni, si fa strada nelle donne una reazione contro quest'indulgenza venata di latente disprezzo; nei confronti di se stesse le donne esigono una maggiore disciplina e una modificazione della propria immagine. La cosa più singolare, forse, è che si sente definire ‛liberazione' sia lo sfogo delle pulsioni femminili, compresse da una morale sessuale più rigida nei loro confronti che nei confronti degli uomini, sia il suo contrario: la correzione, con la disciplina e l'esercizio di responsabilità, delle agevolazioni che la società concede alla donna in altri campi.
Si tratta effettivamente d'una liberazione, nel senso in cui l'intendono le ragazze che respingono l'idea di somigliare allo stereotipo femminile, oggi portatore di caratteri svalutati; tuttavia essa consiste, per un verso, nel rilassamento del controllo e della tensione (principalmente nel campo della morale sessuale), e per un altro nell'educazione al dominio di sé e nell'esercizio della tensione (principalmente nel campo dell'attività professionale e dell'esercizio di responsabilità).
Tutti gli studi seri mostrano come la sessualità femminile, in genere più moderata di quella dell'uomo, sia soprattutto meno subordinata all'eccitazione visiva, immaginativa, cerebrale e maggiormente connessa all'aspetto relazionale, affettivo, sentimentale. È ovvio che tali tendenze non escludono variazioni individuali. Una lunga ricerca da noi effettuata su otto secoli di scritti di donne innamorate ci ha permesso di verificare la costanza, attraverso epoche molto diverse, di alcune caratteristiche: la donna innamorata parla molto più volentieri del proprio corpo che del corpo dell'uomo amato. Essa vede nel proprio corpo uno spettacolo e un'offerta, e il suo narcisismo è in certo modo oblativo. Di contro, assai raramente considera l'uomo come uno spettacolo e molto di rado si abbandona al piacere di descriverlo particolareggiatamente, come invece fa con se stessa. L'amore ha su di lei il potere singolare di decuplicare tutte le sue sensazioni - ad esempio la sua sensibilità per la natura - e le dà l'impressione esaltante di una esistenza più intensa, di una pienezza di vita. E quindi l'abbandono, o anche solo la diminuzione del desiderio nell'uomo amato si traduce in un'angoscia di morte assai caratteristica: la donna si sente allora come il fantasma di se stessa, negata perché non desiderata, morta a se stessa più ancora che al mondo. Anche se questa disperazione non dura, l'attacco esistenziale si rivela acuto e di tipo nettamente depressivo. La sessualità della donna, infatti, costituisce non già un elemento della sua personalità né un seguito di atti isolati, ma l'essenza della sua esistenza; o almeno, essa la sente e la vive così, sino all'acquietamento dovuto all'età, sebbene le differenze di personalità da una donna all'altra possano modificare considerevolmente queste disposizioni.
I fondamenti biologici spiegano ancor meglio l'importanza estrema che la maternità riveste nella vita della grandissima maggioranza delle donne: sia essa desiderata e vissuta come un compimento e una creazione che la rendono, se possibile, ancora più donna; sia essa soltanto subita, e sentita allora come la più totale espressione dell'alienazione della donna nei confronti della natura; sia essa, per una ragione o per l'altra, temuta da colei che la rifiuta; sia infine sognata da colei alla quale la fisiologia o il destino la vieta. La maternità fornisce alla donna - ne sia essa cosciente o no - una risposta all'interrogativo che ogni essere umano si pone sulle ragioni della propria esistenza: la donna sente, almeno, di essere fatta per perpetuare la vita. La maternità, infatti, è iscritta così fortemente nella sua natura biologica da apparire come la sua finalità, e, pertanto, è per lo più sentita come la giustificazione della vita, come uno scopo e, ancor più, come un compimento. Le migliori condizioni di vita, d'igiene e il progresso della medicina hanno però fatto diminuire nell'ultimo secolo la mortalità infantile in proporzioni tali, che la maniera di vivere la maternità è assai mutata per le donne. Le gravidanze sono molto meno numerose e, soprattutto, si concludono nella grandissima maggioranza dei casi con la nascita di un bambino destinato a vivere, mentre per millenni la maternità era sembrata solo un tentativo: un bambino su due non raggiungeva l'età di 14 anni, e uno su quattro l'età di un anno. Si comprende come fa donna considerasse con un certo fatalismo, anche se venato d'angoscia, un destino che sembrava sfuggire al suo controllo. Ai nostri giorni, la maternità è diventata per la donna un progetto cui guardare con sicurezza quasi totale, ed essa vi impegna la propria affettività e attività con un'intensità che talvolta può comportare pericoli per la sfera emotiva.
