Donne e potere
Annidato in ogni forma di relazione tra le persone, chiave di lettura di molti aspetti degli scambi sociali, per essere analizzato e discusso il potere ha bisogno di aggettivazioni, di specificazioni che circoscrivano e contestualizzino i campi della sua espressione. L’esigenza di delimitare gli ambiti di riflessione si fa poi ancora più pressante quando a essere posto in causa è il nodo apparentemente inestricabile che unisce – o meglio forse divide – il potere e le donne: un nesso multiforme e contraddittorio, che richiede elaborazioni teoriche originali, categorie innovative, aperture a universi lontani nel tempo e nello spazio.
Se la storiografia femminista ha in origine posto l’accento sulla denuncia – fortemente segnata da intenti ideologici – dell’esclusione delle donne da tutte le sfere di autorità e di comando dipingendole come vittime perenni della sopraffazione maschile, ricerche più recenti hanno messo in luce i circuiti in cui, in epoche e contesti i più distanti fra loro, le donne hanno esercitato poteri e capacità di influenza determinanti: dalla gestione di mestieri e commerci nei sistemi urbani d’età moderna, alla mobilitazione degli apparati giudiziari e assistenziali in grado di garantire gli equilibri familiari, all’abile tessitura di opinioni e destini nelle corti e nei salotti degli ultimi secoli. La storia delle donne ha mostrato come i poteri femminili andassero declinati al plurale e come soprattutto attirassero a sé un aggettivo diventato ben presto parte integrante dell’interpretazione: fino a tutta l’età moderna i poteri femminili erano informali, conquistati ed esercitati nell’esperienza, esclusi dalle codificazioni e dalle leggi. Sarà soltanto a partire dal Novecento – chiamato non a caso il secolo dei diritti – che le donne vedranno riconosciute nella formalizzazione giuridica capacità fino ad allora esplicate esclusivamente nelle pratiche sociali.
Oltre alla storia, altre discipline negli ultimi decenni hanno osservato e pensato la relazione tra donne e potere: la sociologia, l’antropologia e la filosofia politica – o meglio le studiose e gli studiosi che in questi campi disciplinari si sono resi più sensibili agli stimoli offerti dalla categoria del gender – hanno portato alla ribalta scenari e prospettive che hanno contribuito a rendere più definite immagini ancora a troppo bassa risoluzione. Hanno utilizzato in questa impresa le categorie di micro e di locale, decisive non solo per meglio comprendere la contraddittorietà dei processi in atto, ma anche per tracciare previsioni e progetti non impastoiati dall’ideologia.
Uno sguardo d’insieme, che voglia prendere in considerazione prima di tutto i grandi apparati statuali ed economici, rischia infatti di mettere in evidenza soltanto delle realtà sconfortanti. Negli ultimi decenni le più prestigiose istituzioni internazionali – dall’ONU all’Unione interparlamentare all’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) – hanno dedicato una parte importante e produttiva delle proprie risorse a rilevare dati capaci di descrivere la differenza di genere in molte delle sue sfaccettature, dalla salute all’istruzione, al lavoro, alla partecipazione politica. Se alcune cifre della demografia sono allarmanti – a partire dai milioni di ‘donne mancanti’, abortite o lasciate morire bambine in Asia per risparmiare alla famiglia l’onere di una dote pesantissima e obbligatoria (Sen 1996) – i numeri che cercano di rappresentare le realtà delle professioni e delle istituzioni appaiono francamente deprimenti. Non tanto per la loro esiguità, conosciuta e prevista se si pensa all’arco cronologico – meno di un secolo – che separa l’oggi dall’acquisizione dei diritti fondamentali: il suffragio attivo e passivo, l’abolizione dell’autorizzazione maritale che impediva alle donne di disporre dei propri beni e di esercitare in autonomia qualsiasi attività economica. Quanto piuttosto per il ritmo lentissimo e sincopato della loro crescita: un ritmo che rende evidente come l’eliminazione dei vincoli giuridici non abbia affatto aperto la strada a un incremento coerente, a un progresso lineare nell’emancipazione politica ed economica; e come dunque sia necessario cercare nessi più complicati e reconditi nel rapporto tra le donne e l’esercizio del potere.
