Dopo un processo negoziale contrassegnato da alti e bassi e protrattosi per dodici anni, nel luglio 2015 Iran e P5+1 hanno raggiunto un accordo sul programma nucleare di Teheran. Sebbene gli effetti dell’accordo siano valutabili solo nel lungo periodo, al momento sembra possibile affermare che per Teheran l’accordo si configura come una sicura vittoria. Oltre al non secondario aspetto del sollevamento delle sanzioni, vi è l’aspetto della rottura dell’isolamento diplomatico, nel quale l’Iran era stato relegato a partire dal 2002 in seguito alla scoperta di attività nucleari sospette negli impianti di Natanz e Arak, che si temeva celassero possibili fini militari. Solo qualche mese prima, del resto, George W. Bush aveva incluso l’Iran nel cosiddetto ‘Asse del male’, vale a dire il gruppo di paesi – Iran, Iraq e Corea del Nord – accusati di stare sviluppando armi chimiche, biologiche e nucleari per finalità terroristiche. Tale dichiarazione, di fatto, chiudeva ogni possibilità di collaborazione, sebbene i possibili punti di cooperazione con Teheran fossero numerosi, in una regione, quella mediorientale, che a partire dal 2003 è andata progressivamente destabilizzandosi.
Forse la presa di coscienza degli errori del passato, unita alla consapevolezza della necessità di emanciparsi in parte dagli esigenti alleati nella regione, Arabia Saudita e Israele, ha portato l’amministrazione Usa a rivedere la politica di ferma opposizione e duro isolamento che mirava a strangolare Teheran tramite l’isolamento economico e diplomatico, in favore di una politica meno miope e sicuramente più pragmatica.
Il riconoscimento del diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio, sancito dal Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) firmato a Vienna, rappresenta il biglietto da visita con il quale l’Iran si presenta oggi al mondo, forte del riconoscimento del proprio ruolo di potenza regionale di rango.
L’accordo con ogni probabilità non porterà a una netta trasformazione delle relazioni di Teheran con paesi verso i quali sono ancora forti diffidenza e ostilità, vale a dire Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. Nel caso degli Stati Uniti, però, il processo di confidence-building inaugurato dal negoziato nucleare può proseguire e aprire nuovi scenari di collaborazione – sempre in nome della realpolitik – su fronti e interessi comuni. In primis la ricomposizione della crisi siriana, la risposta all’avanzata dello Stato islamico, ma anche la difficile gestione del processo di state-building afghano.
Nessun cambiamento all’orizzonte per quanto riguarda la tradizionale ostilità nei confronti di Israele. Su questo fronte, anche in considerazione del tipo di esecutivo attualmente al potere a Tel Aviv, lo scenario più probabile è la continuazione della politica del ‘muro contro muro’. Se l’alleanza Teheran-Hamas non è più solidissima, gode invece di ottima salute quella con Hezbollah, che, per quanto interessato più a giocare un ruolo ‘libanese’ e non da semplice esecutore degli interessi di Teheran, non può rinunciare ai finanziamenti iraniani.
Pochi margini di miglioramento anche sul fronte dei rapporti con l’Arabia Saudita, il rivale tradizionale nella regione. L’instaurazione di un dialogo franco tra Teheran e Riyadh, sebbene auspicabile per la ricomposizione di numerose crisi regionali, dalla Siria allo Yemen, sembra lontana dal profilarsi, soprattutto dopo la rottura delle relazioni diplomatiche nel gennaio 2016.
Solide e sempre orientate al pragmatismo, invece, le relazioni con la Russia di Putin. I due paesi, alleati tattici a sostegno di Assad in Siria, intrattengono un rapporto utilitaristico basato sullo scambio di armi e tecnologia al quale nessuno dei due sembra intenzionato a rinunciare. Anche sul fronte dei rapporti con la Cina, grande partner di Teheran negli anni dell’isolamento da parte dell’occidente, non si intravedono cambiamenti: Pechino continuerà con ogni probabilità a invadere il mercato iraniano di merci a basso costo e ad acquistare energia da Teheran.
Dove può avvenire un vero e proprio cambiamento, nella forma di un miglioramento, è sul fronte dei rapporti con l’Unione Europea e i suoi stati membri. Fin dall’indomani della firma dell’accordo di Vienna numerose delegazioni di governi europei si sono recate in visita a Teheran, a dimostrazione della volontà di riallacciare rapporti in alcuni casi storici, inevitabilmente incrinatisi a seguito della crisi nucleare. Se alcune diffidenze possono permanere nei confronti di paesi come il Regno Unito, che ha una lunga e controversa tradizione di ingerenza negli affari interni iraniani e che per questo è ancora visto con sospetto da parte dell’ala più ideologica del regime, altri paesi, come l’Italia e la Germania, sono tradizionalmente ben visti. Oltre agli ingenti interessi economici, questi paesi hanno una solida tradizione di cooperazione scientifica e culturale, dalla quale ripartire per rilanciare il dialogo.