Dopo la rivoluzione digitale
Dall’11 settembre 2001 il mondo si è trasformato, ma quanto si è compresa la magnitudo del cambiamento? Il Sud continua a premere e lo fa attraverso gli strumenti e le strutture che il Nord stesso ha creato (la globalizzazione, la rete, l’elettronica). Per cui ogni strumento – come fosse un nastro di Möbius – si avvolge su sé stesso e determina impreviste geometrie d’uso. In questa fase storica, la cultura antideologica contemporanea evita risposte certe, ma ciò non esclude la possibilità di tentare di formulare, almeno, domande più sensate: come usare gli strumenti che abbiamo creato? Che direzione dare alle nostre impressionanti potenze? Nel contesto di questo saggio, si possono soltanto sfiorare gli aspetti della questione che hanno a che vedere con la consapevolezza del ruolo assunto dagli strumenti elettronici e digitali all’interno del nostro settore disciplinare dopo il 2001.
Strumenti, crisi e sfide
Nella storia dell’architettura, lo strumento è sempre stato elemento fondamentale di rapporto con la materia della costruzione. E con il termine strumento non si intende solo ciò che organizza alcuni aspetti della progettazione e della realizzazione, ma anche la condizione scientifica, lo strumento intellettuale. La prospettiva è una concezione scientifica dello spazio che si invera nell’architettura dell’Umanesimo. Le proiezioni parallele, ortogonali e assonometriche determinano una logica oggettuale autonoma preposta all’oggettivizzazione della produzione industriale. L’analiticità e la serialità dei processi di produzione manifatturiera si traducono in strumenti di astrazione e di formalizzazione sui quali si è basata buona parte dell’architettura funzionalista. Strumenti, quindi, intesi non tanto come mezzo per raggiungere un fine specifico, bensì come occasione di interrogazione profonda, che si impone in particolare nel momento in cui si verifica la nascita stessa di nuovi strumenti nella storia dell’umanità.
Parlando della differenza tra occhiale (utensile) e cannocchiale (strumento) il filosofo Alexandre Koyré scriveva: «Un utensile, ossia qualcosa che – come aveva scorto bene il pensiero antico – prolunga e rinforza l’azione delle nostre membra, dei nostri organi sensibili [è] qualcosa che appartiene al mondo del senso comune. E che non può mai farcelo superare. Questa è invece la funzione propria dello strumento, il quale non è un prolungamento dei sensi, ma nell’accezione più forte e più letterale del termine, incarnazione dello spirito, materializzazione del pensiero» (Études d’his-toire de la pensée philosophique, 1961; trad. it. Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione, 1967, p. 101). I grandi maestri, individuando la necessità di guardare in maniera diversa, hanno creato uno strumento che consentisse di farlo ed elaborato un sistema di conoscenze e una visione che ne formalizzasse la forza innovativa: Filippo Brunelleschi e il telaio prospettico, Michelangelo Merisi da Caravaggio e la camera oscura, Galileo Galilei e il cannocchiale, la controcultura californiana e il personal computer. Il titolo di questo saggio richiama la presenza fondamentale dell’information technology esattamente come strumento in questa accezione alta, materializzazione dello spirito, ‘antiutensile’. Utilizzando la parola rivoluzione sin dal titolo, si sottolinea inoltre come la presenza dell’informatica nel campo dell’architettura sia una componente di impatto epocale, tanto da aprire una lunga fase di interrogazione sulle profonde mutazioni che la comprensione autentica di questo diverso paradigma sta comportando per le caratteristiche intrinseche della stessa architettura.
In questo contesto una domanda pertinente – dopo il 2001 – è se l’informatica serva a creare soltanto le case interattive dei ricchissimi, o effimere perform-ances psichedeliche, o ancora complesse manipolazioni formali, oppure debba servire ‘anche’ ad affrontare le grandi crisi del mondo contemporaneo. I temi dell’inquinamento e dell’uso consapevole delle risorse, dello squilibrio tra Nord e Sud, tra povertà e ricchezza; i temi della trasparenza e della democraticità delle informazioni, ma anche quello dello sviluppo di ambienti e soluzioni che lascino spazio alla presa di coscienza critica e a vere conoscenze: l’informatica assume un ruolo risolutivo quando si inserisce all’interno di simili situazioni di crisi e si distacca dall’effimero. La modernità, d’altronde, non è lo sforzo verso la trasformazione delle crisi in valore? Mediante una tensione che, proprio perché storicamente radicata e motivata, si incanala verso le responsabilità della ricerca vera.
Crisi grandi o crisi piccole. Nel personal computer su cui si lavora può essere registrata la scena di un sordomuto che ‘parla’ al cellulare. Lo strumento che lo consente è lo stesso videotelefonino pubblicizzato per vedere i goal dei calciatori, ma usato in quel contesto il significato si ribalta. Da gadget di fastidioso e superficiale edonismo, a strumento di liberazione, di avanzamento e, anche, di progresso. Un sordomuto ora ‘parla’ al telefono. I genitori separati con i figli che vivono in un’altra parte del mondo possono leggere loro le fiabe via Skype. Internet e Google, d’altronde, finiscono per dare una sensazione di onnipotenza, onniscienza, onnipresenza: attributi che tradizionalmente venivano associati soltanto alla divinità.
Solo l’architettura ha le potenzialità di fare del tempo spazio, e dello spazio tempo; di far vivere la vita nelle cose e nello spazio. Sviluppare la forza dell’immaginazione creativa e sondare le crisi che l’architettura può affrontare, da quelle spaventose e mondiali a quelle più domestiche e minuscole, è sfida necessaria. E lo strumento che può permettere di affrontare queste crisi passa attraverso l’elemento esteticamente, culturalmente e tecnologicamente catalizzante la nostra era: quello informatico. Quanto più si sarà capaci di incrociare i livelli, di intrecciare tra loro i significati e di sentirli insieme, tanto più si trasformeranno in sostanza di cose sperate le occasioni specifiche. La consapevolezza di questa sfida complessa, una volta superati gli entusiasmi per i puri balzi tecnologici garantiti dalle innovazioni elettroniche, è il viatico più importante per l’architettura dopo l’11 settembre 2001.
