DORIA (o D'Oria)
La storia di questa famiglia si confonde molte volte e s'immedesima con la storia di Genova e può, come questa, dividersi in alcuni principali periodi. Sino al sec. XIV i D. primeggiano con le altre grandi famiglie feudali, gli Spinola, ghibellini come loro, e i guelfi Fieschi e Grimaldi, e riempiono la città di gare e rivalità; dopo l'istituzione del dogato popolare (1339), perdono il predominio politico, ma conservano le tradizioni e le funzioni militari e navali; con Andrea salgono al primo posto nella vita cittadina, e, anche perduta questa funzione predominante, conservano sempre per il numero, per le ricchezze e per le aderenze, grande importanza e autorità e hanno, anche in tempi più recenti e in momenti decisivi, una funzione quasi direttiva.
I primi nomi sicuri sono un Martino e un Gherardo attestati da un documento del 1110. Lo stesso Martino fondò nel 1125 la chiesa di San Matteo, parrocchia gentilizia della famiglia. Forse fu suo figlio Ansaldo, dal quale cominciano le genealogie più sicure; console la prima volta nel 1134, ambasciatore spesso in Sicilia e altrove e dal 1147 al 1149 comandante della flotta nella memorabile impresa contro i Mori di Spagna. Simone suo figlio, sei volte console tra il 1175 e il 1188, eletto ammiraglio nel 1189, combatté valorosamente nell'assedio di San Giovanni d'Acri al fianco di Filippo Augusto re di Francia e di Riccardo Cuor di Leone; e non meno valorosamente guidò la flotta durante l'assedio di Damietta nel 1219 suo figlio Pietro, mentre l'altro figlio Nicolò, onorato degli uffici più elevati, e capo, con gli Spinola, del partito ghibellino, partecipava a numerose spedizioni e ad importanti trattative diplomatiche e commerciali, specialmente con la Sicilia. Coi discendenti le lotte e le passioni si accendevano anche di più: nel 1241 Ingo e Manuele, figli di Nicolò, tentarono invano una sommossa per rovesciare il governo guelfo, ma furono cacciati in bando e stettero dieci anni fuori di patria.
Tutti questi D., ma in modo particolare i discendenti di Nicolò, ebbero possessi cospicui e larga partecipazione alle gare coi Pisani in Sardegna per il possesso dell'isola e varie relazioni con Michele Zanche, signore di Logudoro, che finì ucciso a tradimento dal genero, il Branca D. reso tristamente celebre da Dante (Inferno, XXXIII, 134 segg.). Abbondanti le notizie su di lui, che ebbe vita molto agitata, così in Sardegna come in patria; che fu alla Meloria ed era quasi signore di Genova alla venuta di Arrigo VII; che, prima amico, poi acerrimo avversario degli Aragonesi in Sardegna, finì probabilmente nel 1325 di morte violenta. Figura centrale nelle lotte interne di Genova di quel periodo fu pure Bernabò, suo figlio, più volte ammiraglio, per qualche anno capitano di Genova con Opizino Spinola, gran sostenitore di Arrigo VII.
Prima di loro, anche maggiore importanza hanno avuta i discendenti di Pietro, figlio di Simone e fratello del Nicolò da cui Branca deriva. Poco è noto del figlio di lui Oberto; ma il nipote, Pietro anch'egli, fu uomo di governo, armatore di navi e larghissimo provveditore di ciurme e di mezzi finanziarî per le due crociate di Luigi IX, nella seconda delle quali la flotta genovese fu comandata da suo fratello Ansaldo. Ai suoi figli doveva spettare di contribuire come artefici principali all'apogeo della potenza navale genovese.
