stili, Dottrina degli
D. abbozza una teoria degli s. per la prima volta in VE II IV, dopo aver definito nei capitoli precedenti, nell'ordine, quali uomini, quali temi e quale forma metrica siano degni del volgare illustre. La definizione dei vari gradi stilistici avviene quindi nel contesto di una descrizione ‛ formale ' dei caratteri della canzone tragica (§ 1) e ne rappresenta il primo momento; significativamente, la precede il passo importante in cui D. unifica sotto un medesimo concetto di poesis la poesia dei Latini e quella volgare, differente dalla prima non per natura ma per condizioni culturali, in quanto non ancora fondata, diversamente da quella, su un'ars e un sermo ‛ regolari '; e indica al poeta e al teorico di poesia volgare la necessità primaria d'imitare, rispettivamente, il fare poetico e le poetriae dei Latini (§§ 2-3).
Il terreno sul quale dunque D., esplicitamente, si muove è quello delle norme retoriche tradizionalmente elaborate per la poesia latina e a essa immanenti, che egli tenta di trasferire alla dirigenda poesia volgare. In questo senso è pregnante l'immediato richiamo alla massima autorità in materia, l'Ars poetica di Orazio, per quanto riguarda l'aspetto preliminare, ‛ soggettivo ' della scelta retorica, cioè l'imperativo di adeguare la materia prescelta alle proprie forze (VE II IV 4). Segue il problema della corrispondenza fra gli argomenti e i livelli di s., e fra questi e i piani linguistici (§§ 5-6): Deinde in hiis quae dicenda occurrunt debemus discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda. Per tragoediam superiorem stilum inducimus [" adduciamo "], per comoediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem [oportet] ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur; et huius discretionem [" distinzione "] in quarto huius reservamus ostendere. Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere.
Per comodità di analisi la problematica del passo può essere distinta in quattro punti: a) fissazione dei possibili registri stilistici in tre gradi dello s.; b) uso generico, e non specificamente riferito a forme teatrali, dei termini tragoedia e comoedia (da leggersi entrambi, alla medievale, con l'accento sulla i); c) equivalenza fra i tre gradi dello s. e tre generi poetici, uno dei quali, l'elegia, riceve una particolare qualificazione; d) rapporto fra i livelli stilistici (e tematici) e i rispettivi registri linguistici del volgare.
Per quanto riguarda il primo punto, D. non fa che ereditare una nozione, la tripartizione degli s., che è un luogo comune di tutta la retorica medievale, a sua volta derivato da più modelli della latinità classica e tarda. Punti di partenza sono, anche da questo lato, i trattati di retorica più autorevoli per la cultura medievale: la Rhetorica ad Herennium, con la sua classificazione dei tre genera dicendi e relativi vitia (IV 11), l'Orator di Cicerone (XXI 69, XXVIII 100, XXIX 101), che presenta analogo schema, e, più implicitamente, l'Ars poetica di Orazio (vv. 26 ss., 89 ss., ecc.). Momento fondamentale nella storia di queste dottrine è quello in cui, dapprima con Donato e con Servio, lo schema dei tre gradi di s. è applicato alle tre opere di Virgilio, che ne divengono esempio paradigmatico, rispettivamente le Bucoliche di s. umile o basso, le Georgiche del mezzano o mediocre, l'Eneide del grave o sublime o grandiloquus. La versione ciceroniana della teoria resta nel Medioevo, dal nostro punto di vista, abbastanza defilata, incidendo, attraverso la mediazione di s. Agostino (specie nel De Doctrina