D'altra parte, la conoscenza sempre più precisa dei meccanismi della procreazione ha condotto le nostre società, e in modo particolare le donne in età feconda, a separare sempre più sessualità e maternità. In buona parte del mondo, la donna è diventata padrona della propria fecondità. Non considera più la maternità soltanto come una fatalità, ma come un atto oggetto di scelta cosciente, voluta, ch'essa controlla dall'inizio alla fine. Questa stessa logica porta parecchie donne a ritenere di avere il diritto di rifiutare al pari del diritto di scegliere, donde le campagne per la liberalizzazione delle leggi che in certi paesi vietano l'aborto. È evidente che questi nuovi atteggiamenti comportano in certe società un tale sconvolgimento dell'etica e della morale femminili, che non possono non suscitare vivaci reazioni. Comunque vadano le cose è certo che la donna ha una parte sempre più importante nella decisione di diventare madre; e, d'altra parte, svolge un ruolo sempre maggiore nell'educazione della prole. Da gestante che accettava il suo destino, consistente nel recare in seno e nutrire dei bambini la cui educazione era assicurata con un ruolo preponderante del padre dalla comunità in cui viveva, la donna ha acquistato il potere di scegliere di fare figli se e quando vuole; e, a poco a poco, gran parte della loro educazione è divenuta di sua competenza.
3. Condizione sociale della donna
La psicologia femminile varia considerevolmente con l'evoluzione delle società. Nella maggior parte delle società antiche, l'ineguaglianza di condizioni tra uomo e donna era la regola, sebbene numerose leggende evochino l'esistenza di società matriarcali, oggi scomparse. Sembra che si sia trattato piuttosto di società ‛matrilineari', nelle quali il nome e i beni si trasmettevano per via femminile (il bambino apparteneva al clan della madre), anziché di società nelle quali il potere era detenuto dalle donne. In queste società, una gran parte del potere apparteneva, in realtà, al fratello maggiore della madre o all'assemblea degli uomini.
Ma a mano a mano che gli uomini hanno compreso meglio il proprio ruolo nella procreazione, hanno cercato, certi com'erano di possedere la superiorità in fatto di forza fisica, di assicurarsi degli eredi maschi: la donna è stata relegata sempre più al ruolo di strumento necessario per assicurare la discendenza e, confinata in casa, è stata considerata più o meno come proprietà del marito. Si è avuta allora la società patriarcale, in cui soltanto la fedeltà della donna può garantire all'uomo la legittimità dei figli e quindi la trasmissione del patrimonio (parola che deriva da pater). Il risultato è che la libertà di movimento e di costumi della donna diventa limitatissima, le pene contro l'adulterio femminile pesantissime, e la sua istruzione mediocre, come anche il suo ruolo nella vita della tribù o della città. Le donne rimangono confinate nel gineceo, nell'harem, nel terem o tra le pareti domestiche. Nelle società patriarcali tipiche soltanto le cortigiane - le quali, non soggette al dovere della maternità per assicurare la discendenza, erano al servizio del piacere maschile - potevano godere di una maggiore libertà di movimento e avere una vita sentimentale, artistica o intellettuale più ricca (alcune di esse sono annoverate, ad esempio, tra i grandi scrittori cinesi, giapponesi o vietnamiti).