Paesaggi informatici
Prima di affrontare gli argomenti più pertinenti all’architettura di questa fase, è opportuno considerare il modo in cui si sta evolvendo dopo il 2001 uno dei temi che più hanno caratterizzato la ricerca architettonica degli anni Novanta del 20° sec.: quello del paesaggio, ossia l’interesse della ricerca architettonica ad assorbire all’interno dei propri processi creativi una serie di elementi tipici della formazione degli ambienti naturali. Un’opera significativa a tale riguardo è l’International Port Terminal (2002) di Yokohama in Giappone realizzato da FOA (Foreign Office Architects). Il progetto assolve tutte le esigenze di parcheggio, attracco e servizio di un terminal portuale, ma si caratterizza anche come un vero e proprio parco urbano. La copertura dell’edificio si presenta come un paesaggio artificiale-naturale in continua mutazione: l’edificio ospita, infatti, il nuovo parco-passeggiata e fa quasi dimenticare la complessa macchina d’uso sottostante. Lo strumento di controllo del progetto è interamente digitale e i due architetti, Farshid Moussavi e Alejandro Zaera-Polo, sono riusciti a portare a termine l’opera sperimentando pezzo per pezzo il nuovo know-how informatico, progettuale e tecnologico. L’interesse del progetto non risiede tanto nella specificità dell’idea architettonica – peraltro ampiamente dibattuta – quanto nella grande scala della realizzazione, nella messa a punto di appropriati strumenti informatici di controllo sia della progettazione sia del cantiere, e nell’affermazione di architetti di nuova generazione sullo scenario internazionale.
È interessante focalizzare l’attenzione anche su un’opera progettata da Zaha Hadid (n. 1950), senza dubbio una delle più significative ispiratrici della linea di ricerca del rapporto tra paesaggio e architettura. Hadid persegue un’idea dinamica, guizzante, veloce delle forme: i terrapieni, le autostrade, gli svincoli, i ponti, le ferrovie suscitano il suo interesse. Queste infrastrutture, invece di essere oggetti sul suolo progettati secondo le regole dell’ingegneria dei trasporti, si ibridano con la sua idea di paesaggio e con la possibilità di generare una nuova architettura attraverso fitte reti che riannodano continuamente edificio e ambiente, mutuando le figurazioni dell’uno su quelle dell’altro. Un’opera particolarmente interessante e innovativa a tale proposito è l’edificio centrale dello stabilimento BMW (2005) di Lipsia. Tale edificio si cala fra i tre corpi principali della produzione (carrozzeria, verniciatura e assemblaggio) ed è letteralmente attraversato dai grandi binari delle catene di montaggio. Il sistema terrazzato ascensionale che organizza i diversi spazi e i servizi terziari del corpo amministrativo ospita così, allo stesso tempo, i nastri trasportatori delle automobili in costruzione che si muovono da una parte all’altra della fabbrica. L’edificio vive come un incrocio delle diverse componenti della fabbrica e celebra una sorta di coreografia collettiva; si trasforma in un vero paesaggio abitato condiviso e socialmente accettato. Henry Ford vedrebbe ora le sue catene di montaggio correre direttamente ‘tra il pubblico’ e avvolgersi nello spazio. Gli asettici nastri trasportatori si sono trasformati in spirali nello spazio modificando il rapporto tra pubblico, impiegati e operai. Anzi, gli operai stessi sono quasi scomparsi, trasformati sempre più in tecnici di produzioni robotizzate. La nuova sede BMW misura quindi con precisione le modifiche del mondo contemporaneo rispetto a quello del passato confrontandosi con uno dei miti e dei luoghi sacri del precedente paradigma, ossia la grande fabbrica di automobili.
Lo studio Hadid integra sempre più tecniche di ideazione e sviluppo digitale nel suo lavoro, ma questo fronte di ricerca è ancora più evidente nel lavoro degli architetti di una generazione più giovane. Il paesaggio che cercano di creare i nuovi architetti ‘nati con il computer’ viene creato mediante i sistemi di interconnessioni dinamiche, le interrelazioni, le mutazioni, le geometrie topologiche o parametriche che sono tipiche del mondo elettronico. Si tende a dare forma così a un paesaggio informatico che se non ha ancora la forza di rappresentazione collettivamente condivisa ormai assunta dal lavoro di Hadid, di Frank O. Gehry (che ha completato nel 2003 il grande Walt Disney Concert Hall di Los Angeles) o di Peter Eisenman (che realizza per fasi la grande Cidade da cultura de Galicia a Santiago de Compostela, progetto del 1999), presenta tuttavia caratteri delineati e originali.
La nozione di ‘paesaggio informatico’ è in stretto rapporto con i metodi di indagine e simulazione della scienza contemporanea e ha nel termine complessità la parola chiave. Ora si guardano i tifoni, ora la formazione di nuvole, ora i meccanismi riproduttivi del DNA, ora l’articolazione di crepacci o la sovrapposizione di masse tettoniche e la dislocazione di forze telluriche. Per le nuove generazioni però, queste ricerche non sono evocate con schizzi o con immagini metaforiche, ma sono indagate attraverso simulazioni al computer. In queste simulazioni vengono formalizzati (cioè interpretati con equazioni matematiche) i meccanismi genetici dei diversi fenomeni. Ciò conduce alla nascita di vere e proprie metodologie di progetto (sistemi particellari, attrattori, modificatori ecc.) che concettualizzano la logica di sviluppo delle forme e creano diagrammi generatori costituenti l’ossatura delle nuove architetture.
Un esempio suggestivo di questa nuova direzione di ricerca è uno dei progetti per il concorso del 2003 finalizzato a riqualificare l’area del World Trade Center a New York su cui insistevano le Twin Towers abbattute l’11 settembre 2001. Il gruppo United architects è stato formato per l’occasione da cinque gruppi tra i più interessati ai temi del rapporto tra paesaggio, morfogenesi e informatica: si tratta, oltre al già ricordato FOA, di Kevin Kennon, Reiser + Umemoto, UN Studio e Greg Lynn. Il progetto propone una serie di grattacieli che si ramificano e si intrecciano l’uno con l’altro, lasciando inedificata l’area centrale occupata in precedenza dalle torri. Le figure dei grattacieli intrecciati, abbracciati e danzanti attorno alla radura ricordano un famosissimo quadro di Henri Matisse del 1910, La danse: le forme ad albero dei grattacieli sono affrontate con una serie di tecniche informatiche (lattice, intreccio, complessificazione) espresse in algoritmi manipolabili. Ormai in molti programmi 3D esistono infatti comandi (scripts) che consentono di programmare matematicamente le variazioni della forma architettonica. E queste tecniche sono insegnate sempre più nei corsi universitari, sostituendo le logiche processuali dell’informatica alle regole classiche della composizione.