Se si osservano a livello macro gli apparati statuali ed economici non è necessario restringere la lente al mondo occidentale per registrare lentezze e contraddizioni nell’accesso delle donne alla rappresentanza parlamentare e alle gerarchie più alte delle imprese industriali e finanziarie. Tra il 1995 – l’anno della Conferenza di Pechino delle Nazioni Unite, che indicò come priorità a tutti i Paesi il rafforzamento del potere di azione delle donne nella sfera pubblica e nella vita privata e l’introduzione della prospettiva di genere nelle culture dominanti – e il 2004, le percentuali della presenza femminile nei parlamenti nazionali si muovono di pochi punti: l’incremento è complessivamente più deciso nell’America Centrale e Meridionale, con i picchi del Costa Rica che passa dal 14 al 35%, dell’Ecuador (dal 4 al 16%) e dell’Argentina (dal 22 al 34%); più disomogeneo in un’Africa segnata da drammatici conflitti etnici, politici e religiosi, con i primati del Ruanda, che passa dal 17 al 49%, del Marocco (dal 1 all’11%) e del Mali (dal 2 al 10%), ma anche con i trend negativi del Ciad, che scende dal 16% del 1995 al 6% del 2004, del Camerun (dal 12 al 9%) e dello Zimbabwe (dal 15 al 10%). Il Medio Oriente e l’Asia mostrano i contrasti più forti, esibendo assenze totali nei Paesi di più stretta osservanza musulmana (Bahrein, Emirati Arabi, Yemen, Kuwait), discese rapide in Bangla Ďesh (dall’11 al 2%) e meno rapide in Cina (dal 21 al 20%), stabilità preoccupanti in India (8%) e in Srī Laṅkā (5%); ma anche il balzo in avanti in Pakistan (dal 2 al 22%) e in Laos (dal 9 al 23%), e i più lineari incrementi del Vietnam, di Singapore, delle Filippine e di molte repubbliche dell’ex Unione Sovietica.
Europa e Stati Uniti mostrano nel loro complesso i dati più prevedibili e nello stesso tempo di più difficile comprensione. Perché è in questi Paesi, presi a simbolo e modello dell’emancipazione occidentale, in apparenza liberi da tabù religiosi e da discriminazioni esplicitamente legate al genere sessuale, che sarebbe legittimo cercare le cifre di una parità raggiunta e consolidata, di una rappresentanza femminile acquisita e universale. Ma non è così. L’accesso delle donne alla politica e la loro permanenza nelle istituzioni rappresentative e di governo appaiono ancora obiettivi mobili, mete difficili da raggiungere. Tanto da autorizzare il sospetto che non di mete né di obiettivi si tratti, ma di passaggi contraddittori e spesso dolorosi.
Negli Stati Uniti le donne elette al Congresso erano l’11% degli uomini nel 1995 e il 14% nel 2004; in Canada la percentuale è aumentata dal 18 al 21%; al di qua dell’oceano, il Regno Unito è passato dal 6 al 12%, l’Irlanda è rimasta ferma al 13%, l’Ungheria è scesa dall’11 al 10%.
Nell’ultimo decennio del Novecento il sistema delle quote di seggi da riservare alle donne ha appassionato il dibattito politico e teorico, e ha trovato declinazioni diverse a seconda dei contesti: quote per i parlamenti nazionali assegnate dalla Costituzione (Nepal, Burkina Faso, Uganda ecc.) o da leggi elettorali (Belgio, Bosnia ecc.), oppure quote decise dai singoli partiti politici per la composizione delle liste elettorali (Germania, Italia, Svezia ecc.). Al di là delle argomentazioni addotte a favore o contro tale sistema (soluzione al problema della sottorappresentazione delle donne nella vita pubblica o, al contrario, introduzione di nuove discriminazioni e ghettizzazioni), uno sguardo ai risultati raggiunti può stimolare nuove riflessioni. Per fermarsi all’Europa, in Belgio la presenza femminile in Parlamento è passata dal 12% del 1995 al 35% del 2004 ed è stabile tra il 35 e il 40% nei Paesi scandinavi; ma queste esperienze non hanno trascinato con il loro esempio gli altri Paesi in cui l’incremento è assai più modesto (in Francia, pur raddoppiando, la percentuale è passata dal 6 al 12%) o addirittura inesistente (in Italia è scesa dal 15 al 12%), non hanno stimolato emulazione: insomma, non hanno fatto cultura. Il Partito socialdemocratico danese ha eliminato nel 1996 il vincolo delle quote femminili nelle proprie liste elettorali, ritenendolo non più necessario dopo che era stato raggiunto il risultato del 40% di donne elette; nelle elezioni successive per il Parlamento europeo tutti i candidati socialdemocratici erano uomini.