Le società patriarcali presentano delle varianti: nella società greco-romana, ad esempio, la donna è considerata soprattutto come inferiore e incapace (imbecillitas sexus), mentre nella società ebraica era vista piuttosto come impura e contaminante. Sia l'uno che l'altro argomento avevano lo scopo di tenerla lontana dal potere, civile presso i Romani e religioso presso gli Ebrei: non potendo né possedere né ereditare, la donna era esclusa dalla circolazione dei beni, non poteva ricoprire cariche nella città e le era interdetto il sacerdozio. Perciò la sua attività (le donne infatti filavano, cucivano e confezionavano alimenti, ecc.) era di vantaggio all'uomo senza che potesse mai fargli concorrenza, poiché la donna non poteva arricchirsi per proprio conto. Nelle società cosiddette ‛barbare' (germaniche, scandinave, celtiche, galliche, ecc.) le donne erano più strettamente associate alla vita della tribù, alla funzione sacerdotale, alle decisioni di pace e di guerra, e persino al sapere esoterico: ciò dipende dal fatto che la vita e la proprietà erano maggiormente comunitarie.
Il cristianesimo ha riconosciuto l'eguaglianza dell'uomo e della donna dinanzi a Dio. Ma le conseguenze sociali di questa rivoluzione ideologica sono rimaste limitate poiché il regime della proprietà non muta, e la donna non acquista alcuna indipendenza economica né alcun diritto pubblico. Non è ammessa al sacerdozio, e l'idea dell'impurità originale riappare, subito dopo la morte di Cristo, così come era stata formulata nella religione ebraica. La ritroveremo in seguito nella religione musulmana: ad esempio nel divieto di avere contatto con la donna la vigilia di cerimonie religiose. Del resto il Corano, come l'Antico Testamento del popolo d'Israele e anche l'apostolo Paolo, stabilisce formalmente la superiorità dell'uomo, cui la donna deve obbedienza.
In compenso il Corano riconosce alla donna diritti economici (diritto di ereditare, di amministrare i propri beni in completa indipendenza, diritto al dovario o alla dote in caso di ripudio), che non le erano stati riconosciuti né dai Greci né dai Romani né dagli Ebrei né dai Cristiani.
Il Medioevo nascerà dal violento mescolarsi dei costumi dei ‛barbari' con le tradizioni giudaico-cristiane e greco-latine. La sopravvivenza di antichi diritti consuetudinari ‛barbari' consente alle donne di possedere, e persino, se nobili, di possedere feudi, di amministrare la giustizia e in certi casi di riscuotere imposte. Negli ordini religiosi, le monache arrivano talvolta a darsi un'istruzione, e sappiamo di dotte badesse, alcune delle quali hanno persino diretto ordini maschili. Il Medioevo ha conosciuto anche donne medici, o professori di diritto; a certe condizioni, le donne potevano formare corporazioni femminili o integrarsi in corporazioni miste. Il rinnovamento culturale del sec. XII ha inoltre assegnato alla donna, nell'amore cortese, un ruolo capitale: essa non è più la preda bramata o la ricompensa ma è anche in qualche modo giudice del cavaliere, che deve meritarla con una lunga corte. Gli scritti femminili dell'epoca, sebbene rari e limitati solo a una ristretta cerchia di nobili dame, sorprendono per la vivacità e libertà del linguaggio. Già dal sec. XII, e soprattutto dal sec. XIV, torna in auge il diritto romano, e la situazione della donna peggiora nuovamente. Ad esempio, i salari dei lavoratori agricoli a giornata, quasi eguali per gli uomini e per le donne, rivelano una crescente differenziazione a danno di quest'ultime, che nel sec. XVI ricevono appena la metà, o anche meno, di quanto ricevono gli uomini. Certi mestieri, come la tessitura della seta e la lavorazione dell'oro vengono preclusi alle donne, ed esse non possono più diventare maestre di corporazione se non sposando un maestro. Nello stesso periodo la situazione della donna si deteriora in Oriente, dove il Corano viene interpretato dai ricchi borghesi delle città in modo sempre più severo verso il sesso femminile. Costoro tengono le loro donne prigioniere e impongono loro il velo; una rigida clausura si diffonde così rapidamente in tutto l'Oriente; soltanto le contadine più povere vi sfuggono. I costumi musulmani e bizantini raggiungono a poco a poco il mondo slavo: la donna russa è rinchiusa a sua volta nel terem o nel verkh, e considerata come l'oggetto e la serva dell'uomo. Bisognerà attendere Pietro il Grande, reduce dall'Occidente, perché si strappi il velo alla donna russa. Nel mondo musulmano, sia mediterraneo che orientale, il velo sopravviverà sino ai nostri giorni.
