donne e potere
dònne e potére. – Il profilo delle donne agli inizi del Duemila appare meno riconoscibile di quello maschile sopratutto perché il tempo in cui la trasformazione ha impiegato a manifestarsi, compresso e accelerato negli ultimi venti (forse anche quaranta) anni, contrasta con le scansioni lente dei secoli scorsi, inclusa la prima parte del Novecento, quando già il protagonismo e la mobilità del sesso femminile avevano visibilmente inciso nelle dinamiche sociali. Gli aspetti più evidenti del cambiamento, acculturazione, lavoro retribuito, accesso ai diritti, procreazione contenuta e controllata, sono ancora in fieri e non riguardano tutte le donne nel medesimo modo: nelle varie realtà territoriali si riscontrano in dosaggi molto diversi, oppure mancano in larga misura, o si manifestano per il momento in una forma embrionale; né avvengono in maniera lineare e priva di ostacoli, ma presentano contraddizioni e limiti che inducono a una più attenta riflessione sulle caratteristiche e sulle forme della partecipazione femminile al potere. Economia e politica risultano terreni particolarmente impervi alla presenza femminile. Tra il 1995 e il 2004, le percentuali delle donne nei parlamenti nazionali si muovono di pochi punti: l’incremento è complessivamente più deciso nell’America Centrale e Meridionale; più disomogeneo in un’Africa segnata da drammatici conflitti etnici, politici e religiosi, mentre il Medio Oriente e l’Asia mostrano i contrasti più forti, esibendo assenze totali nei paesi di più stretta osservanza musulmana ma anche il balzo in avanti in Pakistan (dal 2 al 22%) e in Laos (dal 9 al 23%). Anche negli Stati Uniti e in Europa la situazione rimane mobile. Questa persistente posizione di minoranza, anche nei paesi più avanzati, non ha impedito a singole donne di raggiungere cariche di alta responsabilità, in veste di capi di governo e primi ministri, ma l'ipotesi che tali conquiste garantissero, come prevedibile conseguenza, un'ampia partecipazione femminile a parlamenti e a governi si è rivelata fallace. Molte analisi concordano nell'indicare che uno degli ostacoli che intralciano il cammino del genere femminile più che la penuria di competenze e di credenziali educative sia la mancanza di esperienze pregresse – insomma della formazione incrementale di un curriculum nel campo strettamente politico o pubblico. In effetti uno degli elementi più importanti che emerge dall’osservazione ravvicinata di molte esperienze è quello della stagionalità. L’impegno delle donne è spesso temporaneo, dura un mandato o poco più, non si consolida in una professione. Le interpretazioni di un atteggiamento così diffuso attingono alle categorie della politica: le donne manifesterebbero una sorta di ‘appartenenza debole’ alle istituzioni rappresentative e amministrative, soprattutto se confrontata ad altri momenti forti della percezione di sé, come l’impegno sociale e familiare, la partecipazione alle guerre e alle lotte di liberazione. Ma richiamano anche i temi legati al ciclo di vita femminile; la maggior parte delle donne sarebbero disponibili a un incarico politico di rilievo soltanto finché non hanno figli, oppure quando i figli sono già grandi. Il quadro e le tendenze non mutano di molto se dalla politica si guarda al mondo del lavoro. Da un punto di vista generale, la situazione non si è modificata significativamente nei primi anni del 21° sec.: secondo i dati dell’International labour office, le donne continuano ad avere i tassi più bassi di partecipazione al mercato del lavoro, i più alti di disoccupazione e remunerazioni inferiori rispetto agli uomini, nonostante i loro più alti livelli di istruzione. Soprattutto, le donne tendono sempre a occupare posizioni professionali non strategiche. La distribuzione è prevedibile: tra il 2000 e il 2002 la percentuale di donne con incarichi manageriali è superiore nel Nord America (gli Stati Uniti sono al primo posto con il 45,9%), in America Meridionale e nell’Europa dell’Est (dove il lavoro femminile è stato sostenuto da politiche di lungo periodo di supporto delle lavoratrici madri, e dove peraltro le percentuali cominciano a diminuire), ma scende vertiginosamente in Asia e nel Medio Oriente. La situazione non migliora neanche in Europa occidentale, dove la percentuale si attesta a circa un terzo, a un quarto in Italia (21%). Per le donne trovare un equilibrio tra progetti familiari e carriera è complicato, sopratutto in mancanza di forti strutture di welfare a sostegno della maternità, e spesso sono costrette a individuare delle priorità tra lavoro e famiglia, oppure a stabilire un rapporto intermittente con l’azienda, ritmato dalle necessità della maternità e dalle responsabilità familiari. Tutto questo naturalmente va a scapito tanto della rapidità della carriera quanto dei livelli retributivi; ma è qui che entra in gioco l’ambivalenza femminile. Le responsabilità di cura – declinate questa volta come esigenze sia di flessibilità sia di autonomia – appaiono motivazioni importanti nello spingere le donne ad avviare una propria impresa. Il fenomeno del self-employment ha assunto in pochi anni un’importanza crescente e il suo incremento non va soltanto ricercato nella diminuzione dei posti di lavoro disponibili nel settore pubblico e in quello privato quanto nell'interesse delle donne a elaborare personalmente strategie economiche, che offrano loro la possibilità di realizzare pienamente le proprie potenzialità e di bilanciare meglio lavoro e responsabilità familiari. Non sempre però si tratta di una scelta. In economie meno avanzate e in società ancora più rigidamente segnate dalla differenza di genere, le opportunità offerte alle donne non lasciano alternative. In molti paesi in via di sviluppo, come l’Africa subsahariana, l’Asia e l’America Latina, le microimprese e il lavoro autonomo sono un importante fonte di reddito per le donne. Un generale modello di riferimento è diventato la Self-employed women’s association (SEWA), un’organizzazione fondata in India nel 1972 e impegnata, mediante la sua banca a concedere microcredito alle donne povere da investire in attività produttive, all’acquisto cioè di mezzi di produzione che consentano alle donne di affrancarsi dal potere vessatorio di mediatori e usurai. Dalle esperienze acquisite nel microcredito sono nate altre iniziative di importanza enorme: una sorta di sistema assicurativo per garantire alle donne in gravidanza e alle vedove in lutto mezzi di sostentamento che nessun familiare si cura di garantire, sistema poi fatto proprio dal governo e varato come piano nazionale di assistenza alle puerpere; centri per la vendita di medicine a prezzi calmierati, cooperative di produttrici; programmi di alfabetizzazione femminile. Il rafforzamento del potere d’azione delle donne nell’economia, nella politica e in tutti gli ambiti della vita pubblica costituisce un obiettivo prioritario delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, che verificano, attraverso le loro agenzie, la scarsa rappresentanza femminile in posizioni di vertice negli organismi amministrativi, legislativi, finanziari, giudiziari e così via. Le statistiche elaborate annualmente dal World economic forum nel Global gender gap report misurano il divario tra uomini e donne in base a quattro aree principali: partecipazione e opportunità economiche; livello di istruzione; potere politico; salute e sopravvivenza. Per il nostro Paese le statistiche evidenziano dati negativi persistenti, con una tendenza al peggioramento: al 67° posto nel 2008, l’Italia è scivolata al 72° nel 2009 e al 74° nel 2011 (su 135 paesi), preceduta in classifica dalla Romania, dal Bangladesh, dal Ghana e dalla Slovacchia e posizionandosi tra i paesi europei con il profilo più basso.