Digitalizzazione
Barcellona rimane un fulcro avanzato della sperimentazione nell’architettura contemporanea. Dopo il 2001 vi sono state edificate due opere che indicano la presenza, anche in questo campo, di un sentire decisamente nuovo, che si può definire digitale. Il mondo di oggi è decisamente caratterizzato dal costante mutare delle informazioni che come tanti flash colpiscono l’abitante della città. Dopo il 2001 la tecnologia dei computer portatili è diventata matura, e sempre più persone lavorano su modelli leggeri, alimentati a batteria, che hanno enormi potenze di calcolo e possono assolvere alla gran parte delle esigenze di lavoro. Sempre di questi anni è la diffusione di connessioni Wi-Fi (Wireless Fidelity, cioè senza fili). Un numero continuamente crescente di università, case, uffici, ma anche di parchi e luoghi pubblici, è diventato trasmettitore di informazioni. Chi possiede un computer portatile, di conseguenza, non solo può lavorare (anche nei settori altamente specializzati come la grafica, la fotografia e addirittura il montaggio cinematografico) in ogni luogo, ma è sempre più spesso direttamente connesso e interconnesso alla rete.
Si è circondati da schermi: da quelli televisivi, che diventano sottilissimi, e da quelli di personal computer, telefonini, navigatori, lettori di musica, videocamere, fotocamere e così via. Questa onnipresenza dello schermo determina nell’abitante della città una condizione di avvolgimento, se non di bombardamento, da schermo, e una condizione strutturalmente digitale. Lo schermo diventa portatore di una nuova Weltanschauung e il bit colorato, con il suo costante refresh, una sorta di nuovo ambiente nativo. Non ci si deve stupire d’altronde, considerando che ormai gran parte degli abitanti della Terra ha visto dal suo nascere molti più schermi televisivi che alberi. L’onnipresenza dello schermo conduce a una doppia intrigante condizione: da una parte esso è senz’altro ‘superficie bidimensionale’; dall’altra è, come era nel passato il telaio prospettico, elemento portatore di ‘profondità’. Se la condizione superficiale conduce a un ritorno di effetti epidermici e decorativi ben noti in alcuni filoni di ricerca architettonica contemporanea, la ‘profondità’ dello schermo è un tema ricco di implicazioni: di volta in volta questa profondità è illusionistica, interattiva, informativa, o addirittura intelligente. Ecco allora che il rapporto tra uno schermo superficiale e bidimensionale e uno profondo richiama a una condizione di salto ‘dentro’ lo schermo (come nell’opera Through the looking-glass and what Alice found there, 1871, di Lewis Carroll sulle avventure di Alice ‘attraverso’ lo specchio). Le due opere di Barcellona che qui si presentano diventano un’efficace esemplificazione di un tema presente nella ricerca dopo il 2001.
Enric Miralles e Benedetta Tagliabue hanno firmato come EMBT il rifacimento dell’importante Mercat de Santa Caterina (2005): un’opera interpretabile, sin dal primo impatto, attraverso il sentire della digitalizzazione che si è descritto. La struttura si caratterizza immediatamente per la presenza di una grande volta ondulata che unifica le diverse funzioni coprendo l’intera superficie della piazza rettangolare delimitata da blocchi edilizi. La copertura ondulata ha altezze e andamenti variabili come se si trattasse di un grande tappeto che, per stare in piedi, deve piegare la superficie continua in volte di diverso tipo. Con questo principio di irrigidimento, attraverso una geometria variabile, agisce la nuova copertura che raggruppa in un unico gesto le funzioni del mercato sottostante con i nuovi stand per la vendita, i parcheggi interrati, una centrale di raccolta dei rifiuti urbani, la ricollocazione dei resti archeologici del convento preesistente e alcuni appartamenti. Il grande tappeto-copertura, tra l’altro praticabile, è visibile dalle finestre di tutti gli edifici che circondano la piazza. Ed è proprio da questo angolo visuale che si deve leggere la digitalizzazione o, usando un termine tradizionale, la tassellizzazione della superficie: 67 colori diversi caratterizzano i 325.000 esagoni di ceramica che formano un mantello di quasi 6000 m2. Esattamente come un grande schermo ondulato, il tappeto-copertura trasmette energia a tutto il quartiere. In questo caso non si tratta di un ‘vero’ schermo, ma di una struttura che ne evoca soltanto la presenza. Tuttavia tra qualche tempo potrà diventarlo visto che la tecnologia degli schermi flessibili è ormai quasi pronta per un uso diffuso.
Invece il padiglione interattivo Ada, realizzato dall’Institute of neuroinformatics-University/ETH Zürich per l’Expo di Neuchâtel del 2002, ha mostrato come i tasselli colorati di un pavimento possono essere portatori di intelligenza e interazione tra architettura e fruitori. Ma queste osservazioni non vogliono indicare dei ‘limiti’ in un’opera che è un vero e proprio capolavoro dell’architettura successivo al 2001: dire che la pittura di Giotto ‘implica’ o allude a una evoluzione prospettica, infatti, non vuol dire assolutamente segnalarne un limite, semmai sottolinearne ancora di più la grandezza.
Jean Nouvel (n. 1945) è un architetto che, sin dalle sue prime opere, usa schermi, trasparenze, proiezioni, interrogandosi sulle possibilità che le trasformazioni introdotte dall’elettronica comportano. La trasparenza usata in molti suoi progetti, per es. nella Fondation Cartier pour l’art contemporain (1994) a Parigi, non è quella ‘oggettiva’ di Walter Gropius, ma gioca con l’illusione e gli effetti della moltiplicazione dei piani; le proiezioni che adopera nelle stanze di un albergo – The Hotel (2000) a Lucerna – intessono inaspettate relazioni tra l’interno intimo della stanza e l’esterno, conferendo una dimensione onirica all’esperienza di abitare in una camera d’albergo. Naturalmente Nouvel è particolarmente sensibile al mondo degli schermi e della digitalizzazione, ed è interessante scoprire come lo stesso tema di fondo, applicato per di più alla medesima città, si trasformi completamente.
Al tappeto-superficie di EMBT, Nouvel con la torre Agbar (2005) a Barcellona contrappone un monolite a forma di fuso. Molto si può dire su come questo edificio riesca a rappresentare un landmark nella città, ma anche sull’uso delle forme primarie, sull’evidente allusione di potenza che evocano da sempre dolmen, obelischi e monoliti. Dal nostro punto di vista, però, l’aspetto fondamentale è che il grande fuso, se da una parte è capace di essere un segnale convincente nello skyline della città, dall’altra si rivela a una scala più ravvicinata formato da pixel. L’obiettivo è raggiunto attraverso un’articolazione doppia degli strati di definizione della forma esterna. La prima è costituita da una struttura a telaio che segue la superficie del volume e che è anche l’ossatura sostenente una serie di pannelli frangisole. La seconda è una trama di pannelli colorati che riveste il volume del grande fuso ed evoca appunto un immaginario schermo formato da pixel.