Oberto appare la prima volta in una fortunata spedizione navale del 1266; ma la sua grande importanza comincia nel 1270 quando, per reazione alla pericolosa e invadente protezione angioina, viene eletto capitano del popolo e, di fatto, dittatore, con Oberto Spinola. E fu un seguito di successi culminati nella battaglia della Meloria, vinta dallo stesso Oberto il 6 agosto 1284, alla quale parteciparono ben 250 appartenenti alla famiglia Doria. Il perfetto accordo durato quindici anni tra i diarchi pare cominciasse a rompersi subito dopo la battaglia; certo è che Oberto si ritirò a vita privata nella sua villa di Rapallo. L'agitazione provocata da questo fatto nella citta si calmò, quando gli fu sostituito il figlio Corrado, ma il nuovo governo non conseguì all'interno e all'estero i successi del precedente. Alla fine del secolo, Corrado era ancora capitano con Corrado Spinola e, andato poi a combattere in Sicilia, fu sostituito da Lamba D., fratello di Oberto, al quale toccò la gloria di vincere sui Veneziani l'8 settembre 1298 la grande battaglia di Curzola. Fratelli dei vincitori della Meloria e di Curzola furono Nicolò, combattente alla Meloria, e Iacopo, a cui si deve l'ultima parte degli Annali cominciati due secoli prima da Caffaro (v.). Fu figlio di Lamba quel Tedisio D. che nel 1291 partecipava all'armament0 della spedizione con la quale i Vivaldi ricercavano la via marittima alle Indie.
Lamba D. e Corrado Spinola deponevano l'ufficio di capitani del popolo nei 1299. e le lotte tra guelfi e ghibellini, tra gli Spinola e i D. per conquistare soli il potere insanguinarono la città e le riviere, specialmente l'occidentale dove i D. si erano costituiti a San Remo e Dolceacqua un vasto dominio ghibellino per contrasto ai guelfi Grimaldi. Da questo punto è difficile seguire nell'affannosa guerra civile e nell'intreccio delle lotte e delle signorie anche straniere la discendenza dei D. che si va spezzando in rigogliosa ramificazione; così è ignoto a quale ramo appartenesse il Domenichino che fu viaggiatore e geografo e scrisse una Relazione degli Stati cristiani, voltata in arabo da al -‛Umarī (v.). Ma nelle lotte interne, come intorno a Savona e in Sardegna contro i Catalani, i D. appaiono sempre capitani e ammiragli; ed uno di loro, Raffaele, ristabilito un'altra volta nel 1335 il magistrato ghibellino dei capitani del popolo, era elevato a quell'ufficio con Galeotto Spinola. Il ritorno di queste due famiglie al potere diede però occasione a una rivolta d'indole veramente popolare, che mise capo all'elezione del doge Simone Boccanegra (1339)
Sorgeva così il dogato popolare e fino al 1528 i D. rimasero esclusi da ogni diretta azione politica. Tentarono essi qualche volta, se non d'impadronirsi del governo in città, di sollevare il contado; ma non riuscirono. Luca, capo dei ribelli nella Polcevera, fu mandato a morte nel 1380; e Cassano, che sollevò nel 1403 le regioni occidentali, venne poi a patti e fu ammiraglio in Oriente e in Sardegna. La funzione dei D. in tutto questo periodo è ancora e costantemente militare. Pagano rinnova le tradizioni di Oberto e di Lamba vincendo i Veneziani, i Catalani e i Greci alleati dinnanzi a Costantinopoli nel 1352, e due anni dopo nella grande battaglia della Sapienza riesce a catturare tutte le navi veneziane e lo stesso doge Nicolò Pisani; Luciano, già vincitore a Zara, nominato comandante supremo sconfigge il 29 maggio 1379 a Pola i Veneziani, ma muore nella battaglia. Gli succedono al comando prima il cugino Ambrogio, che rassoda la vittoria con conquiste costiere, poi Pietro che occupa Chioggia; ma, assediato a sua volta, nel tentativo di liberarsi muore, segnando il principio della disfatta genovese (1380). E accanto a loro Filippo, compagno di Pagano nella guerra a mezzo il sec. XIV, espugnatore di Negroponte (1350) e di Tripoli di Barberia (1355); Corrado, che nel 1409 sottomette Scio ribellata; Giroilamo, che difende Caffa dai Turchi; Baldassare, che vi è console e muore nel 1414; Antonio, capitano di una flotta contro i Catalani; Bartolomeo, che comanda una spedizione a Ventimiglia, come Lazzaro a Barcellona; Costantino e Domenichino, primo principe di Oneglia, capitani nella guerra di Pietrasanta; Nicolò in Corsica contro Ranuccio della Rocca (1504) ed altri moltissimi.