christiana) e degli agostiniani (Rabano Mauro, ecc.), soprattutto sulla teorizzazione retorica dell'oratoria sacra (ma grande è il peso dell'elaborazione agostiniana nel filone, centralissimo, che individuava nel sermo humilis lo specifico del linguaggio ‛ cristiano ': v. soprattutto le indagini di E. Auerbach). Nella teoria degli s. medievale, qual è rappresentata dalle poetriae e in minor misura dalle artes dictaminis, è invece decisiva la confluenza, verificatasi di buonora, delle formulazioni che fanno capo da un lato alla Rhetorica ad Herennium, dall'altro a Orazio e dall'altro ancora all'interpretazione delle tre opere virgiliane come esemplari dei tre gradi di s.: tale confluenza appare già negli Scholia Vindobonensia all'Ars poetica (carolingi, probabilmente della cerchia di Alcuino), che si possono considerare l'archetipo della dottrina medievale degli stili. In questo testo sono già presenti in nuce le principali caratteristiche che differenziano la teoria medievale da quella classica, e che si possono così riassumere: 1) la polarizzazione degli s., in luogo di essere, come fondamentalmente nella retorica classica, un problema interno all'elocutio, si sposta soprattutto sul terreno del rapporto di convenienza, stabilito a priori, fra materia (res e personae) e s.: a contenuti concettualmente e, ancor più, socialmente elevati deve corrispondere necessariamente uno s. elevato, ‛ sublime ', e così via, sicché Goffredo di Vinsauf parlerà senz'altro di " stylus materiae " (anche questo punto di vista trova applicazione paradigmatica nelle tre opere virgiliane, che mettono rispettivamente in scena pastori, contadini, eroi guerrieri di alto lignaggio); 2) sono frequenti i tentativi (di cui un primo abbozzo è già in Servio) di distribuire verticalmente il lessico poetico, o meglio il repertorio degli oggetti rappresentabili in poesia, in categorie o livelli che corrispondono ciascuno, coattivamente, a un dato livello del contenuto, e quindi dello s. (per cui lychnus è dello s. alto, e i sinonimi lucerna e testa rispettivamente del mediocre e dell'umile); 3) in margine alla teoria dei vitia collaterali ai tre s. abbozzata nella Rhet. ad Herennium, e specialmente a un passo dell'Ars poetica cui si riferirà, forse per ragioni affini, anche D., prende rilievo la discussione sulla liceità o meno dei passaggi interni dall'uno all'altro s., ammessa entro certi limiti da alcuni, negata da altri (e c'è chi, come Goffredo di Vinsauf, emette ora precetti in un senso, ora nell'altro). Si giunge così, per venire a testi vicini a D. e quasi certamente a lui noti, a formulazioni come quella del Documentum de arte versificandi di Goffredo di Vinsauf (II 3 145): " Sunt igitur tres styli, humilis, mediocris, grandiloquus. Et tales recipiunt appellationes styli ratione personarum vel rerum de quibus fit tractatus. Quando enim de generalibus personis vel rebus tractatur, nunc est stylus grandiloquus; quando de humilibus, humilis; quando de mediocribus, mediocris. Quolibet stylo utitur Virgilius: in Bucolicis humili, in Georgicis mediocri, in Eneyde grandiloquo "; o ancora meglio come la Rota Vergilii della Poetria di Giovanni di Garlandia (riprodotta ad es. in Faral, p. 87, o Schiaffini, p. 197), che indica per ognuno dei tre s., humilis, mediocris, gravis, esemplificati al solito con Virgilio, le rispettive categorie di contenuti convenienti, per cui a ognuno si addice una determinata condizione sociale dei personaggi, e determinati personaggi, e via via un diverso tipo di animali, strumenti, luoghi dell'azione, piante....
