DORIA PAMPHILI LANDI, Filippo Andrea
Nacque a Roma il 1° marzo 1886, figlio del principe Alfonso e di Emily Pelham Clinton dei duchi di Newcastle. Di salute delicata per una malattia cronica alla spina dorsale, condusse vita particolarmente riservata. Sposò l'inglese Gesine Dykes, da cui ebbe nel 1922 la figlia Orietta.
Dal padre aveva ereditato la grande ricchezza familiare, costituita soprattutto da proprietà terriere e immobiliari, ma del padre non condivise l'interesse per attività economiche e finanziarie, per impegni politici e cittadini; si dedicò prevalentemente all'amministrazione delle tenute e alla beneficenza, assicurando il patrocinio a varie istituzioni, soprattutto romane. Ospitava ancora nel suo palazzo l'istituto creato dal padre a sostegno degli orfani degli operai morti per infortunio sul lavoro, di cui era presidente, quando, rifiutandosi di sottoscrivere il licenziamento di un impiegato ebreo, si dimise e chiese l'allontanamento della sede.
L'arco degli interessi agrari era vasto: dal migliore sfruttamento delle proprietà familiari alla coltivazione delle terre incolte, dalla organizzazione dei contadini alla formazione dei giovani. Nel 1909 entrò nel Comizio agrario di Roma (sezione bonificamento e colonizzazione dell'Agro), più tardi in una Società di mutuo soccorso fra coloni; dopo il 1918 fu presidente del comitato laziale della Associazione colonie dei giovani lavoratori, particolarmente indirizzata alla formazione degli orfani di guerra.
Nel 1919 prometteva a L. Medici del Vascello il suo appoggio ai candidati dell'Alleanza nazionale, lamentando però il "funambolismo politico" prebellico, creatore di situazioni caotiche ("ha talmente esautorato i proprietari che questi non hanno più l'ascendente di una volta verso i loro dipendenti": Arch. Doria Pamphili, lettere private). Il suo isolamento si accentuò all'avvento del fascismo da lui profondamente e apertamente osteggiato più con dichiarazioni ed atti di rifiuto che con maturate scelte politiche alternative (dovette comunque iscriversi nel 1932 alla Federazione fascista degli agricoltori): la manifestazione più clamorosa si ebbe il 18 nov. 1935, quando l'assenza delle bandiere alle finestre del suo palazzo, in occasione della consegna delle fedi nella vicina piazza Venezia, suscitò violenti manifestazioni di un gruppo fascista. Lui stesso, più tardi, racconterà di aver rifiutato di far visitare il suo palazzo a Hitler, il cui viaggio a Roma avrebbe dovuto idealmente ricollegarsi a quello compiuto nel 1893 dall'imperatore Guglielmo II (ospitato del padre Alfonso), così rafforzando la tradizione dell'alleanza italo-tedesca.
La posizione antifascista appare in una serie di lettere (Bartoccini), con cui accentuava anche una scelta di isolamento: nel marzo 1928 respingeva la richiesta di F. Chigi di entrare in un Centro nazionale che si proponeva "di raccogliere intorno a sé gli Italiani, che, per riunire fl sentimento Religioso al culto della Patria, aderiscono lealmente alla politica del capo di governo" (Arch. Doria Pamphili, tit. 1, sottot. 49, fasc. 1, int. D); nel 1934 si dimetteva da socio della Cassa di risparmio, che aveva deciso il versamento di un contributo al partito fascista per opere assistenziali. Lasciò anche l'Azione cattolica, di cui era stato uno dei dirigenti locali, non condividendo lo spirito e l'intento della concifiazione e s'isolò anche nell'ambito della aristocrazia romana, rifiutando di prender parte alla tradizionale visita al pontefice (già da qualche anno si era dimesso da vari circoli cittadini); nel 1943 abbandonò l'associazione di S. Vincenzo de' Paoli.