Con Andrea D. (v.) un nuovo periodo si apre nella storia di Genova e della sua casa. Il potere grandissimo di cui godette si riverberò sui congiunti e discendenti; i D. si trovarono così un'altra volta, e píù che prima, alla testa dello stato in una funzione preminente, anche se priva di un nome concreto e di una sanzione giuridica. Prezioso collaboratore di Andrea fu suo cugino Filippino, prima ai servizî di Francesco Maria della Rovere che l'aveva fatto conte di Sassocorvaro, poi di Andrea. Per quest'ultimo, Filippino combatté all'Elba contro i Barbareschi, alla difesa di Portofino contro gli Adorno, e, dopo aver tentato invano di liberare Clemente VII dall'assedio delle truppe del Borbone, a Sassari e specialmente nella battaglia di Capo d'Orso (28 aprile 1528), nella quale sconfisse l'armata di Carlo V. Avvenuto il passaggio di Andrea a parte spagnola, egli con Agostino Spinola occupò Savona mettendola definitivamente sotto il dominio di Genova. Già vecchio, nel 1547 dopo la congiura dei Fieschi occupava il castello di Montoggio dove i superstiti della congiura si erano ritirati. Molto notevole in questo tempo anche Giorgio, mite e saggio governatore di Corsica che, dopo l'insurrezione di Sampiero da Bastelica, stipulò nel 1569 con Alfonso d'Ornano figlio di Sampiero le condizioni per il ritorno dell'isola a Genova.
Prediletto di Andrea era il nipote Gianettino, figlio di Tommaso, il quale, già luogotenente e designato erede del grande zio, aveva combattuto contro i Turchi e i Barbareschi e all'impresa di Algeri nel 1541, contribuendo a salvare le truppe imperiali. Ma sia per la gelosia dei rivali, ch'egli accresceva facendo sentire il peso della sua ambizione e approfittando della posizione preminente dello zio, sia forse per altre ragioni di carattere intimo, si tramava la congiura contro di lui e contro lo zio; ed egli fu ucciso da un colpo d'archibugio nel gennaio 1547 (v. fieschi).
Da Ginetta di Adamo Centurione Gianettino aveva avuto tre femmine e due maschi: Pagano, marchese di Torriglia e colonnello ai servizî della Spagna che fu preso a tradimento e decapitato sotto Tunisi nel 1574, e il maggiore, Gian Andrea (1539-1606), sul quale si riversò tutto l'affetto e l'interesse del prozio, che gli diede in moglie Zenobia, figlia del figliastro e pupillo Marcantonio Del Carretto, e lo fece suo luogotenente ed erede dei beni e del titolo principesco. L'opera di lui come marinaio e politico ha dato luogo ai giudizî più disformi tra gli storici, specialmente per il suo contegno a Lepanto, onde fu accusato di tradimento dai Veneziani e dai pontifici: accusa eccessiva, a cui fa riscontro l'esagerazione di chi lo considera autore "principale della gloriosa e memorabile vittoria" (Iacopo Doria, La Chiesa di San Matteo, Genova 1860, pag. 213). Certo è che, avendo cominciato giovanissimo ad esercitare grande autorità ed importanti uffici e sentendosi sempre sorretto e approvato dallo zio indulgentissimo, ebbe carattere aspro, superbo e intollerante, ma non gli mancarono abilità e coraggio. Anche la sua opera interna e politica dà luogo a disparati giudizî, perché invece di seguire gli esempî di relativa moderazione lasciatigli dallo zio, s'immischiò nelle aspre contese tra nobili vecchi e nobili nuovi; e per ottenere che i primi trionfassero ricorse anche all'aiuto degli Spagnoli, dando occasione a quell'intervento dì Spagna