Non si tratta allora soltanto di invocare più o meno paternalisticamente nuove disposizioni per superare quelli che appaiono come radicati meccanismi di esclusione messi in atto dalla classe politica maschile contro le donne, e per ribaltare l’apparente e pervicace estraneità femminile al gioco politico. Per interpretare tali tendenze occorre forse analizzare più in profondità la strutturazione delle democrazie mature e i sistemi di formazione e riproduzione della classe politica, per scoprire come in tali ingranaggi risultino dominanti reti di potere e relazioni familiari. Nella fase di deregolamentazione che caratterizza i sistemi politici di molte democrazie occidentali non esistono più partiti tradizionali che controllino e selezionino le carriere politiche con regole chiare: nelle formazioni politiche del nuovo secolo le reti di appoggio appaiono determinanti, tanto più quanto meno sono espliciti i criteri di accesso alle reti stesse. E i sistemi di accesso alla politica basati sulle reti introducono una nuova discriminante: quella tra gli insiders – chi è inserito stabilmente negli scambi interni alla rete – e gli outsiders – chi non ha alle spalle esperienze e relazioni in grado di favorire e sostenere l’ingresso e la permanenza nella politica. Una discriminante questa che a volte domina su quella del genere sessuale. Ma non sempre, e non con la medesima linearità.
«La pratica diffusa nel mio partito politico – racconta una parlamentare intervistata in un’indagine dell’Unione interparlamentare di Ginevra sulla percezione femminile della politica – è quella di tenere un processo di selezione interno per individuare i candidati da inserire nelle liste elettorali; è in questo processo che le donne sono generalmente scoraggiate se non sono abbastanza forti, perché gli uomini conducono campagne politiche sporche» (IPU 2000, p. 21). «Il problema sta nelle regole non scritte – sostiene una parlamentare dell’Europa occidentale –; le regole rimangono scritte negli statuti dei partiti politici, ma le pratiche non favoriscono le donne» (p. 83). Così, alle donne risulta più difficile accedere ai network informali che governano lo sviluppo delle carriere politiche; nello stesso tempo però nessuna discriminazione sembra essere rilevata nei loro confronti una volta giunte alle posizioni istituzionali più alte.
È necessario tuttavia non fermarsi ai dati esteriori della presenza delle donne nelle istituzioni rappresentative: «Quale posizione con quale potere è questione spesso più importante dei numeri – afferma un’altra delle intervistate –; nel mio Paese siamo molto egualitari per quanto riguarda la rappresentanza di uomini e donne nel Parlamento e nel governo. Ma a loro volta questi numeri non sono rappresentativi del sistema politico nella sua interezza, è un errore pensare che il numero in sé stesso sia garanzia di uguaglianza» (p. 22). Si tratta allora di indagare meglio sulle caratteristiche e sulle forme della partecipazione femminile al potere, politico ma non solo.
Uno degli elementi più importanti che emergono dall’osservazione ravvicinata di molte esperienze è quello della stagionalità. L’impegno delle donne negli organismi di governo centrale e locale è spesso temporaneo, dura un mandato o poco più, non si consolida in una professione.
«L’esperienza politica è per me un periodo di transizione. Le dedicherò 4 o 8 anni al massimo. Dopo farò qualcos’altro, ma mi batterò sempre per le idee in cui credo. Prima, come insegnante di teatro, organizzatrice ed educatrice, ero comunque impegnata nella politica. Era diverso, ma né più né meno efficace. Quello che è interessante è essere eletta per raggiungere una migliore comprensione del sistema nel suo complesso, uno sguardo più sistemico» (IPU 2000, p. 73). Risponde così una parlamentare dell’Europa occidentale ai quesiti sulle motivazioni e i contesti della propria esperienza politica; e un’altra testimonianza risulta ancora più esplicita: «Io ho preso il mio periodo sabbatico dalla politica italiana dopo aver praticato per molti anni, dopo il 1989, il lavoro artigianale, talvolta testardamente minuto, di dare senso, energia e stile a quella democrazia come valore universale che aveva trionfato di oppressioni e illusioni. Per anni lavorare nell’amministrazione di Roma, aprire le serrande della burocrazia, inventare nuove opportunità per i cittadini e servire la loro sovranità con fierezza, sono stati un gusto e una sfida quotidiani. Poi lentamente le parole hanno cominciato a morirmi in gola e le energie nelle mani. Vedevo il mio futuro conficcato in un notabilato che mi appariva torpido e privo di sorprese, come se la mia vita fosse già tutta scritta. […] Bisogno di libertà e di ossigeno, per me, invece, bisogno di cercare nuovi bandoli per capire il mondo» (Gramaglia 2008, pp. 6-7).