In questo caso il mondo della digitalizzazione non è solo evocato. I pannelli frangisole si muovono con sensori termici sviluppando ancora di più l’intelligenza ambientale dell’edificio. Il colore dei pannelli interni può infatti personalizzare strategie dell’azienda dell’acqua di Barcellona (Agbar), committente di questa opera, mentre filtri attivi possono purificare l’aria dall’inquinamento. Non si tratta di evocare sviluppi remoti, in quanto idee di questo tipo si stanno già effettivamente cominciando a realizzare. Per rendersene conto basta considerare la sede di SK Telecom (2005) di Seoul, realizzata dal gruppo di architetti asiatici RAD (Research Architecture Design), legato inizialmente all’olandese OMA (Office for Metropolitan Architecture) di Rem Koolhaas. L’aspetto straordinario dell’edificio consiste nel fatto che i temi architettonici e urbani ben noti del lavoro di OMA si combinano con l’interesse verso un’espressione della digitalizzazione, in questo caso esplicato da una vera e propria implementazione elettronica.
Si tratta di un grattacielo di 33 piani che si erge da un basamento complesso e articolato. Il basamento assolve molteplici esigenze sia plastiche, sia spaziali, sia funzionali; è realizzato attraverso la figura del nastro avvolto su sé stesso per formare i diversi livelli che molto spesso contrassegnano gli edifici di Koolhaas. L’accesso ai parcheggi non è di conseguenza una semplice rampa, ma un vero spazio interstiziale, arricchito anche dalla vegetazione e percepibile come un taglio verso il sottosuolo da chi accede all’atrio dal piano della strada. L’atrio è una struttura spazialmente articolata formata in realtà da due ambiti sovrapposti e interconnessi: il primo ha carattere più pubblico; quello superiore, cui si accede con scale mobili, contiene il bar e una serie di salotti aperti per i funzionari della compagnia telefonica e i loro ospiti. Il primo atrio funziona in stretto rapporto con l’elettronica: è pensato infatti come una galleria d’arte nella quale artisti digitali creano i loro allestimenti in un’atmosfera fluida e con tutti gli accessori interattivi cui Koolhaas ci ha abituato nei suoi negozi Prada. Schermi, sistemi di diodi a emissione luminosa (LED), piccoli display e proiezioni si combinano creando un intreccio stimolante di natura e tecnologia.
All’esterno, sopra il blocco basamentale, si eleva la sovrapposizione dei molti piani di uffici, che può assumere una forma complessiva a parallelepipedo distorto (come quando si tira il vertice di un prisma verso l’esterno in un programma CAD, Computer Aided Design), e che definisce – in maniera efficace come il fuso di Nouvel – lo skyline della città. La stratificazione dei piani non è continua e levigata – come la grande tradizione modernista aveva insegnato e praticato – ma discontinua, e gioca su aggetti e disassamenti dei pannelli vetrati come se una pelle di scaglie sovrapposte venisse scomposta e sollevata da un vento improvviso. Di notte diventa ancora più suggestiva, perché alla forte immagine architettonica si sovrappone un utilizzo innovativo della tecnologia: il grattacielo comincia a vivere come uno schermo, e non a evocarlo soltanto. I sistemi delle luci e quelli del suono diventano infatti elementi attivi e partecipi dell’architettura. Già lungo la strada di accesso ci si accorge di questi ulteriori livelli. I lampioni, che portano il logo dell’edificio e della compagnia telefonica che ne è committente, intensificano la luce all’approssimarsi del passaggio e soprattutto emettono dagli altoparlanti avvisi sonori: «Buonasera, signor Giorgio Rossi, a due isolati da qui il suo vecchio compagno di liceo Aldo Grassi ha aperto un ristorante italiano. Ha quattro stelle qualità nella guida di Seoul. Vuole le indichi la via? Vuole telefonargli? Questo è un servizio SK!». Attualmente si è già al punto che sistemi sensibili sono in grado di leggere – qualora gli si accordi il permesso – alcuni dati nelle nostre SIM (Subscriber Identity Module) telefoniche e di fornire secondo i desiderata indicazioni selettive. Quelli che sembravano ‘solo’ lampioni di buon design, in realtà sono sistemi input/output effettivamente reattivi. Guardando la pelle digitalizzata dei pannelli della facciata a scaglie la sera si nota il gioco delle luci. Queste non vengono proiettate sull’edificio come avviene spesso, ma sono ‘emesse’ proprio nello spessore sollevato di un pannello rispetto all’altro. Le luci non sono affatto immobili, ma mutano continuamente in un ciclo di colori suggestivo e allo stesso tempo equilibratissimo. Naturalmente le luci stesse possono variare continuamente al variare delle situazioni esterne e indicare alcune condizioni della città (il grado di inquinamento, la densità dei visitatori, le condizioni climatiche, la forza del vento, il grado di riciclo dei rifiuti). Mentre singolarmente queste condizioni erano state da anni sperimentate, l’edificio in questione è uno dei primissimi che combina un’efficace forza di impianto e di figura a un’implementazione altrettanto efficace di sistemi elettronici potenzialmente interattivi.
Come si può vedere, il gioco della superficie, la digitalizzazione o lo schermo qui acquistano una ben evidente ‘profondità’ di significato. Che questo accada in Corea, un Paese che tra i pochissimi al mondo è riuscito a passare da una condizione di sottosviluppo a una di pieno sviluppo culturale, politico ed economico, è ulteriore fattore di interesse.
Modelli
Se un aspetto dell’informazione è la presenza del mondo degli schermi racchiusa attorno al tema della ‘digitalizzazione’, il rapporto con l’informatica è ancora più forte se si affronta un aspetto centrale della formalizzazione elettronica: quello della modellizzazione. Il mondo informatico è caratterizzato non solo e non tanto dalla manipolazione del singolo bit informativo (per cui si può facilmente e continuamente variare l’input), quanto e soprattutto dalla possibilità di variare raggruppamenti significativi di informazioni. Cambiare la struttura, l’ordine delle interconnessioni è la chiave del mondo informatico, che non va quindi nella direzione della semplice digitalizzazione, caratterizzante in varia misura quanto prima descritto, ma verso una più complessa modellizzazione delle informazioni. Un buon esempio si ha nell’opera di Makoto Sei Watanabe (n. 1952).