nelle cose interne che Andrea aveva studiosamente evitato. Soltanto dopo l'intervento papale e le aperte aspirazioni della Spagna al pieno dominio, favorì, e vi partecipò, il convegno di Casale tra i ministri dell'Impero, di Spagna e del Papa, dal quale uscì la nuova riforma del 1576, che abolì le differenze tra i nobili e affidò loro senza distinzione il governo. Ma se il diretto dominio della Spagna era evitato, ormai la sua ingerenza era continua e Genova viveva pienamente nell'orbita spagnola. Perciò nei secoli XVI e XVII i maggiori dei D., che continuano ad essere soldati e marinai, furono quasi tutti al soldo di Spagna: come quell'Antonio che fu capitano di galee e guerriero insigne e a San Quintino meritò il Toson d'oro e scrisse anche un Compendio delle cose di sua notizia occorse al mondo nel tempo dell'Imperator Carlo V (Genova 1571); Nicola che, avverso ad Andrea e cospiratore contro di lui, riparò in Spagna; Stefano, marchese di Dolceacqua, capitano generale di Nizza per Carlo II di Savoia ed Emanuele Filiberto, che partecipò attivamente alle guerre in Piemonte fino al 1559 e fu poi in Corsica contro Sampiero da Bastelica; Gian Girolamo, che combatté in Fiandra ed ebbe poi il comando supremo delle forze della repubblica nella guerra contro il duca di Savoia Carlo Emanuele I nel 1625 e morì prigioniero a Torino.
A questa guerra partecipò anche Carlo, figlio di Gian Andrea, che aveva pure combattuto nell'armata spagnola, e più tardi prese parte alla guerra provocata dalla rivoluzione detta di Masaniello, e fu il primo della famiglia a portare il titolo di Duca di Tursi datogli da Filippo III nel 1609. Servirono la Spagna anche i fratelli di Carlo: Andrea (1570-1622), principe di Melfi, da cui discesero Gian Andrea (1607-1640), morto a Cagliari come viceré di Sardegna e gli altri principi di Melfi; Giovanni o Gianettino, il secondo cardinale della casa (il primo, Girolamo, cardinale diacono di Clemente VII nel 1529 e vescovo di Noli, morì a Genova nel 1558), elevato alla porpora da Clemente VIII nel 1604, quattro anni dopo vescovo di Palermo dove stette a lungo come viceré di Sicilia e dove morì nel 1642. Altri servirono l'Impero, come Giambattista di Brancaleone (1644-1691), che fu al seguito dell'imperatore Leopoldo I. In patria primeggiavano per ricchezze e splendori e magnificenze dei grandiosi palazzi, ma erano politicamente eguali al resto della maggiore nobiltà, con essa alternandosi al dogato. Sei dogi annuali ebbero i D.: Giambattista (1537-39); Nicolò (1579-81), che assunse primo il titolo di Serenissimo per non essere da meno degli altri principi d'Italia; Agostino (1601-1603); Ambrogio eletto il 4 maggio 1621 e morto il 12 giugno prima ancora di essere incoronato; Giovanni Stefano (1633-35), riputato il più ricco patrizio d'Italia. Dopo di lui v'è un lungo periodo - sino a Giuseppe (1793-95), penultimo doge della repubblica aristocratica - durante il quale i sospetti e le gelosie degli altri nobili allontanano i D. dalla carica suprema. Ma anche allora essi dànno capitani notevoli al servizio di altri stati, come Alessandro marchese del Maro (1664-1726), viceré e capitano generale di Sardegna; hanno diplomatici di valore, come Clemente ambasciatore a Vienna tra il 1719 e il 1731 e amico di Pietro Giannone; Francesco Maria, plenipotenziario ad Aquisgrana nel 1748, autore di una Storia di Genova dal trattato