«Le donne vengono con la marea» (Fiume 2007, p. 246): la loro partecipazione alla politica sembra nascere da temperie peculiari, da sommovimenti sociali, da momenti di risveglio della società civile, e configurarsi quindi come un’assunzione vicaria di poteri e responsabilità, da abbandonare per volgersi altrove nei tempi di ‘risacca’. Le interpretazioni di un atteggiamento così diffuso attingono alle categorie della politica: le donne manifesterebbero una sorta di ‘appartenenza debole’ alle istituzioni rappresentative e amministrative, soprattutto se confrontata ad altri momenti forti della percezione di sé, come l’impegno sociale e familiare, la partecipazione alle guerre e alle lotte di liberazione (Una democrazia incompiuta, 2007). Ma richiamano anche, solo in apparenza più semplicemente, i temi legati al ciclo di vita femminile; la maggior parte delle donne sarebbero disponibili a un incarico politico di rilievo solo finché non hanno figli, oppure quando i figli sono già grandi. Ciò che fa emergere consistenti differenze tra uomini e donne sarebbe così non soltanto il percorso di entrata, ma anche quello di uscita dal mondo della politica.
Il quadro e le tendenze non mutano di molto se dalla politica si guarda al mondo del lavoro. Da un punto di vista generale, la situazione lavorativa delle donne non si è modificata significativamente nei primi anni del 21° secolo: secondo i dati dell’International labour office le donne continuano ad avere i tassi più bassi di partecipazione al mercato del lavoro, i più alti di disoccupazione e remunerazioni inferiori rispetto agli uomini, nonostante i loro più alti livelli di istruzione. Soprattutto, se ci si sofferma sugli aspetti qualitativi si nota come esse tendano sempre a occupare quelle che vengono definite posizioni professionali non strategiche. Il numero delle donne nelle carriere direttive continua a essere limitato, a crescere lentamente e in alcuni casi addirittura a decrescere. La distribuzione è prevedibile: tra il 2000 e il 2002 la percentuale di donne con incarichi manageriali è superiore nel Nord America (gli Stati Uniti sono al primo posto con il 45,9%), in America Meridionale e nell’Europa dell’Est (dove il lavoro femminile è stato sostenuto da politiche di lungo periodo di supporto delle lavoratrici madri, e dove peraltro le percentuali cominciano a diminuire), ma scende vertiginosamente in Asia e nel Medio Oriente (il Giappone si trova agli ultimi posti con l’8,9%).
I numeri cambiano di molto se si cercano le donne ai vertici delle aziende: negli Stati Uniti nel 2003 le top manager erano il 13,6% con un incremento di circa due punti percentuali dal 1999; la proporzione canadese è più articolata, con il 14% nel 2002 e un modesto incremento dal 1999, ma con un balzo dal 3,4 al 6,7% nello stesso periodo nelle posizioni di maggior prestigio. I principali Paesi europei mostrano dati sconsolanti, con l’8% di donne ai vertici delle maggiori compagnie tedesche e il 5,3% al comando di quelle francesi (benché in Francia si sia registrato un incremento sostanzioso alla fine del secolo scorso, quando le donne a capo di aziende con 50 o più dipendenti sono passate dal 9,8% del 1990 al 15,3% nel 2000). Sembra diversa la situazione del Regno Unito, dove una ricerca condotta dalla Cranfield school of man-agement nel 2003 ha rilevato un aumento del 20% (da 84 nel 2002 a 101 nel 2003) e mostrato come in 18 delle 20 maggiori aziende del Paese ci siano donne nello staff esecutivo. Nello stesso Regno Unito tuttavia è più ampio il divario tra le retribuzioni: le donne guadagnano in genere il 24,3% meno degli uomini. Nella graduatoria dell’Unione Europea seguono l’Austria e l’Olanda (entrambe con un gap del 21,1% nel 2001) e poi la Germania (19,4%); la media europea nello stesso anno si attesta sul 15,3%. Negli Stati Uniti nel 2001 le donne manager guadagnavano mediamente il 76% di quanto guadagnavano i loro colleghi uomini, e la situazione sembra essere peggiorata progressivamente tra il 1995 e il 2002.