In Occidente, l'emergere di una borghesia mercantile e poi gli esordi del capitalismo (Firenze, Venezia) non faranno che approfondire il solco che separa la condizione dell'uomo, che scopre il mondo e cerca di padroneggiare le tecniche, da quella della donna, che rimane confinata nella vita domestica, sotto la tutela del padre o del marito. L'amore cortese è ormai ridotto a una casistica logora; la donna è sempre più cantata e blandita dai poeti, ma viene tenuta lontana dai progressi dell'istruzione. Non trarrà che esigui vantaggi dalle rivoluzioni del sec. XVIII e in particolare dalla Rivoluzione francese, vittoria della borghesia e trionfo delle idee di Rousseau: la donna si troverà fornita di nuovi diritti privati (potrà ereditare, divorziare, testimoniare, ecc.), ma perderà i diritti pubblici che alcune donne appartenenti alla nobiltà ancora detenevano. Se l'istruzione pubblica si estende, nei paesi occidentali non è affatto concessa alle ragazze nella stessa misura che ai ragazzi. Il Codice napoleonico, che tentava di dare un'intelaiatura giuridica a questo mondo nuovo, consacrerà l'inferiorità e l'incapacità della donna. Nello stesso tempo la rivoluzione industriale, cominciata in Inghilterra, modificherà profondamente la vita delle donne. Le loro attività artigianali (le donne filavano, tessevano, tingevano, cucivano, preparavano le salature, il burro, i formaggi, la birra, le candele, i saponi) si svolgevano in casa. Lentamente l'industrializzazione strapperà loro queste attività; esse dovranno lasciare il focolare per cercare lavoro nei laboratori e nelle manifatture, dove il loro salario sarà metà di quello maschile.
La miseria delle operaie sistematicamente sfruttate e il suo corollario inevitabile, la prostituzione, attireranno a poco a poco l'attenzione dei riformatori sociali, degli utopisti, dei rivoluzionari e degli spiriti religiosi preoccupati dell'ingiustizia sociale. Le donne prenderanno esse stesse coscienza del loro stato di soggezione, specialmente in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, e il sec. XIX vedrà consolidarsi ovunque un'ideologia femminista, che passerà all'azione con modalità e fortune diverse. Questi movimenti saranno potentemente aiutati dal lento, ma costante elevarsi del livello d'istruzione delle donne. Il fatto è che nello stesso tempo gli uomini, che si svincolavano dai modi di vita tradizionali per costruire il mondo industriale, abbandonavano sempre più alle donne l'educazione dei figli, anche di quelli ormai ragazzi, che sin allora esse avevano accudito solamente fino ai quattro o cinque anni. Non solo vediamo accrescersi l'importanza delle madri, che si vogliono giustamente più istruite perché possano educare convenientemente i figli, ma anche nascere nuovi mestieri femminili, fino ad allora ignoti: quello di governante, di istitutrice e, più tardi, di insegnante.
Nell'arco di un secolo gran parte dell'educazione dei bambini passa nelle mani delle donne e il loro livello culturale s'innalza all'altezza del nuovo ruolo, del quale s'impadroniscono con ardore. La prima guerra mondiale accelererà l'evoluzione delle donne che, in assenza degli uomini, danno prova delle loro capacità; la Rivoluzione sovietica vedrà l'attuazione sistematica di un piano, voluto da Lenin, di parificazione dei diritti degli uomini e delle donne e di integrazione sociale di quest'ultime attraverso il lavoro e l'istruzione. La seconda guerra mondiale intensificherà gli effetti di questo movimento, che si estenderà a parecchi paesi ex-coloniali che conquistano l'indipendenza in seguito al conflitto. La situazione delle donne viene completamente sconvolta in Giappone, dopo la sconfitta, e soprattutto in Cina in seguito alla vittoria comunista, che emancipa completamente la donna cinese, tanto a lungo considerata come la serva dell'uomo.