di Worms alla pace di Aquisgrana, mentre un altro D., Gian Francesco, pubblicava anonima una narrazione dei celebri avvenimenti del 1746 (Della storia di Genova negli anni 1745-1746-1747, libri tre, Genova 1748) e Paolo Mattia, amico del Vico, componeva opere filosofiche e politiche. Non mancano anche in questo periodo i cardinali: Sinibaldo (1664-1733) vicelegato ad Avignone ed arcivescovo di Benevento, Giorgio (1708-1759) nunzio alla dieta di Francoforte (1742) e legato a Bologna e, appartenente al ramo romano dei D. Pamphili, Giuseppe Maria, il segretario di stato di Pio VI. Nell'ultimo decennio del sec. XVIII anche alcuni dei D. seguirono le nuove correnti: così Filippo, che fu tra i capi patrioti novatori, prese parte ai moti più violenti e morì il 22 maggio 1797 nel pieno di un tumulto contro gli aristocratici. Ma i più dei D. non potevano accedere al movimento; e Cesare, appartenente al partito mediano tra i feroci conservatori e i novatori scamiciati, fu inviato con Gerolamo Durazzo a Napoleone Bonaparte per trattare con lui e rabbonirlo. Appartennero invece ai più accesi nemici della Francia e dei novatori Benedetto Andrea, vescovo di Ajaccio, costretto dalle turbolenze rivoluzionarie a lasciare la sua sede, e a riparare a Genova dove morì nel 1794, e Andrea, detto il Rodomonte, che nella Riviera di levante fu violento capo dell'opposizione armata ai Francesi nel 1799. Dei molti rami nei quali la famiglia si divise parecchi sopravvivono, e tra essi i D. Pamphili portano il titolo di Conti di Torriglia e principi di Melfi e Valmontone. Il ramo dei marchesi di Maro e di Cirié diede alti ufficiali e diplomatici a Napoleone e ai re di Sardegna e si estinse con Tommaso, capitano di cavalleria, caduto nella guerra italo-austriaca; e patrioti insigni del Risorgimento ebbero i rami più propriamente genovesi. Celebre sopra tutti Giorgio dei Lonti di Montaldeo (v.). Di lui furono figli Ambrogio, aiutante di campo del duca di Genova alla battaglia di Novara e poi senatore del regno; Marcello, volontario nel 1848 e quindi ufficiale d'ordinanza del Lamarmora; Andrea, volontario nel 1859 e nel 1866, collezionista di opere d'arte, studioso e scrittore di musica; Giacomo (1840-1913), scienziato illustre (v.). Figlio di Ambrogio fu Giorgio, che ebbe larga parte nella vita amministrativa e politica della città, fu deputato al parlamento, e mori nel 1922.
Bibl.: L. Grillo, Elogi di Liguri illustri, I-IV, Torino 1846-57; A. Olivieri, Monete, medaglie e sigilli dei Doria, Genova 1858; I. Doria, La chiesa di San Matteo, Genova 1860. Mancano sui D. opere recenti complessive salvo che per il secolo XIII (C. Imperiale di S. Angelo, Jacopo d'Oria e i suoi Annali, Storia di una aristocrazia italiana nel Duecento, Venezia 1930). Sui singoli personaggi cfr. invece L. M. Levati, I Dogi di Genova, Genova 1914-1930; A. Ferretto, Branca D. e la sua famiglia, in Atti D. Società ligure di st. patria, XXXI, Genova 1903; C. Manfroni, Il figlio di Lamba D., In Scritti in onore di E. Monaci, Roma 1901; id., Gian Andrea D., In Rassegna nazionale, 1 luglio 1901; A. Neri, Lettere di Antonio D., In Giornale ligustico, XIII e XVI (1886 e 1889). Su Benedetto Andrea, vescovo di Ajaccio, v. in Giornale storico letterario della Liguria, 1907 e su Andrea il Rodomonte, in Giornale storico della Lunigiana, 1913. Naturalmente, da consultare le storie di Genova.