Del tutto tradizionale nel Medioevo, anche qui a partire dall'antichità tarda, è pure l'uso estensivo, non più legato allo specifico teatrale, dei termini tragoedia e comoedia, che, con la crisi del teatro (specie tragico) antico, non più rappresentato se non rudimentalmente, perdono il loro valore originario e vengono usati per qualificare oppositivamente tipi di poesia narrativa caratterizzati da certi tratti di contenuto (condizione sociale dei personaggi, sviluppo della trama) e correlativamente da un certo livello stilistico. Basti la definizione del Liber Glossarum di Placido (in Corpus Gloss. lat. V 98 e 102): " Tragoedia est genus carminis quo poetae regum casus durissimos et scelera inaudita vel deorum res alto sonitu describunt. Comoedia vero est quae res privatorum et humilium personarum comprehendit, non tam alto ut tragoedia stylo, sed mediocri et dulci ". E da una definizione di questo genere, presente nelle Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa, dipende quanto più tardi D. dice della tragedia e della commedia nell'epistola a Cangrande. Non sorprende perciò che, ancora nel basso Medioevo, la natura teatrale dei due generi non venga riconosciuta neppure quando c'è un testo teorico dell'antichità a indicarla esplicitamente, voglio dire la riscoperta Poetica di Aristotele (una callida rappresentazione parabolica di questa impasse dei commentatori medievali di Aristotele è nel racconto La ricerca di Averroè, di J.L. Borges). Della definizione del De vulg. Eloq. si dovrà piuttosto segnalare un elemento, e cioè che D. trasferisce senz'altro al dominio della poesia lirica due concetti che erano concordemente adoperati per caratterizzare species del genere narrativo (e lui stesso nell'epistola a Cangrande dirà della commedia che è genus quoddam poeticae narrationis, § 29), e come tali distinti nettamente, nella tradizione retorica a lui prossima, dalla ‛ lirica '.
Quanto al terzo punto, il Rajna, seguito da altri (per es. Marigo e Schiaffini), afferma: " io non so di alcuno che abbia battuto la strada scelta da D., prendendole [le designazioni degli s.] da generi di composizione poetica ". Così formulata, l'affermazione non risulta però esatta. È vero che generalmente le determinazioni slitistiche erano limitate all'opposizione tragoedia-comoedia, intorno alla quale veniva raggruppata, senza ulteriori specificazioni riguardo allo s., la serie degli altri generi poetici, in numero aperto (v. ad es. Corrado di Hirsau, Dialogus super auctores, ediz. R.B. C. Huygens, Berchem-Bruxelles 1955, 17-18) o chiuso (satira e lirica o elegia, come ad es. in Matteo di Vendôme); ma è anche vero che dalla meritoria indagine del Quadlbauer emerge una linea del pensiero retorico medievale in cui ai tre gradi dello s. vengono fatti corrispondere altrettanti generi poetici, prendendo la satira il luogo medio fra il grado stilistico alto della ‛ tragedia ' e quello umile della e ‛ commedia ' (complice certo anche l'antica indistinzione fra dramma satiresco e satira): così già in un passo del retore tardo-antico Mario Vittorino (ediz. Keil, VI 81) e poi nella tradizione dei commenti e scolii alla Rhetorica ad Herennium (in uno di essi si scrive: " secundum intentionem dicimus tragoedum uti alto, satiricum mediocri, comoedum humili genere "), e infine in luoghi famosissimi del commento dantesco di Benvenuto (I 18-19 e 153, ediz. Lacaita). Ma c'è di più: l'elegia stessa poteva essere, sporadicamente, utilizzata per consimili tripartizioni. Già è significativo un brano del Candelabrum di Bene da Firenze (cod. Palatino 700 della Naz. di Firenze, c. l V, ripetuto da Bono da Lucca, Cedrus Libani 11, ediz. G. Vecchi, Modena 1963), che pone le elegie ovidiane, assieme alle epistole paoline, a rappresentare il genus mediocre; ancor più lo è una glossa al Laborintus di Everardo Alemanno (ediz. Faral, p. 337) che abbozza, pur senza esplicite corrispondenze stilistiche, una gerarchia di generi poetici in cui l'elegia occupa il gradino inferiore, dopo tragedia e commedia. Ma D. poteva trovare suggerimenti per una concezione dell'elegia come rappresentativa del grado umile di s. in testi della sua biblioteca. Anche senza calcare la mano sul fatto che un'autorizzazione in tal senso poteva venire senz'altro dai versi dell'Ars poetica di Orazio in cui gli " exigui elegi " precedono " socci " e " cothurni " (vv. 77 ss., magari incrociati con altri passi dell'epistola), si può pensare a un influsso della Poetria di Giovanni di Garlandia. Qui il retore inglese, confezionando un esempio di " carmen elegyacum amabaeum bucolicon ethicum " a illustrazione della convenientia di s. e vocaboli alla materia (" verba cognata materiae "), così lo definisce (ediz. Mari, p. 894): " Verba cognata materiae sumuntur in exemplo sequenti, quod est carmen elegyacum amabaeum bucolicon. Elegyacum quia de miseria contexitur amoris; amabaeum quia repraesentat proprietates amantum; bucolicon apo toy bucolon, idest ab hoc nomine bucolo, quod est ‛ custodia boum '. Unde, secundum ordinem quem servat Vergilius, hoc carmen debet esse primum quia in eo observatur humilis stilus, quem sequitur mediocris et gravis ". La connessione fra il genere elegiaco e le caselle della Rota Virgilii traspare implicita del resto da un altro passo (ibid., p. 927) in cui l'elegia (" idest miserabile carmen, quod continet et recitat dolores amantium ") chiude con la tragedia l'elenco dei carmina historica e precede la commedia, che apre quello delle specie di argumentum: dove, ancora una volta, l'unica realizzazione concreta di elegia è individuata nella species amoebae: " Elegiae species est amabaeum, quod aliquando est in altercacione personarum et in certamine amantum, ut in Theodolo [Teodulo] et in Bucolicis ". Sono, si noti, gli unici passi del trattato in cui Giovanni discorre di elegia, che quindi veniva individuata con particolari caratteri tematici, connessi al genere pastorale, e relativa qualificazione stilistica.
Quanto alla connotazione dell'elegia come ‛ stilus miserorum ', si tratta ancora una volta di nozione comunissima nel Medioevo, cui collabora non solo e non tanto la tradizione letteraria più nota, da Ovidio a Boezio a Ildeberto di Lavardin all'Elegia sive de miseria (notare il sottotitolo) di Arrigo da Settimello (probabilmente attiva in D., almeno all'altezza della Commedia), ma, e ancor più, la tradizione grammaticale e lessicografica che, in rapporto spesso a una falsa connessione etìmologica, caratterizzava regolarmente l'elegia come " carmen de miseria "; ecco il solito Uguccione: " Item ab Eli, quod est Deus, dicitur quoddam verbum graecum eleyson, idest miserere... Et ab elesyson, elegus .a.um, idest miser.a.um. Unde elegia.ae, idest miseria; et elegiacus.a.um, idest miser ". Interpretazione che dura ancora nei commentatori di D. (per es. il Lana: " elegia è uno stile da trattar cose di miseria ") e rifluisce nell'uso scrittorio, se ad es. nel prologo del Philobiblon di Riccardo da Bury troviamo elegus usato appunto aggettivalmente nel senso di ‛ misero ': " scolarium elegorum ".
Tuttavia gli elementi di solidarietà del passo dantesco col sistema culturale vigente non ne attenuano la problematicità e, per certo verso, le aporie, legate principalmente proprio all'inserzione dell'elegia. Viene infatti da osservare subito, col Curtius, che mentre di tragedia e commedia viene offerta una pura definizione stilistica, antonomastica, l'elegia è definita in base al suo contenuto, con un recupero quindi dello schema medievale che caratterizza anzitutto gli s. in rapporto alle personae che agiscono nel testo. Non solo ma, come ha osservato il Rajna, la collocazione dell'elegia al gradino più basso che si ha in VE II IV 6, con la sua perentoria limitazione all'uso del volgare umile, contrasta con un altro passo del trattato (XII 6), in cui D., volendo spiegare come mai alcune canzoni illustri di poeti bolognesi derogano da una norma precisa dello s. tragico (l'inizio della canzone con un endecasillabo), nota acutamente che, a esaminarne con attenzione il significato, il loro tono ‛ tragico ' viene a stingere verso l'elegia: non sine elegiae umbraculo haec tragoedia processisse videbitur (osservazione legittimata dai versi oraziani, poi citati in Ep XIII 30: " et tragicus plerumque dolet sermone pedestri / Telephus et Peleus, cum pauper et exul uterque / proicit ampullas et sesquipedalia verba, / si curat cor spectantis tetigisse querelas "?). Dunque sembra postulata, a differenza che nel passo precedente, una contiguità immediata fra tragedia ed elegia (si chiede il Rajna: " o come mai, trapassando il mezzano, si scenderebbe fino al grado ultimo? ").