Nei paesi occidentali, e specialmente negli Stati Uniti, la vita della donna sarà profondamente influenzata dalla rapida urbanizzazione e dallo sviluppo della produzione dei beni di consumo. La donna diventa un'acquirente e un'utente di macchine e di gadgets, e il valore economico dell'attività da essa svolta in casa diminuisce rapidamente. Continua a recuperare il suo ritardo in fatto di istruzione, e nella società postindustriale, che concede ampio spazio al settore terziario (lavori di ufficio, servizi, libere professioni), trova maggiori possibilità d'inserimento nella vita professionale. Tenuta spesso lontana o ai margini del potere politico e finanziario, la donna moderna si afferma in numerosi altri campi: non solo, come abbiamo già visto, esercita un controllo sempre maggiore sulla propria fecondità, ma consolida il proprio potere nell'educazione dei bambini, che diventa sempre più suo appannaggio sia nella famiglia che nella scuola. Parecchi paesi, infatti, annoverano tra gli insegnanti delle scuole primarie e secondarie molte più donne che uomini. Diventa inoltre, quasi ovunque, la responsabile del bilancio familiare, l'amministratrice delle spese e, per questa via indiretta, il bersaglio o, se si preferisce, la regina corteggiata dalla pubblicità. Le questioni femminili: la fecondità, l'educazione dei bambini, il consumo, ecc., sono diventate grandi problemi socio-politici. La sovrappopolazione, la fame - i grandi mali della terra nella nostra epoca - non possono essere combattuti se non attraverso l'educazione delle donne. È in qualche modo la rivincita delle donne, tanto spesso ancor oggi tenute lontano dalla vita politica.
4. Posto della donna nell'istruzione e nel mondo del lavoro
Ovunque nel mondo le donne accusano ancora un ritardo nell'istruzione. Si contano sulla terra circa un miliardo di analfabeti, dei quali 700 milioni sono donne. Anche nei paesi evoluti le sacche di analfabetismo, benché in rapida diminuzione, riguardano soprattutto le donne. In Italia, ad esempio, nel 1911 vi era il 32% di analfabeti fra gli uomini e il 42% fra le donne; nel 1961 queste proporzioni si erano ridotte al 6% fra gli uomini e al 10% fra le donne.
Nei paesi in cui tutte le donne sanno leggere e scrivere, e frequentano di norma la scuola elementare (non è questo il caso dei paesi in via di sviluppo, nei quali le ragazze, essendo molto più spesso dei ragazzi tenute a casa ad aiutare, frequentano la scuola in numero sempre largamente inferiore ai ragazzi), è al livello della scuola secondaria che si individua una differenza di trattamento: i ragazzi sono mandati alla scuola secondaria più spesso delle ragazze (in Italia, al censimento del 1961, 1.881.762 donne possedevano la licenza di scuola media inferiore, contro 2.493.261 uomini). Nei paesi in cui la frequenza della scuola secondaria è la stessa per i ragazzi e per le ragazze, e il numero di diplomati è uguale per tutti e due i sessi (è ad esempio il caso della Francia) la differenza, o piuttosto il ritardo delle donne in fatto d'istruzione, si ritrova al livello dell'insegnamento superiore. Ed è ben chiaro che questi divari non trovano spiegazione in un'inferiorità intellettuale delle ragazze le quali, al contrario, sono spesso le prime nelle classi miste, ma in una differenza di trattamento: i genitori, gli educatori, i governi favoriscono, in genere, in primo luogo l'istruzione dei ragazzi, spesso a scapito delle ragazze. Al livello universitario, le disparità aumentano: le possibilità per una ragazza di fare studi universitari differiscono molto da un paese all'altro, non soltanto perché ci sono paesi in cui l'accesso all'università è più o meno aperto o addirittura selettivo, ma anche perché le ragazze sono, à seconda dei paesi, più o meno incoraggiate od ostacolate nel proseguimento degli studi. Così, se in Finlandia ci sono 49 ragazze su 100 studenti universitari, nell'URSS e in Francia 47, negli Stati Uniti 45, in Gran Bretagna 38, in Italia 37, in Germania, Austria, Paesi Bassi, Norvegia non ce ne sono che 25 (cioè una ragazza su quattro studenti) e meno ancora in Svizzera o in Turchia.
