doppiaggio e lingua
La storia del parlato filmico è intimamente legata, fin dai primordi del cinema sonoro, alla pratica del doppiaggio. La lingua doppiata, che è forse, indipendentemente dalla qualità dei risultati ottenuti, la creazione più originale della storia linguistica del cinema, ha inciso profondamente sulle abitudini verbali degli italiani, per via dell’enorme esposizione del pubblico ai film americani adattati (ben più numerosi dei film italiani) e per la spiccata tendenza del doppiaggio alla standardizzazione e all’attenuazione delle varietà (➔ cinema e lingua).
Al doppiaggio in italiano formale e impeccabilmente pronunciato si giunse non prima del 1933, vale a dire in seguito a un decreto-legge che vietava la distribuzione di film doppiati all’estero (Raffaelli 2001: 893). Fino a quel momento non erano infrequenti traduzioni scorrette e pronunce incerte, per via dell’impiego di personale straniero. La realizzazione dei primi studi di doppiaggio romani segna la nascita del cosiddetto doppiaggese, vale a dire quella forma d’italiano ibrida tra falsa colloquialità (ricca di calchi e stereotipi), pronuncia impeccabile e formalismo. Il nitore della pronuncia e l’impostazione teatrale delle voci dei doppiatori sono garantiti dalla solida formazione tradizionale di questi ultimi (tra i protagonisti storici, Tina Lattanzi ed Emilio Cigoli), quasi tutti attori di professione e, fino a non molti anni fa, diplomati all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Insieme con la tecnica recitativa e lo stile degli adattamenti, si consolida presto anche il lessico specialistico, con tecnicismi quali adattamento, doppiaggio, riduzione, sincronismo (sulla storia e la pratica del doppiaggio, cfr. Paolinelli & Di Fortunato 2005).
L’adattamento di un’opera audiovisiva risponde a caratteristiche testuali in parte condivise con altri tipi di traduzione, in parte dettate dalla specificità del mezzo. Oltre alla necessità di sincronizzare la traduzione con i movimenti labiali del film in lingua originale, l’adattamento filmico si ispira ai principi della traduzione naturalizzante o etnocentrica (in ingl., target oriented «traduzione sensibile al destinatario»), mirante cioè ad ambientare il più possibile il film straniero nel contesto locale. Quest’intento, tipico della lingua dei mass media, si realizza adattando i riferimenti culturali (o frames) presenti nel film originale, familiari soltanto al fruitore della lingua A – la lingua dell’originale –, sostituendoli con riferimenti comprensibili al fruitore della lingua B – la lingua in cui si traduce –, per evitare effetti di stranezza e incomprensione del pubblico straniero. Un caso tipico, in tal senso, è la sostituzione di titoli o nomi propri: «When it comes to relationship, I’m the winner of the August Strindberg Award», adattato in: «Quando si tratta di rapporti con le donne io sono il vincitore del premio Sigmund Freud» (Manhattan, 1979, di Woody Allen).
Altri tipi di traduzione, invece, come nel caso dei testi letterari, rispondono a esigenze opposte, filologiche (in ingl., source oriented translation «traduzione fedele alla fonte»), con l’obiettivo di restituire al fruitore della lingua B un testo quanto più vicino alla volontà dell’autore in lingua A (sulle peculiarità della lingua adattata cfr. Baccolini et al. 1994; Heiss & Bollettieri Bosinelli 1996; Bollettieri Bosinelli et al. 2000; Pavesi 2006; Massara 2007).
L’etnocentrismo e la volontà di incontrare le attese e le competenze di un pubblico più vasto possibile determinano una serie di accorgimenti degli adattamenti cinetelevisivi, quali l’attenuazione delle varietà geolinguistiche e stilistiche presenti nell’originale; l’eliminazione o la riduzione dei gergalismi e dei tecnicismi; la correzione degli errori grammaticali (anche se voluti dall’autore) eventualmente presenti nell’originale; l’innalzamento stilistico, per es., mediante un lessico meno generico e una sintassi più complessa dell’originale; l’eliminazione dei termini e delle espressioni meno facilmente traducibili o l’utilizzazione di forme più familiari, talora banalizzanti, per il pubblico.