Insomma, un soffitto di vetro – fatto di scelte non dichiarate, di pratiche spesso in contraddizione con regole e direttive proclamate universalmente – sembra impedire alle donne di raggiungere i vertici delle istituzioni politiche ed economiche e di vedere riconosciuto anche finanziariamente il proprio impegno alla pari di quello degli uomini. Trasparente, duro, ma non infrangibile, il soffitto di vetro è stato preso a metafora di una segregazione verticale spesso difficile da riconoscere e non percepita neanche dalle donne stesse, convinte a volte che nulla, se non la propria volontà e le proprie capacità, le separi da una vetta che appare sempre vicina, possibile.
Una carriera di successo e una felice vita familiare. Obiettivi diffusi e perseguiti – spesso con buoni risultati e senza contraddizioni laceranti – dagli uomini. Gli uomini ‘vogliono tutto’, e lo ottengono. Secondo un’indagine svolta nel 2003 negli Stati Uniti la grande maggioranza dei manager di più alto livello ha figli e una moglie che è occupata in un impiego a tempo parziale. Per le donne trovare un equilibrio tra progetti familiari e carriera è più complicato: allo stesso livello professionale il doppio delle donne manager rispetto agli uomini ha posticipato il matrimonio (18% contro 9%), quasi il triplo ha rimandato la scelta di avere figli (35% contro 12%), mentre il 74% (contro il 25% degli uomini) ha un coniuge che lavora a tempo pieno. Il che significa che la gestione degli affari domestici e la cura dei figli ricadono comunque in primo luogo sulle donne, le quali sono costrette a individuare delle priorità tra lavoro e famiglia. Oppure a stabilire un rapporto intermittente con l’azienda o l’istituzione di appartenenza, ritmato dalle necessità della maternità e dalle responsabilità familiari. La maggioranza delle donne infatti – secondo indagini svolte tra le top manager statunitensi, ma il discorso potrebbe essere esteso a molti altri contesti senza troppi margini di errore – non desidera affatto abbandonare il lavoro per la famiglia, ma progetta di tornare a un impegno a tempo pieno non appena i figli saranno abbastanza grandi, conservando magari, nel frattempo, un rapporto di consulenza, un legame attivo che consenta loro di rimanere ‘nel giro’.
Tutto questo naturalmente va a scapito tanto della rapidità della carriera quanto dei livelli retributivi; ma è qui che entra in gioco l’ambivalenza femminile, anche nei riguardi del potere. Intervistate nel 2003 dalla rivista «Fortune», otto donne collocate ai vertici di aziende, università e istituzioni governative hanno dichiarato di non aver mai pianificato linearmente la propria carriera, ma anzi di aver esitato ad accettare promozioni o a volte di averle rifiutate per il timore che maggiori responsabilità professionali sarebbero entrate in conflitto con la qualità della loro vita privata. Le top manager interpellate sostenevano di apprezzare certamente il potere, ma che il potere in sé non fosse mai stato la molla del loro impegno; affermavano di aver subordinato o di essere pronte a subordinare il lavoro alle esigenze familiari. Tra le cinquanta donne secondo «Fortune» più potenti d’America nel 2002, un terzo aveva dichiarato di ricoprire il proprio incarico grazie al fatto che era il marito in quel periodo a stare a casa e a occuparsi della famiglia.
Sempre le responsabilità di cura – declinate questa volta come esigenze sia di flessibilità sia di autonomia – appaiono motivazioni importanti nello spingere le donne ad avviare una propria impresa. Il fenomeno del self-employment – che l’espressione lavoro autonomo traduce in italiano perdendo un lembo non secondario del suo significato – è salito da pochi anni alla ribalta degli studi sull’occupazione femminile, che ne hanno rilevato l’importanza crescente. E se gli approcci più tradizionali hanno individuato le ragioni di tale incremento nella diminuzione dei posti di lavoro disponibili nel settore pubblico e in quello privato (per le necessità della razionalizzazione, per il profilarsi della crisi economica ecc.), interpretazioni più sensibili agli aspetti qualitativi del problema hanno dato rilievo a uno degli obiettivi ricorrenti nelle dichiarazioni delle donne interessate: quello di eliminare una volta per tutte l’impalpabile ostacolo del soffitto di vetro che nelle grandi aziende e organizzazioni poneva il limite all’espressione delle loro capacità. Le indagini compiute nei primi anni del nuovo secolo in Europa e negli Stati Uniti tra donne che hanno avviato una propria piccola impresa hanno messo in luce motivazioni omogenee: le precedenti esperienze professionali negative in corporation strutturate, l’interesse a elaborare personalmente strategie economiche, e soprattutto la possibilità di bilanciare meglio lavoro e responsabilità familiari, e di diventare così esse stesse agenti del cambiamento, padrone delle proprie vite.
