Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le crisi economiche, la maggiore articolazione della produzione, lo sviluppo dei ceti medi e la volontà dei sovrani di sottolineare il loro potere anche sul piano cerimoniale offrono alle donne occasioni per sperimentare nuovi ruoli. Le autorità civili ed ecclesiastiche si preoccupano di indirizzare e controllare le attività e le aspirazioni femminili. A un inasprimento della condizione della donna e all’appesantirsi del carico di lavoro fa riscontro una diversificazione delle attività, una maggiore presenza nello spazio pubblico e l’acquisizione di saperi tradizionalmente riservati agli uomini.
La corte
Ben diverso dal ruolo delle donne appartenenti ai ceti medi e inferiori è quello di coloro che sono chiamate a ricoprire le più alte cariche politiche e rappresentative. In alcuni Paesi europei come l’Inghilterra esse possono salire al trono in mancanza di un erede maschio; in altri, come in Francia, sono mogli, madri, favorite (come Madame de Maintenon), ma anche reggenti (come Maria de’ Medici). E in questo ultimo caso spesso ci si interroga, come avviene negli Stati Generali del 1614 in Francia, sulla pericolosità di questo accidente della storia.
Ma queste donne sono comunque al centro dell’interesse generale, determinano il comportamento di chi le circonda, guidano le conversazioni, costituiscono il fulcro di un cerimoniale inteso a dare loro splendore, dominano la scena politica.
Anche quando la vita di corte si svolge intorno a un re, essa offre alle dame molte possibilità di intervenire negli affari pubblici.
La corte deve riassumere in un microcosmo la società ideale nell’atto di rendere omaggio al monarca e non può perciò fare a meno di loro. Il prestigio del sovrano è determinato dallo splendore di chi lo circonda e gli abiti lussuosi, le gemme, la bellezza sono un segno del potere, così come lo spirito, la capacità di “brillare”, di suscitare ammirazione. Lo spazio consentito alle donne non si limita però a quello simbolico. Esse partecipano alla gestione di un potere fortemente personalizzato attraverso le conversazioni, le richieste di favori, le pressioni politiche esercitate per conto di familiari e clienti e sono abituate a partecipare in prima persona e a valutare gli avvenimenti (basti pensare alle Lettere di Madame de Sévigné).
La famiglia
I sistemi che non prevedono una trasmissione ereditaria del potere offrono in complesso alle donne minori occasioni per intervenire nella vita politica. Esse infatti non arrivano mai a ricoprire posizioni di responsabilità per elezione o per cooptazione.
In ogni caso, in nessun Paese le donne amministrano una città né fanno parte, se non in via del tutto eccezionale, di assemblee rappresentative, né ricoprono cariche pubbliche. Non sono giudici, notai, e neanche testimoni o liberi professionisti. La donna è immaginata invece frequentemente come un essere senza testa, capriccioso, capace al massimo di occuparsi delle faccende domestiche.
Nella vita privata la donna passa dalla soggezione al padre a quella al marito, e le unioni in cui assume un ruolo di comando sono criticate e messe in ridicolo finanche in manifestazioni pubbliche di scherno (come i chiarivari in Francia). Il suo matrimonio, più che un affare personale, è un tassello importante nella rete delle strategie familiari. La maggiore o minore entità della dote garantirà alla figlia una vita più o meno agiata, ma soprattutto determinerà, insieme ai natali, le alleanze che ogni ceppo sarà in grado di stringere. Poiché la moglie segue lo stato del marito, le donne, al contrario degli uomini, si sposano raramente con persone di ceto inferiore e così il numero delle maritate è sensibilmente minore tra gli aristocratici che nel resto della popolazione. La scelta del coniuge è riservata ai genitori, nelle città ancora più che nelle campagne, e in modo sempre più rigoroso nell’arco del secolo.
Se la donna dipende dal marito, ne deve anche esibire il livello sociale e la ricchezza. Perciò le aristocratiche si distinguono, in un secolo in cui la denutrizione è in agguato, per la corporatura robusta e la carnagione chiara, in contrasto con quella di chi è costretto a lavorare all’aperto. Il colore chiaro è anche indice di purezza che, come la castità e un nuovo senso del pudore, diventa un elemento di distinzione, soprattutto per i ceti medi in cerca di segni che sanciscano la loro ascesa sociale. Ma anche il trucco, gli abiti sfarzosi e i gesti cerimoniali rigidamente codificati sono sempre più una prerogativa delle dame che, distaccandosi dalla spontaneità della gente comune, sottolineano il proprio rango.