L’architetto giapponese ha colto con molta chiarezza, e da diversi anni ormai, il ruolo centrale dell’information technology nello sviluppo del progetto. Non è interessato a effetti epidermici degli involucri o a distorsioni plastiche, ma cerca al contrario un’architettura che faccia proprie alcune componenti dell’information technology e in particolare la possibilità di relazionare dinamicamente le informazioni: lavora pertanto sulla nozione di modello. Le informazioni contenute nella raffigurazione elettronica di un progetto non sono più rigide (come nei supporti tradizionali), ma facilmente modificabili. Mentre questo aspetto è comprensibile, più arduo è raggiungere la consapevolezza che la novità non consiste tanto nella facilità del cambiamento di un singolo bit informativo, quanto nel fatto che le informazioni elettroniche assumono una connotazione dinamica, a ‘rete’, possono cioè venire manipolate non soltanto nella loro singolarità, ma soprattutto nelle loro relazioni di insieme. Cambiare lo spessore di un muro, per es., in un’appropriata raffigurazione elettronica di un progetto comporta la verifica simultanea sul costo, i valori termici, la penetrazione della luce, l’immagine interna ed esterna, proprio perché il parametro ‘spessore’ può essere legato a molti altri. Gli elaborati che descrivono un progetto tendono così a essere organizzati appunto in un ‘modello’: in una struttura cioè che (come nelle equazioni matematiche) formalizza relazioni tra incognite. La verifica dei risultati può essere compiuta più e più volte attribuendo valori specifici (che sono poi le ipotesi di progetto) alle incognite. Ma non si tratta soltanto di avere una modalità ‘ideativa’ del progetto basata sulla relazione dinamica delle informazioni in fase di progettazione o di gestione successiva: è l’architettura stessa che, ‘a immagine e somiglianza’ dei modelli elettronici, tende a diventare dinamica, interconnessa, mutabile, interattiva. Lo strumento elettronico spinge così a riformulare la natura stessa dell’architettura. In questo processo l’elettronica crea l’ambiente nel quale si viene a collocare una generazione di architetture profondamente diverse rispetto a quelle che erano nate dal paradigma industriale e meccanico.
Già nel 2001 nella mostra Digital/real. Blobmeister: erste gebaute Projekte al Deutsches Architekturmuseum di Francoforte, il lavoro di Watanabe emergeva come uno dei più interessanti della generazione di architetti impegnata sul fronte della ricerca informatica e costruttiva. Accanto a realizzazioni come quelle di Gehry nel Neuer Zollhof (1999) a Düsseldorf, di Hadid nella Mind Zone (2000) nel Millenium Dome a Londra, di Kas Oosterhuis nella stazione per lo smaltimento dei rifiuti (1995) a Zenderen nei Paesi Bassi, di Greg Lynn, Douglas Garofano, Michael McInturf nella Korean Presbyterian Church (1999) a New York, il lavoro di Watanabe per la Subway Station Iidabashi (2000) a Tokyo risulta assolutamente esemplificativo per comprendere le linee di impatto reale nella città contemporanea di un’architettura nata all’interno del paradigma digitale. La stazione nasce da una serie di iterazioni del programma informatico appositamente ideato; esso è pensato per creare una ramificazione delle strutture che, come una rete programmabile e mobile, si insinui nello spazio disponibile per creare gli elementi del progetto. La ramificazione delle strutture generate dal programma è naturalmente soggetta a una serie di elementi perturbativi (gli spazi necessari nei diversi punti del suo sviluppo come le banchine, i percorsi di risalita, gli elementi emergenti di entrata e uscita) e alle regole del dimensionamento strutturale. Questo approccio ha conseguenze profonde tanto nell’immagine e negli elementi di dettaglio del progetto (la struttura a rete che sorregge anche gli elementi segnaletici e di illuminazione, ma soprattutto la creazione dei grandi fiori meccanici come elementi dell’accesso) quanto nelle strutture. In un’idea di città brulicante e in perenne attività, in un’architettura intesa come eterna mutazione, la logica di Watanabe non soltanto si adatta a questo ambiente culturale, sociale ed economico, ma ne esalta profondamente le intime caratteristiche.
La programmazione al computer ha per l’architetto giapponese aspetti in comune con la genetica. Watanabe ha infatti più volte affermato di essersi chiesto a lungo se non fosse possibile creare qualcosa come un ‘seme’ architettonico. I programmi determinano dei codici genetici, dei pezzi di DNA che si evolvono anche in base ad accidenti contestuali: cambiando soltanto alcuni valori immessi, si arriva a produrre forme che sembrano completamente diverse, ma che sono generate dallo stesso codice. Si tratta del perfetto design multiuso: i parametri cambiano, ma il sistema resta lo stesso. Naturalmente risulta sin troppo facile, ma allo stesso tempo assolutamente necessario, richiamare la metafora della mutabilità e della crescita vegetale e il divenire come cardine persino religioso della cultura giapponese.
Interattività
Oosterhuis insieme a Watanabe è uno dei pochi architetti dedicati integralmente allo sviluppo di un’architettura di nuova generazione: un’architettura completamente diversa da quella del passato e che ha il fine di incorporare le possibilità dell’informatica nel settore delle costruzioni. Bisogna guardare ‘dentro’ i modelli matematici, mobili, interconnessi, parametrici e soprattutto interattivi che si hanno nel computer per portarli fuori e farli diventare elementi concreti in una nuova generazione dell’architettura. A Oosterhuis non interessa pertanto una sperimentazione virtuale o illusionistica, ma la capacità della costruzione (o meglio dell’ipercorpo, come viene ricordato sin dal titolo del suo libro Hyperbodies. Toward an e-motive architecture, 2003) di riconfigurarsi continuamente al variare delle diverse situazioni, dei più profondi desideri, dei bisogni. L’architettura dell’informazione vuole assomigliare al computer stesso così come l’architettura funzionalista voleva assomigliare alla macchina per i suoi aspetti di efficienza, di linearità, di logica causa-effetto. In conclusione, il personal computer costituisce il riferimento per l’architettura della rivoluzione informatica proprio per le caratteristiche di costante mutabilità e riconfigurabilità che hanno le informazioni elettroniche.