Si tratta certo di motivazioni che traggono sostanza da contesti economici e culturali capaci di offrire anche alle donne la possibilità di scegliere e argomentare il proprio progetto.
Altrove, in economie meno avanzate e in società ancora più rigidamente segnate dalla differenza di genere, le opportunità offerte alle donne non lasciano alternative. I dati forniti dall’International labour office nel 2002 mostrano come tra il 1994 e il 2000 le donne predominino nei lavori ‘informali’ in molti Paesi in via di sviluppo come l’Africa subsahariana, l’Asia e l’America Latina; indicano anzi l’importanza delle microimprese e del lavoro autonomo come fonte di reddito per le donne.
Quella di ‘lavoro informale’ è una categoria fluida, usata per contenere più che per definire differenti tipi di attività: il lavoro a domicilio, alcune forme del lavoro agricolo, un’ampia gamma di lavori indipendenti, connessi tanto alle industrie quanto ai servizi e al commercio al minuto; insomma, attività disparate e fortemente legate ai contesti e in genere agli aspetti più marginali delle economie locali. Quanto di più lontano dunque, in apparenza, da un’indagine che voglia soffermarsi sul rapporto tra donne e potere.
In India le self-employed women, quelle che rientrano nella categoria del lavoro informale, sono «sigaraie di bidi (la piccola sigaretta indiana), stampatrici di tessuti, ricamatrici, materassaie e riutilizzatici di stoffe vecchie per coperte e tappeti, operaie edili, vetraie, fabbre ferraie, manovali e trasportatrici di mattoni e pietre nei cantieri, venditrici di frutta, verdura, tessuti e pentole, lavandaie, cuoche e cameriere di famiglie, scuole e ospedali, raccoglitrici di carta e metallo nelle immondizie e riciclatrici. L’elenco è puntiglioso, ma lontanissimo dall’essere esauriente: i mestieri umili delle donne indiane sono infiniti […]» (Gramaglia 2008, p. 38). Sono i mestieri svolti dal 93% delle lavoratrici indiane, le cui esperienze costituiscono un laboratorio cui attingere per restituire linfa e accelerazione agli asfittici progressi dell’emancipazione femminile occidentale.
In primo luogo le concrete esperienze di aggregazione. La Self-employed women’s association (SEWA) è un’organizzazione fondata in India nel 1972 e divenuta via via un modello di riferimento per molte intellettuali femministe. I vari piani della sua attività, infatti, pur ideati e fortemente radicati nelle realtà locali del subcontinente, toccano punti focali della condizione femminile anche dell’Occidente più sviluppato e delineano percorsi concreti, sorretti da un’acuta sensibilità politica e teorica, capaci di incidere sulle radici di segregazioni ed esclusioni. Una rassegna sintetica riguardo alle attività principali dell’organizzazione può offrire esemplificazioni stimolanti.
Secondo la Costituzione indiana le donne godono degli stessi diritti, anche politici, degli uomini; ma l’uguaglianza sancita a livello formale è smentita dalla quotidiana discriminazione nei confronti di donne quasi sempre analfabete, costrette ai lavori più umili e a sopportare tutto il carico domestico, e nei fatti respinte e vessate nell’interlocuzione con la burocrazia o con i mediatori dei loro mestieri. Il primo impegno di SEWA è stato, non a caso, sul terreno del credito: nel 1974 ha fondato la sua banca per il risparmio e il microcredito alle donne povere, giungendo nel 2007 ad avere circa 300.000 depositi di risparmio e a erogare decine di migliaia di prestiti, tutti obbligatoriamente destinati a scopi produttivi, all’acquisto cioè di mezzi di produzione che consentano alle donne di affrancarsi dal potere vessatorio di mediatori e usurai. «Ma quello che più conta – racconta ancora Mariella Gramaglia – è la dignità: gli orari sono scelti in modo da conciliarli con il lavoro delle donne; le ‘bancarie’ si spostano negli slums e nei villaggi a raccogliere il risparmio o a distribuire le quote di credito; torme di bambini si aggirano per la banca, e la fotografia, non una croce umiliante, sostituisce la firma» (Gramaglia 2008, p. 45).