Le ragazze, del resto, sono concentrate in alcune facoltà (ad es., pedagogia, lettere, farmacia) e quasi assenti in altre (scienze fisiche e soprattutto tecnologia). Queste osservazioni, con differenze di grado, valgono per tutti i paesi, compresa l'URSS, in cui si sono fatti e tuttora si fanno i massimi sforzi per rendere più diversificati gli studi femminili. Pare che la cosa sia dovuta in parte a gusti peculiari delle ragazze per queste discipline, e in parte a vari fattori socio-culturali, che sarebbe troppo lungo enumerare qui.
I progressi sono tuttavia rapidi, ma soltanto nell'istruzione generale; nell'istruzione professionale e tecnica le ragazze sono ovunque nettamente svantaggiate, con l'eccezione dei paesi dell'Est. I genitori spesso ritengono che, data la vocazione della ragazza al matrimonio, è cosa secondaria o inutile spingerla ad acquisire una formazione e una qualificazione professionale. D'altra parte, le ragazze stesse manifestano gusti relativamente limitati nella scelta d'una formazione suscettibile di sfociare in un mestiere: in tutti i paesi, qualunque sia il condizionamento socio-culturale al quale possano essere state sottoposte, le ragazze manifestano soprattutto il desiderio di lavorare con persone anziché con oggetti o, se la cosa non è possibile, con oggetti finiti anziché, ad esempio, con materie prime. Il desiderio di contatti umani è vivissimo. Da queste disposizioni e dalla scarsa sollecitudine che parecchie società mostrano nell'affrontare il problema, deriva che le ragazze scelgono tra un centinaio di mestieri, mentre i ragazzi scelgono tra circa un mezzo migliaio di mestieri diversi.
Le donne sono quindi concentrate in un numero relativamente ristretto di funzioni, spesso considerate come ‛mestieri femminili', sebbene l'evoluzione storica dimostri che non è possibile trovare una definizione seria di ‛mestiere femminile': si osserva piuttosto che i mestieri redditizi o di prestigio sono tendenzialmente ritenuti come maschili, mentre quelli cui è attribuito un valore inferiore sono considerati di solito come femminili.
Le donne occupano un posto molto variabile nel mondo del lavoro dei paesi che hanno statistiche al riguardo. Si sente spesso dire oggi: ‟adesso che la donna lavora..." come se si opponesse la sua attività attuale a un vicino passato nel quale essa rimaneva in casa. È opportuno anzi- tutto osservare che i suoi compiti domestici erano sino a poco tempo fa molto più numerosi e pesanti di oggi; e in secondo luogo che, in parecchi paesi, il numero totale di donne attive non è aumentato, ma è rimasto stabile o è diminuito dopo l'inizio del secolo, come del resto si è verificato per la percentuale delle donne in età lavorativa che esercitano un'attività professionale. In Italia, ad esempio, lavorava nel 1911 il 29,7% delle donne, e soltanto il 25,3% cinquant'anni dopo.
L'impressione di grande mutamento e di maggiore attività femminile deriva soprattutto dalle importanti modificazioni sopravvenute nella composizione degli effettivi delle donne attive. Le donne erano numerosissime nell'agricoltura, settore nel quale i loro effettivi sono considerevolmente diminuiti; le variazioni nell'industria sono scarse, mentre aumenti importanti delle donne attive si sono verificati nei servizi e negli uffici. Ora, sono queste ultime che, comunemente, si vedono più di quelle che lavorano nei campi o nelle fabbriche; spesso inoltre esse sono istruite e di origine borghese, il che era raro cinquant'anni fa. L'agricoltura impiega ancora una maggioranza di donne nei paesi dell'Europa orientale e centrale (siano o no tali paesi democrazie popolari), mentre nei paesi mediterranei, e soprattutto nei paesi scandinavi e anglosassoni, le donne lavorano poco nell'agricoltura. Tradizionalmente, l'industria occupa molte donne soprattutto in Gran Bretagna, nella Germania Federale, nell'URSS e ora in Giappone.