Per Oosterhuis d’altronde interattività è la parola chiave di questa nuova architettura. Essa è infatti l’elemento catalizzatore di questa fase della ricerca architettonica, perché al suo interno ricade il sistema di comunicazione contemporaneo basato sulla ‘possibilità di creare metafore’ e quindi di navigare prima e di costruire poi sistemi ipertestuali; perché l’interattività pone al centro il soggetto (variabilità, riconfigurabilità, personalizzazione) invece dell’assolutezza dell’oggetto (serialità, standardizzazione, duplicazione); perché incorpora la caratteristica fondamentale dei sistemi informatici, ossia la possibilità di creare modelli interconnessi e mutabili di informazioni continuamente riconfigurabili; perché, infine, l’interattività gioca strutturalmente con il tempo e indica un’idea di continua ‘riconfigurazione spaziale’ che cambia i confini sino a oggi consolidati sia del tempo sia dello spazio. Interessante a questo proposito è iWeb, il padiglione che Oosterhuis ha realizzato nel 2006 fuori dalla storica facoltà di Architettura di Delft (sfortunatamente andata distrutta a causa di un incendio divampato nel 2008). Il padiglione costituisce il centro di questo approccio interattivo che viene allargato a un rapporto aperto ai visitatori e a tutti i possibili utenti della nuova architettura.
Paesaggio dell’informazione
Nella mente degli architetti di nuova generazione da anni sta prendendo forma un paesaggio nuovo, tipico della nuova era: il paesaggio dell’informazione. Quali sono le sue componenti fondamentali? Innanzitutto le informazioni, che ne costituiscono la vera e propria materia prima. Esse fluttuano, si riconfigurano, si modellano in forme significanti e produttive, e poi si muovono e si riaggregano in modo diverso. Si sente, si capisce, si intuisce dentro questo paesaggio mentale una grande distanza dal passato. Se le ruote dentate, le bielle, i nastri trasportatori erano i mattoni primi (e le fonti d’ispirazione) di un paesaggio meccanico e industriale, che è stato poi costruito da Gropius, da Ludwig Mies van der Rohe, da Le Corbusier e da Frank Lloyd Wright, oggi (e ancor più sarà così domani) sono proprio i bit delle informazioni a costituire l’imprescindibile valore di un mondo contemporaneo che spinge per prendere forma anche in architettura. Un secondo elemento di questo nuovo paesaggio mentale è la similitudine con ciò che sempre più quotidianamente si vive. E il paesaggio di oggi non è solo quello della metropoli contemporanea nelle sue mutazioni nei vari angoli del mondo, ma anche e soprattutto quello che viviamo dentro i nostri computer e nelle nostre protesi tecnologiche. È un paesaggio fatto di salti, di sovrapposizioni, soprattutto di interconnessioni dinamiche tra le informazioni: è il paesaggio, appena ricordato, della interattività.
Infine c’è almeno un terzo elemento del paesaggio che nebulosamente prende forma nelle menti degli artisti e degli architetti nuovi. È quello di una natura riconquistata, di nuovo attivamente partecipe del mondo contemporaneo e non più relegata a vassoio per lucenti macchinari. Questa natura riconquistata si muove dentro le ricerche consentite dalle modellazioni elettroniche, vive le mutazioni e ibridazioni del nostro corpo, e si presenta come una sorella attiva e intelligente accanto all’architettura. Questi elementi (informazione, interattività, natura) cercano da anni una sintesi in un’opera di architettura che ne condensi le ragioni e che con la sua forza esemplificativa si presenti come la rilevazione che renda praticabile anche ad altri una nuova possibilità.
La grande storica forza di Diller+Scofidio (Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio) è aver realizzato un’opera architettonica che ha sintetizzato con efficacia molti di questi elementi della ricerca informatica più avanzata. Si tratta di Blur Building, costruito a Yverdon-les-Bains nel contesto dell’Expo 2002. L’edificio rompe tutte le convenzioni precedenti dell’architettura e si propone come un vero e proprio nuovo paradigma per l’architettura a venire. Blur Building non è mai uguale a sé stesso. La grande palafitta ovale di 90 m di larghezza in questo caso ‘è’, prima di tutto, informazione. Attraverso un complesso sistema di sensori, l’edificio muta costantemente al variare di alcuni parametri di lettura delle situazioni esterne. Il grado di umidità, la temperatura, il vento sono rilevati da un insieme di sensori che, attraverso programmi di trasformazione, comandano migliaia di ugelli che spruzzano in vario modo acqua nebulizzata. La nuvola entra in costante mutazione con l’edificio, lo cambia continuamente facendo emergere ora una prua, ora una terrazza, ora un ponte, ora nulla. Senza la lettura e la trasformazione delle informazioni ambientali, ci sarebbe solo la pura ossatura metallica di una piattaforma panoramica (che richiama l’architettura di Richard Buckminster Fuller); ma la vicenda di Blur non è un’estrema visione dell’industrializzazione, essendo tutta protesa verso il 21° sec., verso la storia ancora da scrivere dell’informatizzazione dell’architettura.
Ci si chiederà come faccia l’edificio a muoversi nel mondo delle interconnessioni dinamiche, dell’interattività così presente nel nostro quotidiano informatico. L’idea stessa di edificio come entità statica, chiusa, autonoma e sostanzialmente non reattiva è qui eliminata. L’edificio diventa un elemento di trasformazione che attraverso la sua intelligenza software decide quale input adoperare (in questo caso le variazioni meteorologiche) e quale output generare (in questo caso l’intensità delle nebulizzazioni). Ma, come è ovvio, e come altri edifici nella stessa Expo 2002 dimostrano, si possono cambiare sia gli input sia gli output e in alcuni casi lasciare addirittura gli uni e gli altri abbastanza indeterminati. In questo scenario l’edificio si pone come elemento di trasformazione, come mediatore tra situazioni, desideri, condizioni.
