Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera di Giotto segna un punto di non ritorno per tutta la pittura italiana. Già Cennino Cennini sul finire del XIV secolo aveva sottolineato la svolta impressa all’arte del dipingere “dal greco al latino”: una rivoluzione così profonda da spezzare definitivamente il legame con l’arte bizantina e aprire il nuovo corso all’arte moderna che porterà al pieno Rinascimento. Persino Masaccio e Michelangelo continueranno a vedere in Giotto la fonte di aggiornamento ideale e a reputarlo il “padre” della nuova pittura. Il peso dell’eredità giottesca è misurabile, in maniera diversa, in tutta Italia, ma alcuni centri meglio di altri possono esemplificarne la dirompente portata.
Organizzata in modo saldamente gerarchico, la bottega di Giotto fa fronte a un’ampia richiesta, non solo cittadina, che fa di Firenze uno dei principali centri di produzione artistica in Italia. Se in un primo momento l’esempio di Giotto dà luogo a episodi di fronda, che mettono in discussione la sua leadership (Lippo di Benivieni, attivo fra 1296 e 1327; il Maestro di Figline, attivo nella prima metà del XIV secolo; Buonamico Buffalmacco, attivo fra 1314 e 1351 ca.), già nel terzo decennio del secolo si assiste a una piena identificazione tra Giotto e Firenze, dove la sua attività ha importanti esiti in campo non solo pittorico, ma anche scultoreo e architettonico.
L’unità della corrente pittorica che si riconosce nell’insegnamento di Giotto è tuttavia solo apparente, se già Giorgio Vasari distingue l’esistenza di tre indirizzi: il primo portato a enfatizzare la ricerca volumetrica in chiave precocemente accademizzante (Taddeo Gaddi), il secondo volto a risultati di più immediata comunicativa (Bernardo Daddi) e il terzo, più ambizioso, mirato a sperimentare un’inedita unione tra chiaroscuro e colore. Di quest’ultima tendenza, che fa capo ai risultati proposti dal maestro nella Basilica inferiore di Assisi, sarebbe stato protagonista Stefano, nipote di Giotto. Se però la personalità di quest’ultimo ci sfugge, i riflessi di quello che Vasari chiama il ““dipingere dolcissimo e tanto unito”” si colgono in Maso di Banco e, soprattutto, in Giottino. Intorno al 1350, dopo il flagello della peste nera (1348), è quest’ultimo a offrire le novità più importanti nel panorama fiorentino, entro il quale si inserisce in modo per così dire naturale Giovanni da Milano (attivo fra 1346 e 1369), educatosi in patria sugli esempi lasciati dallo stesso Giotto e dal misterioso Stefano. Un certo irrigidimento su posizioni conservative si nota semmai nel corso del secolo, per opera di artisti come Andrea di Cione detto l’Orcagna, al quale si deve la prima e più autentica ““rianimazione del giottismo classico”” (Miklós Boskovits), attraverso un’imitazione della pittura di Giotto consapevolmente perseguita.
Uno degli esempi più macroscopici della diffusione del linguaggio giottesco al di fuori della Toscana è offerto dalla fioritura di una “scuola riminese”, determinata dall’attività di Giotto nella città adriatica sullo scadere del Duecento.
Per i Francescani di Rimini egli esegue un ciclo di affreschi, andato perduto in seguito ai rifacimenti rinascimentali voluti da Sigismondo Pandolfo Malatesta, mentre ci resta la Croce destinata al tramezzo della chiesa (l’attuale Tempio Malatestiano). L’arte nuova del fiorentino è subito registrata dagli artisti locali: in un foglio di antifonario (Venezia, Fondazione Giorgio Cini), firmato e datato 1300, Neri da Rimini già riecheggia il plasticismo soffuso e naturalistico della croce francescana. I riflessi più alti del soggiorno giottesco si colgono tuttavia in campo pittorico. Già nei primissimi anni del secolo Giovanni, un artista documentato fin dal 1292, esegue gli affreschi nella cappella della Vergine in Sant’Agostino, dove i riflessi della cultura bizantina di ascendenza “paleologa” si uniscono all’uso di uno spazio tridimensionale e abitabile, nonché a una maggiore attenzione al dato naturale. Giovanni si pone come capostipite di una scuola giottesca che ha come primi esponenti i suoi fratelli Giuliano (attivo fra 1307 e 1324) e Zangolo (alias Maestro del coro di Sant’Agostino?), poi Pietro e in Francesco da Rimini, per chiudere con Giovanni Baronzio. Racchiusa entro un cinquantennio, l’attività dei riminesi sa dare vita a un linguaggio originale e si estende entro un arco geografico assai vasto, comprendente il litorale adriatico dal Veneto alle Marche, con puntate anche a Bologna e Padova. Nel frattempo i modi di Giovanni (Croce di Mercatello, 1309), connotati da un’aulica e arcana monumentalità, flettono, attraverso l’opera del Maestro del Coro di Sant’Agostino e soprattutto di Pietro (Croce di Urbania, affreschi di Tolentino), in direzione più umana e accostante. Apparentemente il meno ortodosso tra i giotteschi riminesi, per le sue attenzioni alla statuaria antica (la teoria degli Apostoli nel catino absidale della Pieve di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo) e il suo naturalismo di matrice gotica, Pietro da Rimini risulta essere l’interprete più interessante dell’opera di Giotto. Dopo Giovanni Baronzio, informato anche degli esiti padovani di Giotto, intorno alla metà del Trecento, le proposte originali dei pittori riminesi sembrano lasciare il posto a esiti meno alti (Maestro di Montefiore Conca), fino all’esaurimento della scuola, che coincide con la peste del 1348.