Dalle esperienze acquisite nel microcredito sono nate altre iniziative di importanza enorme: una sorta di sistema assicurativo per garantire alle donne in gravidanza e alle vedove in lutto mezzi di sostentamento che nessun familiare si cura di garantire, sistema poi fatto proprio dal governo e varato come piano nazionale di assistenza alle puerpere; centri per la vendita di medicine a prezzi calmierati, cooperative di produttrici. L’impegno sul terreno dell’alfabetizzazione segue come derivato quasi naturale: nel 1990 SEWA fonda l’Academy, un istituto di formazione che insegna alle donne a leggere e scrivere, ma anche elementi di informatica alle più giovani, organizza training per qualificare le levatrici di villaggio, corsi di educazione alla salute per le abitanti degli slums, corsi di formazione politica per diventare quadri dell’associazione.
SEWA è un’organizzazione autonoma dai partiti che non ammette uomini tra le sue iscritte e che lavora per l’empowerment delle donne, mettendo in pratica con fantasia e successo – e da prima della loro formulazione – le direttive della Conferenza di Pechino dell’ONU del 1995 per il rafforzamento del potere di azione delle donne in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata.
Ma quali sono le valenze più generali dell’attività di SEWA? In primo luogo il quadro offerto dalle caratteristiche dei lavori informali svolti dalle iscritte, e dalla interlocuzione di queste ultime con le militanti dell’associazione: lavori eseguiti spesso in casa o con i figli al seguito, e appunto bambini ovunque, accolti con naturalezza nelle banche e negli uffici dell’organizzazione. Emergono cioè una fluidità negli spazi e nelle relazioni, un rispetto delle responsabilità di cura delle donne, una capacità di comprensione e sostegno nei diversi momenti del ciclo di vita femminile che sembrano dare spallate definitive a quella distinzione tra pubblico e privato, tra lavoro e famiglia che ha costituito un secolare strumento di dominio sulle donne. E non si tratta certo di un residuo o di un ritorno all’indivisione tipica delle società preborghesi, perché il contesto e il progetto di tali esperienze sono forti di nuove consapevolezze della dignità e delle capacità delle donne.
Solo il superamento della dicotomia pubblico/privato del resto può consentire un innovativo approccio alla questione della cura – dei bambini, degli anziani, dei malati, dei disabili – che negli ultimi anni è stata posta al centro di molte riflessioni femministe. «Nel mondo sono principalmente le donne, e di solito soltanto loro, a prendersi cura delle persone in condizioni di dipendenza estrema […]. Le donne spesso adempiono a queste attività di importanza cruciale senza essere retribuite e senza che tali attività vengano considerate come una forma di lavoro vero e proprio. Allo stesso tempo, il fatto che siano costrette a passare lunghi periodi di tempo e prendersi cura dei bisogni fisici degli altri impedisce loro di dedicarsi a ciò che desidererebbero fare in altri ambiti di vita, quali un’occupazione remunerata, l’esercizio della cittadinanza, i momenti ricreativi e l’espressione di sé» (Nussbaum 2002, p. 54). Non solo, ma «se annetteremo scarso valore o scarsa dignità alle persone in condizioni di dipendenza, non saremo capaci di riconoscere dignità al lavoro di coloro che le vestono e le lavano, così come non accorderemo a tale lavoro il riconoscimento sociale che merita» (p. 47). Società basate su una divisione del lavoro familiare e sociale fortemente asimmetrica operano una vera e propria ‘costrizione alla cura’ nei confronti delle donne, senza riconoscere nello stesso tempo la cura come attività umana necessaria; ignorando soprattutto le dipendenze e le interdipendenze che si creano intorno al rapporto di cura, ma postulando anzi, sul piano dei diritti come su quello del mercato, un individuo astrattamente autonomo.