L'oscillazione, e probabilmente tutta la provvisorietà dello schema dantesco, va spiegata tenendo conto delle difficoltà in cui si trova D. nel tentativo di trasferire, per questo come per altri aspetti, le nozioni della retorica mediolatina a una poetica volgare. E innanzi tutto questa: che, trattandosi di volgare e non di latino, non bastava una tipologia degli s. ma occorreva, in corrispondenza di questa, una tipologia dei livelli linguistici del volgare. In pratica, D. non può perciò far a meno di utilizzare per quest'ultima i termini tradizionalmente riservati ai gradi dello s. (ma, significativamente, sostituisce, per il più alto, il personale attributo di illustris a quelli correnti), e per gli s. ricorre, come la tradizione ben gli consentiva, all'utilizzazione antonomastica di generi poetici. Un altro punto va poi sottolineato. Se, discorrendo di s., era culturalmente imprescindibile per il medievale D. l'uso dello schema tripartito, nei fatti ciò che gli stava soprattutto a cuore, in questa fase dell'opera, era l'opposizione bipolare fra la tragoedia e ciò che non è tragoedia, come risulta immediatamente dalla bipolarità degli aggettivi usati (‛ superior ', ‛ inferior '). Dietro la tripartizione fa capolino una bipartizione, e l'elegia funge da provvisoria sutura dell'asimmetria. Che sia la bipartizione lo schema segreto che governa il passo, è dimostrato anche dal fatto che, riservata senz'altro alla tragedia la casella del volgare illustre, la commedia oscilla fra grado stilistico mediocre e umile (quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur, II IV 6). È forse questo il tratto concettuale più interessante del passo, dato che non si conoscono testi tardo-antichi o medievali in cui la commedia fluttui stilisticamente fra mediocritas e humilitas. È semmai probabile che D., anche per lasciarsi una certa libertà nella successiva trattazione del livello comico, fonda le due diverse tradizioni in materia, quella, prevalente, che assegnava decisamente alla commedia il grado humile (così infine Uguccione), e quella (rappresentata dal citato Placido e da Papia) che le attribuiva lo stile mediocre. D'altro canto si è già detto che teoricamente il passaggio da uno s. all'altro era frequentemente ammesso, e la stessa definizione dello s. mediocre non appariva nella tradizione salda e univoca, dato che piuttosto che una caratterizzazione autonoma della sua posizione stilistica prevaleva la tendenza a vederlo come punto d'incontro oscillante dell'innalzamento dello s. umile e dell'abbassamento dell'alto. Ma allora ciò che caratterizza maggiormente la posizione dantesca è precisamente il fatto che da questa fluttuazione sia esclusa proprio, a differenza che nella tradizione oraziana ortodossa, la tragedia, così isolata nella propria altezza.
Manca totalmente la possibilità d'inferire dal resto del De vulg. Eloq. ciò che D. pensasse più in concreto dei due gradi inferiori di s. e delle relative implicazioni linguistiche. Ciò che resta del trattato, a partire dal paragrafo successivo a quelli qui discussi, verte infatti esclusivamente sulle varie componenti dello s. tragico (gravitas sententiarum, struttura metrica, sintassi e lessico appropriati). Sappiamo solo da tre successivi accenni (VE II IV 1 e 6; VIII 8) che D. intendeva dedicare il quarto libro dell'opera all'esame del volgare mediocre e umile e delle forme poetiche ‛ comiche ' (nell'ultimo di questi passi si parla, ed è l'unica notazione concreta, della possibilità di dettare canzoni in s. comico o le cantilenae o canzonette).