Ecco un caso in cui il rapporto con l’ambiente e l’intreccio tra progressiva coscienza ambientale e sviluppo architettonico ha un’evoluzione evocativa, che richiama un sentire vicino alla modalità simbolica dell’arte. Ma è possibile sulla stessa scia e sullo stesso ragionamento spingersi oltre. L’architettura ‘elettronizzata’ può divenire in qualche misura un elemento di trasformazione delle condizioni ambientali: può depurare l’aria, filtrare la luce, può in vario modo intessere rapporti attivi con l’ambiente. In questo interessante settore sono da segnalare due architetti: Philip Rahm, che ha incrociato il campo prettamente architettonico con quello delle installazioni d’arte e con le scienze meteorologiche e ambientali, e crea nuove condizioni ibride tra architettura, ambiente ed elettronica per lavorare a un’idea di spazio tutto definito dalle informazioni (come esempio si veda il padiglione svizzero Hormonorium alla 8a Mostra internazionale di architettura di Venezia, 2002); François Roche, che, insieme al suo gruppo R&Sie, lavora su questa lunghezza d’onda, ma su edifici veri e propri. Roche sviluppa l’idea degli oggetti architettonici energeticamente attivi nell’ambiente, non solo perché ne prendono energia, ma anche perché funzionano in vario modo come elementi di filtro e purificazione essi stessi. La particolarità di questa ricerca consiste nel fatto di essere radicata su una specificità di sviluppo e di approfondimento di natura digitale e informatica, e non semplicemente tecnologica ed ecologica, e nell’intrecciare attivamente i due fronti più importanti della ricerca contemporanea o se si vuole le due più grandi crisi attuali: da una parte come affrontare la ricerca informatica per aspetti non puramente epidermici, ma di sostanza; e dall’altra come orientarla verso un’architettura sempre più consapevole e sostenibile senza abbassare il livello della ricerca formale ed espressiva, come nel progetto di edificio per uffici nell’area della Défence a Parigi, (Un)Plug (2001).
Dobbiamo dedicare solo qualche parola alla nuova presenza della natura in questo contesto. A chi ha visto Blur, che muta nella notte, si rivela e si nasconde, trasforma l’acqua del lago in nebbia, le luci delle stelle, non rimangono dubbi che una nuova alleanza tra architettura e natura sia all’insegna dell’elettronico, e la frontiera delle nanotecnologie, che avrà la sua affermazione nel prossimo decennio, costituirà un campo fervido di applicazione.
Tensioni strutturali
Questo filone si intreccia naturalmente con quello che è stato approfondito sin dall’origine dei computer, e cioè la modellazione tridimensionale che presenta due fortissime ricadute da considerare. Una è quella che ha una diretta relazione con una base geometrico-matematica. Il grande studio di Norman Foster + partners, attraverso unità di progetto e ricerca specificamente dedicate alla modellazione e parametrizzazione, è all’avanguardia in questo settore di modellazione rigidamente matematica dell’architettura e quindi nell’organizzare coerentemente calcolo, produzione e cantiere. Opere importanti non sarebbero possibili senza questo aspetto di ricerca prettamente matematico-informatica.
L’altra ricaduta interessante è quella data dalla progressiva tendenza verso un modello globale, tridimensionale e informatizzato che contenga potenzialmente, come una rete continuamente mutabile, tutte le informazioni del progetto, e che di conseguenza possa essere continuamente manipolato. La struttura GT (Gehry Technologies) è all’avanguardia non soltanto nello sviluppare i lavori dello studio Gehry, ma anche per l’offerta di know-how informatico all’esterno. Opere che presentano un’elevatissima complessità plastica come l’Experience Music Project (2000) a Seattle o il già citato Walt Disney Concert Hall di Los Angeles non sarebbero concepibili senza questi strumenti.
Gehry con il suo studio genera decine e decine di modelli. Concepisce in rapidi schizzi e in successivi bozzetti plasma la materia, verifica gli spazi, gli effetti tridimensionali, il gioco dei cavi e dei pieni. Realizzato un modello soddisfacente si può digitalizzarlo (cioè leggerlo per punti con un pantografo elettronico) e realizzare un nuovo modello, questa volta elettronico, che sarà la base di innumerevoli altre verifiche e modifiche. Si potranno, naturalmente, avere nuove infinite visioni tridimensionali, ricavare piante e sezioni, studiare contemporaneamente l’insieme e il più minuto dettaglio. Ma un modello elettronico è per sua natura qualcosa di estremamente diverso rispetto a uno tradizionale, perché è un insieme vivo, interagente (per certi versi ‘intelligente’). Mentre in un caso le informazioni sono statiche, nell’altro sono dinamicamente legate le une alle altre. Vi si potrà modificare un elemento architettonico e verificare simultaneamente l’effetto non solo su tutte le visioni desiderate, ma anche sulla normativa, sul costo, sui calcoli statici, sulle dispersioni termiche. Si potrà constatare se un materiale, rispetto a un altro, incide in tutti gli aspetti quantitativi, ma anche come reagisce alla luce naturale o artificiale. Si potranno mandare le informazioni a chi deve costruire l’opera che potrà realizzare al vero quanto serve, magari utilizzando macchine collegate al computer. Il modello elettronico diventa in questa accezione uno strumento usato per studiare, verificare, simulare e costruire. Non è garanzia di successo, ma per il lavoro di progettazione si tratta della più importante conquista dopo l’invenzione della prospettiva.
Vi sono anche modifiche di concezione. Se il processo modernista si muove a partire dalla griglia strutturale verso l’esterno, il processo di Gehry è l’opposto: dalla ‘conformazione della pelle’, vale a dire della superficie esterna, si passa alle orditure secondarie e alla struttura e poi alla conformazione degli spazi. Questo processo skin in comporta un metodo radicalmente diverso rispetto all’approccio ‘industriale’ e ‘modernista’. Il metodo modernista era simile a una catena di montaggio: si perfezionavano i pezzi che componevano le macchine-architettura, si standardizzavano le componenti e si rendevano i vari sistemi (della struttura, degli impianti, dei tamponamenti) il più possibile autonomi e indipendenti. Il sistema era sommatorio, meccanico, assoluto. Il metodo di Gehry è invece ‘relazionale’: la caratteristica fondamentale consiste nella relazione tra le parti, e non nella loro indipendenza. Sotto le curve delle sue architetture, le componenti della costruzione si legano l’una all’altra attraverso un modello elettronico anch’esso realizzato in strati coordinati: uno che riguarda le superfici esterne, uno a filo di ferro che descrive la geometria e la griglia strutturale, e un terzo che delimita i cavi interni. L’insieme forma una sorta di tappeto: ondeggiante, elettronico e, ricordando le traiettorie futuriste e boccioniane, volante.
Un terzo approccio combina l’idea di modello come struttura continuamente mobile, con quello di struttura statica reattiva, riuscendo per questa via a toccare temi molto importanti dell’architettura: la luce, la fluidità, l’espressività della struttura, il senso profondo del costruire e dell’abitare. Naturalmente su questi temi entra in scena uno dei più sensibili architetti di questi anni, Toyo Ito.