Le donne si trovano concentrate in certi rami dell'industria manifatturiera, come l'abbigliamento, l'industria tessile, l'industria cartaria, l'industria delle pelli, del tabacco, l'industria alimentare, l'elettronica. In questi settori le donne esplicano mansioni esecutive con bassi salari, in genere senza qualifica, data la mancanza d'una buona formazione professionale. In tutti gli altri paesi progrediti il maggior numero di donne si trova nei servizi e negli uffici. Certi mestieri sono diventati interamente femminili (dattilografe, segretarie, telefoniste, servizi domestici), mentre i lavori nell'ambito del commercio (commesse) e l'insegnamento si ‛femminilizzano' sempre più.
Le donne conquistano lentamente un posto nelle libere professioni (avvocatura, medicina, odontoiatria, farmacia); rimangono però, con l'eccezione dell'Unione Sovietica, rarissime nella tecnologia (ingegneria e architettura), come anche nei posti di grande responsabilità del settore privato. Riescono meglio, in certi paesi, nell'amministrazione pubblica.
Nonostante la generalizzazione dei congedi per maternità, quest'ultima turba spesso lo svolgimento della vita professionale delle donne; e, nei paesi occidentali, vediamo profilarsi nettamente una curva particolare dell'attività delle donne a seconda dell'età: è verso l'età di 21 anni che troviamo al lavoro il maggior numero di donne; in seguito, col sopravvenire della maternità, la proporzione diminuisce, per innalzarsi nuovamente dopo i 35 e i 40 anni, quando i figli sono cresciuti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia).
Il numero di donne sposate e madri che lavorano aumenta in modo assai netto nella maggior parte di questi paesi, e si osserva che le donne più istruite e più qualificate tendono a lavorare anche durante gli anni di maternità; l'innalzamento del livello di istruzione delle ragazze si tradurrà quindi in un lento aumento del numero di donne attive. In certi paesi (Italia, Paesi Bassi, Svizzera), tuttavia, non si osserva la stessa tendenza, sia a causa di difficoltà economiche, che limitano il lavoro femminile per timore della disoccupazione maschile, sia per il peso di pregiudizi, ancora abbastanza forti, contro il lavoro della donna sposata e soprattutto madre.
Nei paesi capitalistici la situazione delle donne nel mercato del lavoro rimane fragile, come è rilevabile anche dai loro salari, in genere nettamente meno elevati di quelli maschili, nonostante i provvedimenti presi a livello nazionale ed europeo per assicurare la parità salariale tra uomini e donne, e le raccomandazioni in tal senso del Bureau International du Travail.
Possiamo quindi constatare senza difficoltà che le donne hanno considerevolmente migliorato la loro situazione in campi diversissimi: sono diventate sempre più padrone del loro destino in materia di fecondità, hanno la prevalenza nell'educazione dei figli, svolgono un ruolo decisivo nella determinazione dei consumi e nell'amministrazione del bilancio familiare, sono sempre più istruite, riducendo a poco a poco il loro ritardo, e sono giuridicamente sempre più eguali agli uomini; non è meno vero, tuttavia, che il loro inserimento economico nel mondo industriale e postindustriale rimane debole (specialmente nei paesi capitalistici), rendendole ancora in larga misura dipendenti dai loro compagni, soprattutto nell'età in cui debbono badare ai figli. Questa vulnerabilità, unita alla maggiore responsabilità, spiega il disagio del mondo femminile, che sperimenta nuovamente, come alla fine del sec. XIX, una fase acuta di rivendicazioni femministe.
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