La polizia lo sorvegliava con discrezione ma senza eccessivo allarme, giudicandolo solo "una nota stonata" (Arch. centr. dello Stato, Divis. Polizia polit., b. 452), mentre p. Tacchi Venturi ne assicurava la protezione presso A. Bocchini. "Il principe Doria non è fascista, ma non ci sono prove che egli svolga opera antifascista" è il giudizio espresso in una relazione al sottosegretario di Stato per la presidenza del Consiglio dei ministri sulla sua attività nell'Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d'Italia, che aveva contribuito a fondare: destavano sospetto le sue relazioni con don G. Minozzi, con p. G. Semeria (nel luglio 1940 romperà ogni rapporto con l'associazione per la pubblicazione di un articolo, "Quando la patria chiama"), con U. Zanotti Bianco. Preoccupavano di più i suoi contatti con ambienti stranieri, diplomatici e giornalistici, soprattutto inglesi e americani, le possibili ripercussioni di un arresto in ambienti aristocratici e vaticani e all'estero.
Il 1° sett. 1939 il D. chiese udienza al re Vittorio Emanuele III a San Rossore: non ricevuto, gli indirizzò una lettera in cui, riferendosi allo stato d'animo del paese, lo scongiurava di non far precipitare il popolo italiano. a fianco della Germania, in una tragica avventura. Il 13 ag. 1940 era mandato, su ordine diretto di Mussolini, al confino ("perché ritenuto pericoloso allo stato di guerra": Arch. centr. dello Stato, Direz. gener. di Pubblica Sicurezza, Cat. A 1, 1938, 28): a Pisticci (presso Matera), ad Agropoli (Salerno), ad Arezzo, dove fu liberato nel novembre del 1941, dopo un intervento del Vaticano e per motivi di salute. Caduto il regime fascista, fu presidente di un Comitato nazionale pro vittime politiche e collaborò con un gruppo, in cui erano L. Visconti, R. Guttuso e U. Morra, per facilitare il loro rilascio dal carcere. Durante l'occupazione tedesca, nascosto in Trastevere, continuò l'opera clandestina di assistenza in contatto con il Vaticano.
Apparve agli Alleati come un uomo di altri tempi ("un vero santo medioevale, dalla reputazione immacolata" - ricorda H. Macmillan - "un uomo fisicamente rovinato ma pur sempre incantevole"), che lo prescelsero, ottenuto il consenso del presidente del Consiglio, I. Bonomi, e del Comitato di liberazione nazionale (CLN), come sindaco di Roma, successore del gen. R. Bencivenga, commissario governativo straordinario. La nomina s'inseriva nella linea di una tradizione che aveva visto spesso il Comune guidato da un membro dell'aristocrazia (l'ultimo era stato G. G. Borghese dal 1939 al 1943). giunta era composta da rappresentanti dei vari partiti del CLN; particolarmente attivo, a fianco del D., era il prosindaco G. Laj, massone, esponente della Democrazia del lavoro.
Il D. passerà alla storia cittadina come il sindaco che concluse il primo discorso alla popolazione con l'appello "volemose bene!", sul quale si è ingiustamente ironizzato: come in altri suoi interventi conteneva un invito ad affrontare, uniti, i gravi e grandi problemi della ricostruzione di Roma, semidistrutta dalla guerra, se non materialmente, socialmente, economicamente, culturalmente. E il sindaco D. era il rappresentante più tipico di una tradizione di rapporto sociale e di vita cittadina dalle lunghe radici.