La situazione di Bologna è particolare. Come dimostra il frammento d’affresco con la Madonna delle febbri in San Domenico, Giotto è noto fin dalle sue precoci opere in Assisi. È anche accertato che egli stesso abbia lavorato intorno al 1330 all’interno della rocca di Galliera, fatta costruire da Bertrando del Poggetto, legato di papa Giovanni XXII, dalla quale potrebbe provenire il polittico firmato da Giotto ora nella pinacoteca di Bologna.
Tuttavia la pittura locale si mostra refrattaria al linguaggio classico e ordinato del maestro toscano. I pittori bolognesi di primo Trecento (il Maestro del 1333, lo Pseudo Dalmasio e lo Pseudo Jacopino) preferiscono inserire le loro scene in ambienti disarticolati, estranei alla profondità giottesca. In questa direzione si muove anche Vitale da Bologna, che negli affreschi della chiesa di Mezzaratta e nelle Storie di Sant’Antonio Abate (Bologna, Pinacoteca Nazionale) dimostra un fervore narrativo che scardina gli elementi razionali della visione.
È a partire dalla metà del secolo che Bologna vive un revival giottesco, definito “neogiottismo”. Tale indirizzo è testimoniato dapprima dall’attività di Andrea de’ Bartoli e poi di Jacopo Avanzi (attivo nella seconda metà del XIV secolo, presente anche a Padova) e di Jacopo di Paolo, gli esponenti più illustri di una corrente che, nell’accedere a un linguaggio normalizzato e saldo nell’impianto spaziale, si oppone alle divagazioni fantastiche e irrazionali della tradizione locale. In questo contesto nascono capolavori quali la Crocifissione di Jacopo Avanzi conservata nella Galleria Colonna a Roma o la Madonna col Bambino già in collezione Agosti-Mendoza di Jacopo di Paolo, la cui volumetria rimanda a uno studio diretto sulle opere di Giotto.
Tra il 1303 e il 1305 Giotto realizza a Padova la decorazione della cappella di Enrico Scrovegni dedicata alla Vergine, dopo aver lavorato agli affreschi della sala capitolare e della cappella di Santa Caterina nella Basilica del Santo. Su questi esempi si forma una serie di pittori tra cui Guariento, artista eclettico che alterna motivi giotteschi e eleganze gotiche senza dimenticare i pittori veneziani amati dai signori di Padova, i Carraresi. L’esperienza giottesca è assimilata in modo più originale da Giusto de’ Menabuoi, formatosi in Lombardia sugli esempi lasciati dallo stesso Giotto e dal misterioso Stefano Fiorentino (affreschi nell’abbazia di Viboldone). A Padova egli opera nella chiesa degli Eremitani, nella Basilica del Santo e infine, su commissione dei Carraresi, nel Battistero (1376). Per Bonifacio Lupi, marchese di Soragna e familiare di Francesco da Carrara il Vecchio, lavorano invece nella cappella di San Giacomo nella Basilica del Santo (1372-1379) il bolognese Jacopo Avanzi e il veronese Altichiero (fl.1369-1384), quest’ultimo attivo anche nell’oratorio di San Giorgio (1384). Entrambi procedono verso esiti moderni, costruendo architetture di grande complessità con una resa minuziosa dei particolari. Il primo si distingue per la drammaticità delle figure, il secondo per un modellato più morbido di origine lombarda.