Rivoluzione informatica: Toyo Ito
La figura del grande architetto giapponese, Toyo Ito (n. 1941), è assolutamente centrale per comprendere il senso, la portata, le conquiste della rivoluzione informatica in architettura. Nel 2001 l’architetto ha completato la Mediateca di Sendai, ma da almeno tre lustri egli si interroga sul significato che possono avere l’elettronica e l’informatica al giorno d’oggi. E affonda subito nel centro stesso del problema, che non è puramente di natura tecnologica o operativa, ma prettamente e squisitamente di natura estetica.
Come il nuovo mondo, sempre più dominato dalle informazioni e dai suoi flussi, si esprime in architettura? Che scelte, che rivoluzione, che nuovo sentire si impongono? Come è possibile con un salto logico, con una sterzata di ingegno creativo, affrontare le molteplici ragioni e situazioni del mondo contemporaneo e allo stesso tempo come fare in modo che le nuove potenzialità legate all’elettronica si possano tramutare, reificare in architettura? Come fare un’architettura che sia causa ed effetto di questo mondo e di questo pulsare nuovi? Causa, perché una nuova architettura non si darebbe senza la spinta potentissima della ‘terza ondata’ o appunto dell’era dell’informazione; effetto, perché è l’architettura stessa che deve dare a questo nuovo mondo forma e sostanza. Sono domande difficili, ma è proprio nella loro difficoltà che si misura la grandezza di Ito e la forza tranquilla, ma determinata della sua sfida.
Ito è giapponese e vive il mutare delle stagioni, degli agenti atmosferici, del paesaggio con una caratteristica di leggerezza planare e allo stesso tempo con un sentimento quasi mistico del divenire e del mutare che ad altre culture è estraneo. Egli infatti unisce all’interesse per i media elettronici e per tutto il mondo nuovo delle informazioni anche questo sentire, profondissimo e leggero allo stesso tempo, verso gli elementi della natura. Verso il vento, l’aria che muta i suoni, gli alberi che vibrano, verso la luce e naturalmente verso l’acqua. L’acqua, anzi, diventa elemento generatore di due sue opere molto importanti. La prima è la già citata Mediateca di Sendai, in cui emerge un sentire subacqueo e ondeggiante in cui i grandi alberi strutturali si immergono in una superficie trasparente e sembrano muoversi in base ai flussi delle nuove informazioni elettroniche. In quest’opera è come se le onde Wi-Fi che non si vedono, ma che si materializzano sui nostri schermi viaggiando nell’aria, muovessero le tende dei piani liberi della mediateca e facessero ondeggiare come alghe i tralicci che costituiscono struttura, spazio, luce e forma di questo capolavoro della nuova architettura.
L’altra architettura è la Metropolitan Opera House a Taichung City nell’isola di Taiwan (concorso vinto nel 2005). In quest’opera, che si basa anche su un lavoro fatto insieme ad Andrea Branzi, l’acqua non è solo immagine sottomarina e indicatore visivo, ma è forza generatrice perché il progetto sembra seguire nella sua logica il movimento di una goccia che plasma la materia in maniera continua e avvolgente. Sono nessi che affondano innanzitutto nel rapporto fondamentale che Ito intesse con la filosofia, ma anche con la scienza e prima di tutto con l’ingegneria, con il suo interesse verso una formalizzazione programmabile dell’architettura come avviene nel Serpentine Gallery Pavillion (2002) a Londra, o nella ricerca verso spazi fluidi e continui come, per es., nel progetto dell’Island City Central Park ‘Grin Grin’ (2005) a Fukuoka. Opere che esaltano l’ingegneria come opera attiva in una prospettiva in cui risulta fruttuosa la collaborazione con Cecil Balmond. Il miracolo di Ito si rivela così davanti a noi come uno degli esiti più belli e profondi di questa fase dell’architettura contemporanea.
Re-inizi
Per finire è meglio tornare a un caso quasi primitivo di un’architettura in un certo senso senza tempo e senza spazio, un’architettura che è come ‘incantata’ in una condizione che non rincorre le vicende della vita e dei tempi, ma ne coglie l’essenza come speranza di liberazione. È l’esperienza di Samuel Mockbee (nato a Meridian, Mississippi, nel 1944), e del Rural studio, da lui fondato nel 1992. Il Sud degli Stati Uniti – come è ben noto nella musica, nelle arti, nella storia – conserva una tradizione diversa rispetto ad altre parti del Paese, e qui Mockbee ha elaborato un’idea semplice, geniale e soprattutto necessaria: far lavorare gli studenti universitari per costruire cose utili. Ha scelto una delle parti più povere dell’Alabama, il distretto di New Bern, una vera sacca di povertà che sembra quasi Africa, e vi ha impiantato il suo Rural studio. Mockbee e i suoi collaboratori hanno inziato a vivere in una grande dimora coloniale e a studiare le situazioni sociali presenti nella comunità: bambini in riformatorio, perché denutriti o violentati, madri malate e abbandonate, mancanza di aggregazioni sociali e così via. Si è deciso di scegliere ogni anno un caso e di affrontarlo discutendolo con la comunità, facendo effettuare il progetto agli studenti sotto la sua guida, per poi iniziare la costruzione effettiva. L’architetto ha utilizzato anche capomastri e qualche operaio carcerato, e soprattutto ha inventato, attraverso un’accanita sperimentazione, come utilizzare materiali di riciclo. Ora le moquette abbandonate in quadrelli diventano muri portanti, i trucioli sono incollati a formare pareti, le targhe abbandonate dalla locale motorizzazione diventano rivestimento dei muri; ora i piloni della luce si trasformano in puntoni e aste di copertura, i finestrini abbandonati delle macchine in luccicanti finestre a scaglie, i copertoni vanno a costituire il bugnato di una cappella. Le realizzazioni però non rappresentano un effetto di ritorno della partecipazione, come negli anni Settanta del 20° sec., o di una generica solidarietà sociale: le opere sono architetture struggentemente poetiche, di una bellezza e di una necessità assolute. Grandi tetti raccolgono la vita, spazi dinamici s’intrecciano, finestre sghembe si aprono sul paesaggio povero, che però sembra in qualche modo vivere di questi segni.
Il lavoro, appassionante, è costantemente cresciuto; Mockbee è scomparso nel dicembre del 2001, ma le sue architetture rimangono ‘incantate’ a mostrare l’essenza, la sostanza e la necessità. Il lavoro sulle crisi del mondo e della società, insieme alla profonda interrogazione sugli strumenti nuovi che si affacciano alla storia dell’umanità, esaltano la forza dell’architettura e ne indirizzano in tal modo il senso.
Bibliografia
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