di Valeria Palumbo
In pochi anni, in America Latina, nove donne sono salite ai vertici dello stato, ossia ci sono state nove presidentas: alcune con più mandati, come Cristina Fernández de Kirchner (2007-15) in Argentina e Michelle Bachelet, al potere in Cile dal 2006 al 2010 e poi rieletta a fine 2013. La Bachelet partecipa a un altro record latino: la sfida tra donne. È arrivata al ballottaggio con Evelyn Matthei, candidata del centro destra che, alla prima tornata elettorale, a metà novembre 2013, è riuscita a raccogliere il 25% delle preferenze. Il duello al femminile non si ripeterà per un soffio in Brasile: l’ex ministra dell’ambiente Marina Silva, che già conquistò quasi 20 milioni di voti nel primo turno delle presidenziali del 2010, non intende riaffrontare la leader in carica, Dilma Rousseff, nel 2014. Ma il suo sostegno al candidato socialista, Eduardo Campos, pone un’opzione sulla vicepresidenza.
Nel 2012 anche il Messico ha avuto la prima candidata, in corsa per il PAN, il Partido acción nacional: l’economista Josefina Eugenia Vázquez Mota. Non a caso la Mota ha affermato: «Il Messico è pronto per una donna presidenta, come lo è stato il Cile, come lo sono stati Costa Rica, Brasile e Argentina, tra gli altri». Ovvero ha rivendicato una tradizione di potere femminile. Ed è questa ‘tradizione’, che non coincide necessariamente con un ranking elevato nell’indice di parità di genere, a caratterizzare oggi l’America Latina in termini di women leadership. Le radici affondano in una nomina ‘anomala’, sia per le prassi democratiche sia per quelle dei regimi autoritari: quella di María Estela Martínez de Perón, Isabelita, al potere in Argentina tra il 1974 e il 1976, prima del golpe militare. È stata seguita da un’altra presidenza precaria, quella di Lidia Gueiler Tejada in Bolivia (1979-80). Il cambio di passo è avvenuto con Violeta Barrios de Chamorro, eletta in Nicaragua nel 1990 alla testa della Unión nacional opositora e vincitrice del duello contro Daniel Ortega, come lei leader del Frente sandinista de liberación nacional. Per inciso Ortega, rieletto ancora presidente nel 2007, è oggi accusato di delegare il potere alla moglie, Rosario Murillo, ex combattente sandinista e portavoce del governo.
Dopo Chamorro, è stata la volta di Rosalía Arteaga Serrano, alla guida dell’Ecuador dal 1996 al 1997; quindi di Janet Rosenberg Jagan, presidente della Guyana dal 1997 al 1999, ossia dalla morte del marito, Cheddi Jagan, che ricopriva la stessa carica. Nel 1999 Mireya Elisa Moscoso Rodríguez è stata eletta a Panamá. Poi sono arrivate Michelle Bachelet, Cristina Fernández de Kirchner, Laura Chinchilla Miranda (Costa Rica).
Come in alcuni paesi asiatici (India, Sri Lanka e Bangladesh in primis), l’ascesa delle donne ai vertici dello stato e del governo, in paesi di forte tradizione maschilista, appare come un segno di democrazia immatura: sono spesso mogli o figlie di ex presidenti o, come nel caso di Michelle Bachelet e Evelyn Matthei, figlie di personaggi di primo piano di passati governi.
Eppure anche nei casi più evidenti di ‘continuità familiare’ (non lo è quello di Violeta Chamorro, leader della lotta anti-Somoza, benché il marito fosse stato assassinato dal dittatore), la spiegazione familista non basta.
Proprio l’Argentina, con il doppio caso di Isabelita Perón e Cristina Fernández de Kirchner, moglie ed erede politica di Néstor Carlos Kirchner Ostoic´, offre un quadro più complesso, sia pure all’interno di un fenomeno peculiare come il peronismo. Isabelita e Cristina, si può dire, sono eredi, più che dei loro mariti, di Evita Perón, seconda moglie di Juan Domingo Perón e protagonista, tra il 1946 e il 1952, di un singolarissimo culto della personalità, ben più articolato di quello che investì lo stesso Perón. Eva Perón, che si candidò alla vicepresidenza contro il volere dei militari, fu anche espressione di una leadership carismatica e di un’autonoma visione politica.
Nessuna leader latinoamericana ha raggiunto la sua notorietà. E di sicuro il suo mix di femminismo e autoritarismo, di demagogia e abilità nella gestione della propria immagine, ha lasciato un segno sugli stili di comando del continente latinoamericano.
Di nuovo, però: la stessa Evita aveva modelli. La partecipazione di alcune donne alla lotta per l’indipendenza dalla Spagna aveva assunto caratteri di leadership, pur in un continente che ha riconosciuto tardi il diritto femminile al voto. Per citare un esempio: il termine ‘presidenta’ fu usato già per Francisca Zubiaga y Bernales (1803-1835), combattente e poi potente moglie del presidente peruviano Agustín Gamarra.
Benché oggi i paesi del Centro e del Sud America abbiano percentuali non trascurabili di partecipazione politica femminile (nel 2012 le donne costituivano il 38,6% dei parlamentari in Costa Rica), di sicuro il numero di candidate alla presidenza non è proporzionale. Né rispecchia la reale condizione femminile nel continente. Però, proprio per questo, il fenomeno merita un’analisi all’interno del variegato dispiegarsi della leadership femminile nei luoghi del potere. È anche vero che, almeno in due casi, quello di Michelle Bachelet e di Dilma Rousseff, le presidentas hanno avviato una concreta politica di women empowerment.