Non molti lumi vengono dalla posteriore epistola a Cangrande (XIII 28-31). In realtà le definizioni che D. vi abbozza non sono realmente comparabili con quelle del De vulg. Eloq.: e non solo perché troppo diverso è l'oggetto cui si riferiscono, ma perché troppo minore che nel trattato latino vi è la capacità di rielaborare personalmente le categorie retoriche tradizionali, come dimostra il fatto che D. dipenda quasi per intero (come dimostrato a suo tempo dal Toynbee) da una fonte non precisamente illustre come Uguccione da Pisa. Anche e soprattutto per i paragrafi retorici bisognerà guardarsi dal sopravvalutare la portata esegetica dell'epistola nei confronti del poema, specie se si accolga una recente proposta che vede in quelle definizioni di tragedia e commedia meno una pertinente e convinta auto-esegesi che una presa di posizione polemica contro la nozione di tragedia incarnata nell'Ecerinis del Mussato. Di fatto D. si trovava a dover giustificare un titolo a suo tempo assegnato all'Inferno e ormai circolante, che i successivi sviluppi del poema (infatti dichiarato dallo stesso autore sacro o sacrato) avevano reso assai meno pertinente. Intanto, rispetto al De vulg. Eloq., la definizione stilistica si complica di una definizione contenutistica (la tragedia è all'inizio admirabilis et quieta e ha una fine foetida et horribilis, la commedia viceversa), per cui, com'è stato più volte notato, se l'etichetta di commedia calza benissimo per il poema dantesco anche per il contenuto, non altrettanto si può dire dell'Eneide, tragoedia per antonomasia (e così chiamata da D. stesso), che obbedisce alla definizione uguccioniana per lo s., non per il contenuto, in base al quale andrebbe invece classificata come comoedia. Quanto allo s., viene ripresa, sempre sulla scorta di Uguccione, la contrapposizione tradizionale: Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragoedia; comoedia vero remisse et humiliter (§ 30). Definizione che viene appoggiata all'autorità di Orazio, con la citazione di quei versi dell'Ars poetica (93-96) in cui si dà licenza alla commedia d'innalzarsi ai toni gravi della tragedia, e a questa di abbassarsi a toni elegiaci espressi " sermone pedestri ". Si è comunemente vista in questa citazione un'implicita giustificazione della pluralità stilistica del poema, capace all'occasione d'innalzarsi ben sopra del livello comico di base, congruente ad affermazioni interne al poema stesso come quella di Pg IX 70-72 (Lettor, tu vedi ben com'io innalzo / la mia macera, e però con più arte / non ti maravigliar s'io la rincalzo). La possibilità di oscillazione da livello a livello, già predicata nel De vulg. Eloq. della ‛ commedia ', ma verso il basso, qui verrebbe riconosciuta invece verso l'alto, con deciso spostamento della mira retorica; e in verità, come risulta dal volume del Quadlbauer, proprio l'utilizzazione di quei versi oraziani a tale fine era precisamente uno dei punti fermi dei commenti e scolii medievali alla Rhetorica ad Herennium. Ma è lecito nutrire dubbi che la citazione oraziana significhi tanto, e i dubbi nascono dalla stessa formulazione sintattica (il sicut che infatti imbarazzava il Rajna); com'è stato rilevato di recente (Pastore Stocchi), D. " cita il luogo di Orazio non già perché intenda approfittare della licenza che vi si concede, ma per ricavare a fortiori la distinzione regolare degli stili dalla formulazione indiretta di questi versi oraziani ". Che sia così pare indicato anche dalla successiva precisazione sul remissus... modus et humilis, senz'altro ridotto ai suoi termini linguistici: il modus è tale perché la lingua è il volgare: quia locutio vulgaris in qua et mulierculae communicant (Ep XIII 31); definizione rincalzata da Eg II 52, dove D. replica il vulgaria della proposta di Giovanni del Virgilio con comica... verba (" idest vulgaria ", chioserà il Boccaccio). Dunque il problema stilistico, ben altrimenti che posto, è annullato in quello linguistico. Il tutto potrebbe allora leggersi come giustificazione al fatto che il poema era scritto in volgare (di fronte a perplessità del genere di quelle che appunto esprimerà di lì a poco Giovanni del Virgilio): precisamente da una riduzione in termini linguistici nasceva la conseguenza logica che, se l'alta tragoedia era scritta in latino, la sua controparte volgare non poteva essere che comoedia, e una comoedia non poteva esser redatta che in volgare (Baldelli).
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