Le donne sole non hanno alcun posto nell’immagine ideale di una società ordinata, anche se proprio nel Seicento esse sono particolarmente numerose per la contrazione del numero dei matrimoni dovuto alle frequenti e durature crisi economiche. Anzi la loro presenza inquietante nella società provoca la moltiplicazione di luoghi idonei a segregarle. Per quelle che la famiglia non destina al matrimonio c’è il chiostro, ma i conventi aprono le loro porte anche alle giovani o alle vedove. In particolare la relativa libertà di cui godono le vedove è motivo di preoccupazione e la letteratura, soprattutto quella religiosa, si affanna a criticare le loro eccentricità.
Il lavoro femminile deve svolgersi all’interno della casa ed è tutt’altro che lieve, tanto che la moglie pigra è considerata una disgrazia. Alla donna spetta l’assistenza ai familiari anziani o malati, la direzione della servitù quando esiste, la cura e l’educazione dei figli e tutto ciò che attiene direttamente all’alimentazione e al benessere materiale. Le più povere devono farsi carico non solo della cucina e del decoro della casa ma anche del trasporto dell’acqua, della raccolta della legna e dello sterco, dell’allevamento degli animali domestici, della coltivazione dell’orto, della raccolta dei prodotti del bosco. Possono esserle richiesti altri lavori di supporto all’attività maschile, per esempio il trasporto di materiali necessari per le costruzioni o per i lavori agricoli.
Ma quando una donna è obbligata a mantenere se stessa o i propri familiari, a svolgere un’attività all’esterno della propria casa alle dipendenze di un estraneo, questo comporta una riduzione di prestigio per l’uomo e, di riflesso, per la donna stessa. In una certa misura il lavoro femminile può essere accettato nei ceti inferiori (e si tratta comunque di un ripiego) solo se è transitorio e finalizzato alla costituzione della dote. E in effetti la grande maggioranza delle ragazze di campagna lascia la casa paterna verso i dodici anni per lavorare in una fattoria, presso un artigiano o un mercante o, soprattutto, nelle case di città più o meno vicine. La servitù femminile rappresenta nei centri maggiori circa il doppio di quella maschile e aumenta considerevolmente nel Seicento.
Ma il lavoro femminile è anche lavoro artigiano, al fianco dell’uomo oppure, più raramente, indipendente. Mentre le corporazioni ostacolano in complesso l’attività delle donne, l’industria tessile o quella del merletto richiedono un numero elevato di lavoranti.
L’abitudine di considerare la capacità lavorativa e la specializzazione come sostitutive della dote finisce per comportare un margine inusitato di indipendenza.
Proprio nel Seicento, quando il nitore della biancheria, il decoro dell’abito e della casa diventano più importanti e l’impegno domestico si fa più pesante, mentre il lavoro a domicilio e la maggiore articolazione della produzione offrono nuove possibilità di impiego e la crisi economica obbliga a cercare fonti aggiuntive di guadagno, l’attività femminile tende ad assumere in modo marcato le caratteristiche che la contraddistingueranno per alcuni secoli. È un lavoro ininterrotto, estremamente duttile, privo di cesure temporali, mal definito, non monetizzabile e appunto per questo insostituibile. Un lavoro che si intensifica nei momenti di crisi, integra quello maschile, vi si sostituisce quando gli uomini sono obbligati a migrazioni temporanee, e giunge fino alla richiesta di elemosine, considerata d’altronde come un mezzo di sussistenza ordinario.
Le donne pericolose
Anche nell’area del crimine le donne svolgono un’attività che è loro propria ed è connessa alle esigenze della sopravvivenza.
Nei processi non compaiono frequentemente come imputate, e quando accade è soprattutto per furto. Più che giungere a una vera violenza passibile di sanzioni penali, le donne del popolo, ma anche le aristocratiche, litigano in maniera plateale seguendo un copione noto sia agli attori sia agli spettatori.
Altrettanto rituale è il loro intervento nelle sommosse, particolarmente violente, causate dall’aumento del prezzo del grano, da motivi religiosi, da imposizioni fiscali. In questi casi esse gridano e diffondono la conoscenza dei torti subiti, indicano agli uomini gli obiettivi da perseguire, li incitano, si espongono al loro posto in quanto sono ritenute meno consapevoli e quindi meno punibili, rovesciano temporaneamente i ruoli quotidiani per sottolineare l’eccezionalità del momento.