Tali caratteristiche rendono la lingua dei film doppiati ben più uniforme di quella dei film nostrani. Si tratta di una lingua in cui il professore e lo scaricatore di porto tendono a parlare allo stesso modo e da cui è bandita quasi sempre ogni ombra di regionalismo, con l’eccezione del siciliano quale codice-simbolo del doppiaggio dei film sulla mafia o sugli italoamericani (esemplare Il padrino - The Godfather, 1972, di Francis Ford Coppola).
Oltre a critiche di carattere estetico e semiologico (contro l’infrazione dell’unità voce-volto dell’interprete), la pratica del doppiaggio ha provocato reazioni di carattere stilistico, contro errori e imprecisioni di traduzione. Un osservatore non meno precoce che attento osservava, già nel 1936:
La banda sta per l’inglese band; e chi non capisce che si vuol dire orchestrina? «È un amatore» dice la signora. Voi pensate subito a un dongiovanni; oppure a un raffinato collezionista. Si tratta invece di un agile tennista, di un robusto calciatore, di un rachitico cineasta, di un dilettante insomma, di un amateur. Così con queste rassomiglianze, sinonimie, omofonie, quelli che traducono il copione col vocabolario inglese alla mano, senza aver forse mai consultato in vita loro quello italiano, arrivano al prodigio della sincronizzazione. Ed ecco che gli indigeni diventano i nativi perché in inglese si chiamano natives, il fellone, il tristo, un villano dall’inglese villain, il pudore, modestia, dall’inglese modesty, col beneplacito dell’etimologia e degli arcaismi che fanno sempre buon gioco quando torna conto appellarsi ad essi. Il carretto è diventato un vagone da wagon, l’articolo una storia da story, il festeggiare un celebrare da celebrate [...]. Quante sono le parole che offrono al traduttore semplicista una facile sincronizzazione! mustard è la salsa di senape ed egli la traduce con mostarda; camphorine è la naftalina ed egli la traduce con canfora (Raffaello Patuelli, in Rossi 2006: 601).
Quello dei calchi (vale a dire di parole o espressioni pigramente derivate da equivalenti stranieri simili nel significante ma distanti nel significato; ➔ calchi) più o meno inavvertiti, soprattutto dall’angloamericano, è il fenomeno più evidente del doppiaggese. In aggiunta a quelli segnalati dal Patuelli, se ne elencano di seguito altri, tutti penetrati generalmente nella lingua dei mass media oltreché nell’italiano comune: dannato, dannazione e dannatamente (damn, damned; oggi perlopiù fottuto da fucking) invece di maledetto, maledizione e maledettamente; ehi, amico (ehi, man, o buddy, o mate e simili) invece di senti, bello, o della semplice eliminazione del vocativo; abuso di interiezioni tipicamente angloamericane (ehi, uau, iuhù, ecc.) in luogo di altre propriamente italiane (oh, ah, ecc.); assolutamente (absolutely) usato come avverbio affermativo, privo di altro olofrastico di specificazione; bastardo (bastard) invece di altri insulti più comunemente italiani; dacci un taglio (cut it out) invece di smettila o piantala o finiscila; ci puoi scommettere! (you bet!, o you can bet!) invece di senza dubbio!, ci puoi giurare!, te lo giuro!, naturalmente!, lo credo bene!, e simili; esatto (exactly) invece di sì, hai ragione, sono d’accordo, ecc.; non c’è problema (no problem), e simili (dov’è il problema, è un tuo problema, ecc.) invece di va bene (difficile immaginare sostituti per gli altri calchi della serie); sono fiero di (I’m proud of) invece di sono orgoglioso, mi fa piacere, ecc.; tranquilli! (be quiet!) invece di zitti!, silenzio!, state buoni, calmi, zitti, ecc.; bene (well) ad apertura d’enunciato in luogo di altri segnali discorsivi più tipicamente italiani (ecco, veramente, dunque, beh, ehm, ecc.); abuso di voglio dire (I mean) invece di cioè, ecc.; prego (please) invece di per favore; dipartimento (department) invece di ministero; realizzare (to realize) invece di accorgersi, rendersi conto di; essere in condizione di fare (to be in condition to do) anziché poter fare, essere in grado di fare; posso aiutarla? (can / may I help you?) invece di desidera?; suggestione (suggestion) invece di suggerimento; andare a vedere qualcuno (to see someone) invece di andare a trovare qualcuno; lasciami solo (leave me alone) in luogo di un più appropriato lasciami stare / in pace o vattene; sì (yes) invece di pronto nelle risposte telefoniche e di eccomi, dica e simili nelle altre risposte; sicuro (sure) invece di certo come olofrastico affermativo; l’hai detto (you said it) invece di proprio così; lo voglio (I do) invece di sì nella domanda di matrimonio dell’officiante; ah ah invece di sì, d’accordo, ecc.; hm hm (o nulla) invece di prego, figurati e simili in risposta a grazie; vuoi? (will you?, would you?) nelle question tags; abuso di ti voglio bene (I love you), a conclusione di una telefonata o di un incontro, invece di ti abbraccio, ti aspetto, ecc.; abuso di ti amo (I love you) anche per affetti che l’italiano esprimerebbe con ti voglio bene; o cosa? (or what?) invece di o no, per caso e simili (oppure della semplice cancellazione): mi prendi in giro o cosa?