La questione della cura diventa così una questione di cittadinanza; ma la possibilità di dispiegare appieno i diritti di cittadinanza esige ulteriori riflessioni e nuovo impegno. Per motivare l’assenza delle donne dai livelli più alti della politica e delle professioni nei primi anni del secolo è stata avanzata la cosiddetta teoria delle preferenze: è una teoria che si richiama alle differenze ‘naturali’ tra uomini e donne, votati i primi a gestire la res publica, le seconde a curare la sfera privata. Le donne quindi rimarrebbero lontane dalle stanze del potere per una loro scelta, che le indurrebbe a privilegiare l’ambito familiare. «I termini ‘preferenza’ e ‘scelta’ evocano l’idea di una libertà dell’attore che esiste a prescindere dalle risorse di cui l’attore dispone, dalle costrizioni e dai vincoli entro cui opera. Ma le scelte, quando accade che manchino le condizioni concrete anche per concepire delle opzioni desiderabili, sono talora delle rinunce, sono scelte che si rassegnano alle disuguaglianze sociali più di quanto non asseriscano la libertà dei soggetti: sono ‘preferenze coatte’» (Una democrazia incompiuta, 2007, p. 293). A sostenere la teoria delle preferenze si trovano uniti in un curioso mix orientamenti culturali disparati: le religioni fondate sulle basi ‘naturali’ della famiglia, i femminismi che privilegiano la cultura della differenza rispetto alla bandiera dell’uguaglianza, gli approcci neoliberisti che fanno riferimento alle scelte razionali degli attori, in base alle quali, per es., il part-time sarebbe la scelta femminile ideale per conciliare lavoro e famiglia.
Se insomma la teoria delle preferenze ha il merito di prendere in considerazione le persone e le risorse di cui dispongono per soddisfare le loro preferenze correnti, essa omette di considerare appunto che le preferenze non sono estranee alle condizioni sociali e culturali dei contesti dati, ma sono al contrario plasmate proprio da queste condizioni. «Spesso le donne non dimostrano alcuna preferenza per l’indipendenza economica prima di apprendere quali sono le possibilità che le mettono in condizione di porsi questo obiettivo […]. Di solito gli uomini preferiscono decisamente che le mogli si dedichino esclusivamente alla cura dei bambini e al lavoro domestico, spesso in aggiunta a un lavoro quotidiano di otto ore. Ma queste preferenze non sono stabilite dalla natura oggettiva delle cose: sono piuttosto il risultato di una tradizione sociale di privilegio e subordinazione. In questo modo, un approccio basato sulle preferenze finisce solitamente per rafforzare le disuguaglianze» (Nussbaum 2002, pp. 70-71). Non si tratta allora semplicemente di fornire maggiori risorse a donne e uomini, ma di valutare la loro capacità di convertire le risorse in funzionamenti effettivi.
Scegliere la categoria di capacità invece che quella di risorse o di preferenze per stimare le condizioni di vita di ciascun individuo in un assetto sociale implica indagare non solo sulla ricchezza e sulla sua distribuzione (cioè sul livello complessivo di disuguaglianza), quanto piuttosto chiedersi cosa le persone, donne e uomini, siano in grado di fare e di essere, e quanto siano libere di scegliere la propria vita nella concretezza delle loro condizioni particolari. «Proprio perché in nessun paese – scrive Chiara Saraceno nell’introduzione a Nussbaum (2002) – neppure in quelli più ricchi e sviluppati, le donne sono trattate in modo uguale agli uomini, non ricevono la stessa quantità di risorse e le loro capacità non ricevono altrettanto sostegno, porsi dal loro punto di vista, di ciò che possono o non possono fare, di ciò che possono o non possono essere, significa proporre il test più severo e rigoroso sia delle teorie che delle pratiche» (p. 10). Porsi dal punto di vista delle capacità consentirà allora alle organizzazioni e alle istituzioni pubbliche di individuare politiche ‘abilitanti’, in grado di garantire realmente le condizioni perché le capacità di ciascuno siano pienamente sviluppate; di non fermarsi dunque a fornire alle donne istruzione e formazione per entrare nel mercato del lavoro o nell’attività politica, lasciando poi che le stesse donne siano sopraffatte dal lavoro familiare e di cura; ma di controllare che ogni risorsa entri in azione per assicurare opportunità e libertà, perché ogni donna disponga del potere di orientare la propria vita.
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I dati statistici sono tratti da:
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IPU (Inter-Parliamentary Union), Politics: women’s insight, 2000, http://www.ipu.org/PDF/publications/womeninsight_en.pdf Informazioni dettagliate sull’attività di SEWA possono essere reperite sul sito Internet dell’associazione, www.sewa.org.
Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 18 marzo 2009.