Altre attività femminili sono considerate sovversive e incompatibili con la normalizzazione in atto nella società in quanto non episodiche. Vengono così emarginate le indovine, le guaritrici, le streghe che invadono il campo del soprannaturale riservato alla Chiesa, le attrici che pretendono di esibirsi in pubblico e di sottrarsi alla modestia consona al proprio sesso, le prostitute, causa non solo della diffusione di malattie veneree come la sifilide, ma soprattutto di disordini e della rovina economica e morale delle famiglie. Le streghe sono condannate al rogo, le attrici messe al bando, le prostitute confinate in quartieri separati, allontanate dal passeggio, dai teatri, dalle feste.
Anche il piacere dei sensi tende a essere riprovato sia nei Paesi cattolici sia in quelli protestanti, persino tra gli sposi. I rapporti sessuali sono interdetti in numerosi giorni dell’anno, la passione è sempre vista con sospetto. I rapporti prematrimoniali e la coabitazione dei fidanzati, che fanno parte del costume dei ceti inferiori, sono combattuti con accanimento. E la donna è rappresentata ormai come l’incarnazione del demonio, la grande tentatrice la cui bellezza fugace nasconde una sola realtà: la morte.
Le Chiese indicano il ruolo che spetta alla donna all’interno della famiglia. Per i protestanti essa non deve solo insegnare i buoni costumi ai figli, ma occupa anche una posizione importante quale padrona di casa e compagna dell’uomo, che può sostituire in caso di assenza temporanea o di morte. Per i cattolici l’accento è posto soprattutto sulla sua funzione di educatrice. La madre trasmette infatti alle nuove generazioni le credenze popolari, i valori morali, l’insegnamento religioso, e un’istruzione elementare che può comprendere anche la lettura e la scrittura. Quanto alle figlie, è responsabile di quasi tutto il patrimonio di conoscenze che le renderà spose sottomesse e operose.
Se tra i protestanti l’obbligo di leggere la Bibbia favorisce l’alfabetizzazione, anche tra i cattolici il compito attribuito alla donna di partecipare in prima persona alla riconquista della società è alla base della diffusione di nuove scuole destinate a fornirle una certa istruzione. Le classi miste sono sostituite da classi maschili e classi femminili, soprattutto nelle città.
Si moltiplicano le congregazioni che si occupano in modo specifico dell’insegnamento alle ragazze, mentre le giovani provenienti dai ceti elevati sono educate nei conventi. Non mancano neppure, sebbene siano ampiamente minoritarie, le scuole private laiche.
Dovunque però l’istruzione impartita alle donne esclude per lo più le lingue classiche e la filosofia e si limita alla lettura, alla scrittura, ai primi rudimenti di aritmetica, al cucito e in particolare al catechismo. Il sapere femminile è dunque limitato, uniforme, e riduce le possibilità di comunicazione fra i due sessi.
La Chiesa offre alcuni spazi di intervento alle donne non solo attraverso l’ampliamento, se non l’approfondimento, dell’istruzione femminile, ma anche per mezzo della beneficenza, delle istituzioni e del sistema di relazioni che le sono connesse. Le donne, vedove e zitelle, costituiscono la maggioranza delle beneficate e delle donatrici, spesso dirette da un ecclesiastico. Ma è tutta la rete di impegni religiosi a costituire un’alternativa agli interessi domestici. Il confessore tende addirittura a limitare il potere dei familiari in nome della preminenza dei diritti della fede su quelli della stirpe e in questo modo finisce per allargare l’orizzonte femminile alla comunità ecclesiastica.
Allo stesso tempo altre libertà scompaiono. Sia i protestanti che i cattolici vedono con sospetto ogni forma di collaborazione tra uomini e donne. E in particolare viene osteggiata l’attività delle mistiche come Jeanne des Anges, spesso capaci di attrarre nella loro orbita gli uomini di chiesa e di proporre riforme anche radicali. Le autorità ecclesiastiche si sforzano di controllare le vite e le vocazioni delle donne consacrate che non intendono pronunciare i voti solenni: beghine, bizzoche, terziarie. Neppure le kloppjes, semireligiose che nei Paesi Bassi settentrionali riformati sostituiscono i preti cattolici nella cura delle chiese e delle anime, sfuggono alle critiche di mancare al dovere di assistere i familiari, di sperperare i loro beni, di pretendere una indipendenza inusuale.