Oltre ai calchi, alla lingua del doppiaggio viene spesso rimproverato un uso dei pronomi personali in funzione allocutiva poco verosimile, per es., con eccessi di tu o, viceversa, di Lei e di voi. E anche, su un piano diverso, l’inverosimile scarsità di elementi tipici della conversazione spontanea, quali le sovrapposizioni di battuta tra più parlanti, le autocorrezioni, le parole spezzate, ecc.
È infine nota la funzione del cinema doppiato come propulsore di anglicismi: baby, cowboy, drink, mister, OK, saloon, ecc.
Già i primi analisti s’erano accorti che da oltreoceano arrivavano non soltanto calchi e cattive abitudini linguistiche, bensì anche un salutare ringiovanimento di stile dialogico e un allontanamento dalle pastoie dell’italiano scritto. Tra questi, Paolo Milano (1938; in Rossi 2006: 546).
Sullo schermo si deve parlare poco, e il linguaggio di tutti i giorni. Così stando le cose, gli americani sono a cavallo [...]: quel gergo disossato e breve che sembra fatto di ammiccamenti e di urti più che di parole, quell’inglese d’oltresponda diventato irrispettoso e pregnante. È la lingua cinematografica per eccellenza, sia detto senza complimento: cioè la lingua più lontana dalla poesia
Anche Giacomo Debenedetti (1937) va ricordato tra gli estimatori del doppiaggio, che ebbe il merito, a detta dell’autore, di aver «debellato [...] il vecchio birignao e sostituito al vezzo di ‘recitare’ la più precisa e concreta abitudine di ‘parlare’» (Giacomo Debenedetti, in Rossi 2006: 610).
Baccolini, Raffaella et al. (a cura di) (1994), Il doppiaggio. Trasposizioni linguistiche e culturali, Bologna, CLUEB.
Bollettieri Bosinelli, Rosa Maria et al. (a cura di) (2000), La traduzione multimediale: quale traduzione per quale testo? Multimedia translation: which translation for which text? Atti del convegno internazionale (Forlì, 2-4 aprile 1998), Bologna, CLUEB.
Heiss, Christine & Bollettieri Bosinelli, Rosa Maria (a cura di) (1996), Traduzione multimediale per il cinema, la televisione e la scena. Atti del convegno internazionale (Forlì, 26-28 ottobre 1995), Bologna, CLUEB.
Massara, Giuseppe (a cura di) (2007), La lingua invisibile. Aspetti teorici e tecnici del doppiaggio in Italia, Roma, Nuova Editrice Universitaria.
Paolinelli, Mario & Di Fortunato, Eleonora (2005), Tradurre per il doppiaggio. La trasposizione linguistica dell’audiovisivo. Teoria e pratica di un’arte imperfetta, Milano, Hoepli.
Pavesi, Maria (2006), La traduzione filmica. Aspetti del parlato doppiato dall’inglese all’italiano, Roma, Carocci.
Raffaelli, Sergio (2001), La parola e la lingua, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, Torino, Einaudi, 5 voll., vol. 5° (Teorie, strumenti, memorie), pp. 855-907.
Rossi, Fabio (2006), Il linguaggio cinematografico, Roma, Aracne.