"Una perenne fiera di povero borgo, sordido però, senza luminarie ed allegrie" osservava L. Bigiaretti su Il Tempo (1° nov. 1944): la popolazione, ingrossata dal flusso degli emigrati, era priva di occupazioni, case, viveri. Né la situazione migliorò con la fine del conflitto quando il Campidoglio dovette ricostituire i servizi cittadini, fornire incentivi allo sviluppo della produttività e del lavoro, elargire sussidi di disoccupazione e garantire libertà politica nella ricostituzione del nuovo tessuto sociale e culturale. Rifiutando le scelte urbanistiche del regime, bisognò anche affrontare, nel quadro di mutati regolamenti edilizi, la ricostruzione e la espansione della città in nuovi quartieri periferici, il trasferimento di alcuni servizi, la delineazione di una mutata rete viaria. Quasi scomparsi i cespiti fondamentali (imposta consumo, servizi pubblici, aziende municipalizzate), il disavanzo nel bilancio comunale passò dagli 833 milioni nel 1944 ai 3 miliardi e 317 milioni nel 1946, non alleviato dalla nuova legge sui tributi locali dell'8 marzo 1945 e coperto in gran parte dall'intervento della finanza statale. A livello governativo si era anche affrontata - e respinta - la vecchia ipotesi di costituzione di un istituto speciale per l'amministrazione della capitale.
Mentre il sindaco D., che aveva guidato il 12 luglio 1944 una visita di ringraziamento al pontefice per l'opera di protezione della città durante il conflitto, ricevendo l'invito al superamento del "confuso groviglio delle febbrili e sterili passioni di parte" (Riccardi, p. 263), continuava sulla sua linea di concordia "apolitica", i membri della giunta comunale affilavano le armi. Le elezioni amministrative del 1946, con il forte successo della lista dell'Uomo qualunque, aggravavano la difficile composizione di una maggioranza. Il D., che lasciava la carica alla fine di quell'anno, veniva sostituito da un commissario governativo.
Era rientrato nella vita privata, sempre più isolandosi da quella pubblica e politica, dedicandosi a impegni assistenziali: la villa sul Gianicolo ospitava orfane di guerra, un terreno era stato ceduto alla colonia agraria "Orti di pace".
Morì a Roma il 3 febbr. 1958.
Il forte peso delle tasse e la difficile conduzione della proprietà, soprattutto agraria, spinsero la famiglia (Orietta aveva sposato l'inglese F. Pogson) a una serie di vendite: il palazzo Pamphilj di piazza Navona passava in proprietà al Brasile; la villa sul Gianicolo, dopo una vivace campagna del quotidiano romano IlMessaggero, al Comune che la destinava a parco pubblico.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. Doria Pamphili, lettere private; Ibid., Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Cat. A 1, 1938, 28; Ibid., Divisione Polizia politica, b. 452; Ibid., A. 5. G, IIguerra mondiale, Internati civili pericolosi, b. 154, fasc- 32, ins. 22/33; Ibid., Segreteria particolare del duce. Carteggio ordinario, b. 711, f. 210. 472; Capitolium, XIX (1944); pp. 35 ss., 47 s. e passim; la lettera al re e quelle della protesta antifascista in F. Bartoccini, Antifascismo a Roma …, in Studi romani, XXXI (1991), pp. 267-278; H. Macmillan, Diari di guerra …, Bologna 1987, pp. 876 s.; A. Lucente, La legislazione nel Comune di Roma, Roma 1955; I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino 1962, ad Indicem; E. Piscitelli, Storia della Resistenza romana, Bari 1965, p. 22; R. Riccardi, Roma "città sacra"? ..., Milano 1979, pp. 263 ss.; F. Fiorentino, La Roma di Charles Poletti, Roma 1986, ad Indicem; G. Talamo-G. Bonetta, Roma nel Novecento, Bologna 1987, ad Indicem. Per il quadro generale in cui il D. svolse la sua opera di sindaco v. anche: Comune di Roma, Note sull'attività svolta dell'amministraz. comunale provvisoria nel periodo 16 giugno 1944-10 nov. 1946, Roma s. d.; G. Contini, Condizioni di vita e lotte operaie a Roma dopo la Liberazione, in Quaderni della Resistenza laziale, 1977, n. 5, pp. 9-120; R. Trevelyan, Roma '44, Milano 1983; L'altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985; G. Gallo, Il dopoguerra e la vicenda del principe F. D., in Corriere della sera, 8 ott. 1989.