Intanto la clausura si fa più stretta. I conventi femminili sono oggetto di ripetuti interventi che mirano a rinsaldare la vita comunitaria, ad allentare i legami familiari, a limitare i commerci con l’esterno, i rapporti con le case religiose maschili, i contatti con i fedeli che vengono a chiedere preghiere e miracoli.
Ruoli nuovi
Con la maggiore articolazione della società, la vita si fa meno austera. Le dame possono dedicarsi, finalmente in comune con gli uomini, alle raffinatezze dello spirito e del rituale degli incontri. I luoghi di elezione di questa vita di relazione sono il teatro, la sala da ballo, il salotto. Nel teatro non si assiste solo a uno spettacolo che fa circolare le idee e suggerisce i comportamenti, ma si sfoggiano i segni del proprio stato sociale; si conversa, si fanno e si ricevono visite da un palco all’altro. Il ballo permette una dimestichezza tra i sessi altrimenti vietata e l’esibizione di destrezza e raffinatezza. Nei salotti la conversazione passa in primo piano e ne fa tante corti in miniatura nelle quali però non occorre solo piacere ma argomentare e convincere.
All’inizio del secolo è a Parigi, dove una piccolissima minoranza di donne ha cultura, intelligenza, libertà sufficienti, che si diffondono i primi salotti.
Nella seconda metà del secolo cresce il peso della borghesia ricca e aumenta il numero dei circoli privati. Ora sono le “preziose” a dettare legge in fatto di cultura: privilegiano l’esame dei sentimenti, aborriscono la volgarità e tutto quello che è comune, quotidiano, impongono ai dotti uno stile chiaro e comprensibile. Si impadroniscono di un sapere che era appannaggio di gruppi ristretti. Non mancano reazioni di scherno nei confronti di donne che pretendono di dirigere letterati e uomini di scienza. Molière scrive Les précieuses ridicules nel 1659 e Les femmes savantes nel 1672. Ma intanto molti dei difetti attribuiti alle donne cominciano ad apparire come il frutto della mancanza di istruzione e si discute sulle doti intellettuali femminili. Se l’opinione dominante riserva nel migliore dei casi l’intuito alle donne e le capacità speculative agli uomini, c’è chi parla ormai di parità come Poullain de la Barre, Marie de Gournay o Mary Astell.
Il romanzo, la cui lettura si diffonde nel Seicento, è un modo per pensare un altrove ideale in cui la donna ha un posto considerevole. Le donne sono soprattutto lettrici. Ma che una di esse scriva, come Mademoiselle de Gournay in Francia, e scriva per pubblicare, è cosa generalmente disapprovata. Signore e signorine scrivono soprattutto lettere non destinate alle stampe, come quelle di Madame de Sévigné, a meno che non compongano opere di devozione o di edificazione. Eppure le donne partecipano al dibattito religioso e politico con opuscoli e petizioni.
La quacchera Margaret Fell Fox difende le donne predicatrici, Elinor James la Chiesa anglicana, la duchessa di Longueville i principi al tempo della Fronda, e numerose petizioni al Parlamento inglese sono firmate da donne. Né esse sono assenti a metà secolo tra i primi giornalisti, anche se i loro nomi sono coperti dall’anonimato.
È d’altronde l’immagine stessa della donna che sta cambiando a partire da una cerchia ristretta di cui fanno parte anche medici e fisiologi. È ancora dominante la convinzione che essa sia solo un maschio imperfetto: di qui lo sguardo attento con cui si scrutano le trasformazioni del suo corpo. La donna può diventare uomo, si pensa, mentre non può accadere l’inverso poiché tutti gli esseri tendono alla perfezione. Ma nel Seicento la donna comincia ad assumere una sua autonomia. Così il medico francese Guy Patin risponde negativamente alla domanda che fa da titolo al suo lavoro: La donna non potrebbe trasformarsi in uomo? E mutano le teorie sull’inizio della vita.
William Harvey avanza la tesi che il concepimento dell’embrione avvenga a partire dall’uovo prodotto dagli organi genitali femminili, il che costituisce per alcuni un inconcepibile attacco alla preminenza maschile, e addirittura che sia impossibile senza la partecipazione emotiva della donna.